Capitolo XXI (R)

Scusa se dopo essere stato dimesso non sono più passato a trovarti, dopo aver sfiorato il cuscino sono volato subito nel mondo dei sogni. Erano due un mesi che non dormivo così bene!» si giustificò William.

Dopo essere stata abbandonata agli sguardi gelidi di Shawn, con la schiena in frantumi, a patire le agonie dei concorrenti per tutta la notte, non avevo voglia di perdonarlo. «Beato te. Tra Pel-Di-Carota e le lamentele degli ultimi classificati, io non ho quasi chiuso occhio. Hanno scelto il momento più sbagliato per diventare caritatevoli e privarci delle scosse» sbuffai. Per me non era la prima volta senza scosse da quando l'Elezione aveva avuto inizio, dopo l'aggressione erano stati altrettanto indulgenti. Per tutti gli altri erano passati due mesi dall'ultima dormita lontano da quei soprusi.

«Mi sento in colpa per aver dormito così bene...» confessò, spazzolandosi pigramente la chioma arruffata. Si era svegliato da poco, lo avevo buttato giù dal letto a furia di bussare fuori dalla sua stanza. Aveva ancora l'aria rintontita e sbadigliava di continuo, il ciuffo rizzato accanto all'orecchio confermava quanto bene avesse riposato. «In tutto questo tempo non sono ancora riuscito ad abituarmi alle scosse».

Pensai alla voce e alle nottate che spesso avevano superato il limite della follia. Ora che la voce aveva preso consistenza nella mia mente, non sapevo più cosa pensare delle scosse. Una persona mi osservava di nascosto, mi controllava notte dopo notte, e d'improvviso mi donava un prezioso indizio per superare la Terza Prova. In cuor mio speravo che tutti stessero ricevendo quel genere di attenzioni, anche se da ciò che William mi riferiva non sembrava accadere. «È sgradevole, lo so» risposi. Lo era, ma mai quanto avere qualcuno nella testa.

Si stropicciò gli occhi e sbadigliò ancora. «Non è neanche il dolore, a quello mi sono quasi abituato. Il problema è la nausea».

«Nausea?» gli feci eco.

«Sai, quella brutta sensazione che provi la mattina dopo, come se per tutta la notte avessi viaggiato su uno di quei dannati aggeggi volanti e fatto acrobazie spericolate, solo che in realtà cercavi di farti una bella dormita. Quella nausea lì, proprio non la tollero».

Capivo a cosa si riferiva: era quella fastidiosa sensazione di venir rivoltata dall'interno. Solo che io non la provavo al risveglio, ma durante la notte. Se gli avessi detto tutto, William mi avrebbe spronata a parlare con qualcuno come il Comandante Benedikt. Non ero certa di poterlo raccontare in modo da non sembrare del tutto fuori di testa e, inoltre, dopo la messa in scena dell'Osservatore Bogaert, presentatosi come dottore per studiarmi dopo l'aggressione, non volevo farmi prendere nuovamente in giro. «Sì, è molto fastidiosa».

Dopo qualche altro sbadiglio si alzò finalmente dal letto. Si guardò attorno per qualche istante, come in cerca di qualcosa di cui non ricordava la collocazione. In quel caos era difficile trovare anche le più grandi delle cose: la valigia era spalancata in un angolo, i vestiti rivoltati tutt'intorno come fosse esplosa da poco. La scrivania era diventata il cesto dei panni sporchi, e giurerei di aver visto un calzino sbucare da sotto le lenzuola. Era un disastro.

«Fai così tutte le mattine?»

«Non ne salto una!» esclamò orgoglioso. «Nora fa un sacco di storie quando viene a trovarmi».

«Chissà perché...» lo schernii.

Andò in bagno a sciacquarsi, quando tornò riprese a cercare qualcosa da mettersi nella valigia esplosa. In un lampo aveva afferrato una maglietta pulita e stava sostituendo il pigiama.

«Ehi!» esclamai alla vista del suo ombelico. «Avvertimi prima di cambiarti, così esco».

«Perché?» chiese innocente. «Guarda che un corpo così non ti capiterà mai più sotto gli occhi!»

«Grazie, ne faccio a meno» rifiutai subito. «Ti aspetto fuori, non metterci troppo».

«E tu non farti aggredire per i corridoi!» rispose, mentre sgusciavo fuori.

