Accademia

La Rivera mi guardò, cercando di studiarmi.
Fu allora che feci lo stesso anche io.
Portava lo smalto nero alle unghie, sinonimo di una donna riservata, ma al contempo elegante e sicura di sé. Il taglio, e soprattutto il colore dei suoi capelli, denotava il ritratto di una persona passionale e capace di fare di tutto.
Il fatto che avesse le gambe incrociate e non aperte, denotava una qualche chiusura; evidentemente, non voleva mostrare le sue emozioni.
Aveva gli occhi lucidi e questo poteva significare solo che la mia storia l'aveva appassionata.
Il tempo della seduta finì, e lei mi disse che avrebbe pensato al programma da svolgere nella prossima seduta: aveva in mente per me un percorso per imparare a perdonare l'errore di mio padre, e un altro per poter superare l'SPT che avevo subito da giovanissima.
Dopodiché, uscii dall'ufficio.

Erano le 17:30 e sapevo già che avrei dovuto correre per non perdermi la lezione impartita dal dipartimento della BAU sul profiling.
Corsi verso l'accademia, più veloce che potevo. Non sentivo più nemmeno le mie gambe, riuscivo solo a percepire il battito del mio cuore accelerare ogni secondo sempre di più. Giurai di averlo sentito esplodere.
Lo scricchiolio delle foglie autunnali sotto i miei piedi mi accompagnò fino alle porte del grande edificio bianco.
Salii le scalette del portico e passai il badge nell'apposito rilevatore, poi la grande e vitrea porta scorrevole si aprì.
Entrai e mi diressi fulmineamente verso l'ascensore del piano terra, rischiando di calpestare un giovane uomo sulla mia via.
Premetti il pulsante del secondo piano sull'ascensore, ma prima che le porte potessero chiudersi, un piede, maschile all'apparenza, con indosso un paio di rovinate Converse nere, si interpose tra l'interno e l'esterno del piccolo impianto, facendo scattare il sensore che fece riaprire le ante.
Entrò un ragazzo sulla trentina, longilineo ed esile. Aveva in mano un bicchiere di carta da caffé colorato e colmo della bevanda.
Si accostò eccessivamente alla parete dell'ascensore, evitando del tutto il contatto fisico e visivo con me.
Premette anche lui il numero due sul pulsantiere, cosicché pensai che fosse un ragazzo del mio stesso corso.
La sua presenza mi mise in soggezione, in una maniera non indifferente.
Riuscii a intravedere, nello spazio tra i pantaloni e le scarpe, che indossava dei calzini spaiati.
Strano. Strano ma decisamente originale.

Non sapendo quanto stessi ritardando dalla lezione, tirai fuori il cellulare per guardare l'ora.
"Sono le 17:37 e ventinove secondi...trenta, trentuno, trentadue"-pronunciò lui, prima che fossi in grado di leggere l'orario sul display.

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