Lui ci scherzava sopra ma io, a distanza di un mese, ero ancora spaventata. Aspettai dietro alla porta della sua stanza, senza riuscire a non controllare costantemente gl'imbocchi del corridoio. Avevo ancora la sensazione che Paterson potesse sbucare dal primo angolo buio e finire quello che durate la prova aveva iniziato, nonostante sapessi che stava scontando la sua pena nel penitenziario di Porebury. A causa di questa mia paranoia avevo imparato a voltarmi al primo rumore sospetto, riuscendo a prevenire qualsiasi tentativo di prendermi alle spalle.

Sentire la serratura di una stanza aprirsi ormai era cosa da poco per me, capire chi ci fosse dietro andava aldilà delle mie capacità. A due porte di distanza da quella di William, venne fuori un candidato ancora mezzo addormentato, il nido di capelli bruni mi impedì di capire chi, lasciandomi in balia di quella soffocante sensazione che ghermiva ogni volta il mio debole cuore. Persino dopo avermi salutato e aver capito chi fosse, ci misi un po' a riacquistare la calma.

«Josef» dissi ricambiando il saluto.

«Aspetti William?» chiese, sistemandosi la maglietta grigio militare. Più che la maglietta, avrebbe dovuto guardare i capelli.

«Sì».

«Voi due non vi separate mai...» Aveva l'aria di essere una domanda, ma anche una constatazione poco gradita. Per mia fortuna, invece, William non mi aveva dato retta ed era rimasto al mio fianco come amico apprensivo.

«No, mai» puntualizzai, per poi bussare alla porta per sveltire il biondino.

I passi William si fecero distinti, finché non aprì la porta dicendo: «Arrivo, arrivo! Te l'avevo detto di restare dentro e vedere il mio bel...» Si bloccò alla vista del nido arruffato di Josef. «Ehi» lo salutò ridacchiando.

«Stavo andando alla mensa, venite?» propose Josef, senza chiedersi minimamente il perché William stesse per scoppiare in una violenta risata senza freni.

«Certo» dovetti rispondere io per entrambi.

Durante il tragitto io William commentammo a suon di sguardi l'aspetto del povero Josef, provando a non metterlo a disagio. Una volta nella mensa gli altri candidati non furono altrettanto magnanimi. Eccetto i risolini di qualcuno, il peggiore commento fu quello di una ragazza del gruppo degli Effettivi, che lo paragonò a un gomitolo di lana malriuscito.

A detta di William, molto più bravo di me a ricordare facce e nomi, il nome della ragazza si chiamava Opal Nowak. Dopo la Terza Prova le classifiche erano cambiate nuovamente, quindi tutto il suo schema mentale sui posti era da sostituire con i nuovi risultati. Io, ad esempio, ero quindicesima del gruppo dei Positivi. Non avendo chiuso occhio avevo visto scattare in tempo reale la spia rossa della tessera, scoprendolo con un certo sollievo. Quando avevo provato a chiederlo a Shawn, mi aveva risposto con uno dei suoi criptici e irritanti commenti: "sempre più in alto, Vèna". William, invece, mi aveva lasciato l'onore di leggergli del suo tredicesimo posto tra i Positivi perché ancora troppo assonnato per distinguere le lettere e i numeri.

Molti continuavano a tacere sui loro posti in classifica, altri lo gridavano in modo da renderlo pubblico. Dopo la Terza Prova anche i primi posti divennero svantaggiati, ma comunque desideratissimi. Alla fine dei conti scoprimmo l'intero gruppo dei Positivi prima dell'inizio dei nuovi allenamenti; avevamo acquistato più membri del Quarto Gruppo che avrebbero spalleggiato Brunuas, Esral e la loro combriccola, saliti di un gradino ciascuno.

Riuniti tutti nella palestra, potevo percepire il pericolo che derivava dai nuovi arrivati. L'originario Quarto Gruppo era stato nuovamente assottigliato, perdendo non cinquanta membri come dopo la Seconda Prova, ma trentacinque. Il modo in cui ci eliminavano era strano, d'altronde cosa non lo era lì?

Per rincarare la dose di stranezza, l'istruttore Osborne decise di farci iniziare i nuovi allenamenti con un po' di riscaldamento autonomo e, subito dopo, mise mano alle armi. Letteralmente.

«Questi gioiellini diventeranno i vostri migliori amici fino alla Quarta Prova» disse brandendo l'arma. Un fucile lungo quanto il suo braccio, nero onice con una doppia impugnatura. «Questo è un P0K-C2, una delle sole tre armi presenti su Phērœs, data in dotazione ai militari. Come tutte le armi della nostra Nazione, sono dotati solo della funzione di stordimento e sono a ricarica automatica. La doppia impugnatura da spalla permette di colpire rede la mira perfetta» aggiunse con gli occhi scintillanti di un bambino alle prese con un innocente giocattolo. Solo che quello non era un giocattolo, ma un'arma.

L'istruttore non era l'unico eccitato all'idea di impugnare il fucile, quasi tutti i concorrenti non aspettavano altro che riceverne uno e iniziare a colpirsi l'un l'altro.

«L'unica pecca è che sono molto ingombranti e pesanti da trasportare. I cadetti vengono addestrati per anni al loro utilizzo, voi dovrete fare un corso accelerato. Almeno chi di voi potrà usarlo». Passò il fucile al cadetto al suo fianco, prendendo una pistola dalla sagoma quadrata, con un'impugnatura molto sottile. «Questa è una Queenser, l'arma usata dai poliziotti durante rari conflitti. Unica funzione di stordimento, piccola e maneggevole, grilletto unico e un antipatico sistema di ricarica manuale. La mira dipende dalla bravura di chi la utilizza. Sicuramente l'avrete vista durante le Olimpiadi Sportive, categoria di caccia olografica e poligono. Vi allenerete tutti con queste, solo pochi di voi riceveranno il fucile».

«Come li distribuirete?» chiese subito uno dei nuovi entrati a far parte dei Positivi. Quelli nuovi avevano la brutta abitudine di rivolgersi ad Osborne con modi sprezzanti, senza sapere che quella era la cosa che più odiava al mondo. Un buon modo per inimicarselo era quello, l'latro era parlare durante gli allenamenti come spesso facevamo io e William.

«Io, naturalmente. Vi osserverò per scegliere il più meritevole, e se in futuro mi interromperà qualcun altro, allora quella persona vedrà il fucile solo nei suoi più intimi sogni» ribatté l'istruttore, come da me anticipato. Mi preoccupava conoscerlo così bene, ormai erano tre mesi che mi allenavo con lui. In effetti, a differenza degli altri, ero riuscita a mantenermi sempre nello stesso gruppo, che guarda caso era il più desiderato.

Il cadetto schiavizzato corse a porci le armi, che Osborne dovette specificare di tenere inattive. Tenerla tra le mani mi fece un brutto effetto, era così fredda e dura al tatto, priva di ogni nota di dolcezza, come solo un'arma poteva essere. William passava la Queenser tra le mani, come se fosse incandescente e non volesse scottarsi; molti erano spaesati come me e lui, altri si sentivano anche troppo a loro agio. Tra di loro c'erano Brunuas ed Esral, per non parlare di Iruwa che simulava degli spari con la bocca usando noi come bersagli. Shawn la impugnava con noncuranza, da bambino i manuali di armi erano tra i suoi volumi preferiti, insieme a quelli di storia, ingegneria e botanica. Quando si è costretti a letto sono ben pochi i libri che non ti piacciono. Alle mie spalle, Alexa armeggiava con la sua Queenser con aria seccata; da lei mi sarei aspettata molta energia. Dopo la Terza Prova aveva perso la voglia di vantarsi del suo posto in classifica e di ostentare le sue abilità.

Iniziai a chiedermi perché ci stessero lasciando delle armi. Eravamo incapaci di usarle, bastava guardaci per capirlo. A uno di noi parti per sbaglio un colpo che sfiorò il cadetto, scomparendo a contatto con la parete. Dopo quell'evento l'istruttore non smise di ripeterci di fare attenzione.

Per il vero allenamento Osborne ci fece spostare nell'area del cortile esterno, dov'era stato allestito un poligono con dei bersagli abbastanza particolari: fluttuanti e tondi, con un lato liscio decorato con dei cerchi colorati e un altro sferico. I soldati continuavano i loro allenamenti nelle aree restanti, occupando poi anche la palestra. Ogni volta erano costretti a spostarsi per noi, Oscar aveva saltato un mese di allenamenti per aiutare noi con la prova.

«La reale stanza di allenamento si trova nel piano sotterraneo, oggi però serve per le esaminazioni dei nuovi Latori quindi abbiamo ritenuto giusto cedergliela. Da domani, però, la vostra nuova palestra sarà quella, dove potremo lavorare con sulle attrezzature giuste con più calma. Intanto vi spiego cosa sono quelli». Ci avvicinammo per guardare meglio. «Questi sono dei piccoli robovettori che fungeranno da bersaglio, fisso e mobile. Ora sono in modalità fissa, meglio se vi concentrate sull'arma per ora. Ammesso che riuscita ad usarla...» aggiunse con l'accenno di una risata. «Il cadetto Lemmers vi darà una piccola dimostrazione, è il migliore della sua squadra».

Lemmers si piazzò alle nostre spalle, mise in attò una strana manovra per caricare l'arma e, dopo qualche istante di mira, sparò un colpo che centrò il bersaglio sospeso dritto nel mezzo. «Per ricaricare dovete tirare quattro volte la levetta, abbassarla e spingere. Quando s'inceppa, smontate la parte inferiore, bloccate il grilletto e spingete la leva interna» disse.

Solo a sentirlo parlare non ci stavo capendo nulla. Tirare, smontare, bloccare... Troppe cose da fare tutte insieme per una stupida pistola.

«Può sembrare facile, ma vi assicuro che non lo è. Per questo oggi nessuno, e ripeto, nessuno, dovrà sparare». Osborne lanciò uno sguardo al candidato che prima aveva quasi colpito il suo cadetto. «Passerete la giornata ad esercitarvi: caricherete, punterete ma non sparerete. Chiaro?»

Rispondemmo in coro, senza scelta. Nonostante gli avvertimenti di dell'istruttore, ero certa che qualcuno avrebbe sparato qualche colpo. Speravo solo di non diventare io il bersaglio...

«Teoricamente dovrei sciogliere i gruppi» proseguì. «Ma così riesco a gestirvi meglio, quindi penso proprio che li ricreerò quando sarete pronti a sparare. Per ora invece, lavorerete singolarmente».

Ci intimò di cominciare con un ghigno da parte a parte, camminando tra di noi come un falco alla ricerca di una preda. Quell'uomo ci odiava, ne ero certa, ma chiunque avesse avuto l'idea di consegnarci quell'arma doveva farlo molto di più. Le Queenser erano difettose, nella maggior parte dei casi la manopola si incastrava prima di riuscire a caricarla. Tiravo quattro volte, poi abbassavo e l'arma scricchiolava, costringendomi a smontarla. Al decimo tentativo iniziammo tutti a perdere la pazienza, tanto Iruwa finì col gettarla a terra innervosita. Osborne le disse che se aveva intenzione di restare in gara e non finire come Paterson, allora avrebbe fatto meglio a raccoglierla.

Era la prima volta da quando era stato eliminato che lo nominavano, mi fece uno strano effetto. Era anche la prima volta che lo usavano da esempio, forse perché dopo un mese di tranquillità – se così la si poteva chiamare – i candidati iniziavano a dimenticarlo.

Riprovai finché non iniziarono a farmi male le mani. Ci voleva una gran pazienza e normalmente in me scarseggiava. Imparammo tutti l'importanza di bloccare il grilletto dopo uno dei nuovi arrivati si sparò alla propria gamba, cadendo a terra privo di sensi. Gli effetti duravano una mezz'ora, ma comunque non ci tenevo a fare la sua stessa fine. Qualcuno riuscì anche a caricarla nel modo giusto, e con mio stupore non si trattava di Shawn. Lo osservai abbastanza da veder colore le gocce di sudore sulla sua fronte. Vederlo in difficoltà era stranamente appagante. Al contrario di lui, Esral era il ritratto della calma. Quando l'arma s'inceppava, ricominciava come se fosse del tutto normale averne una tra le mani.
Io e William, quel giorno, non ci riuscimmo neppure una volta.

• • • • •

Durante la cena le vecchie alleanze si riformarono. Al nostro tavolo ritornarono tutti: Maximilian, Quiana, Josef, anche qualcuno di nuovo. Opal, la ragazza schietta di quella mattina, si era accomodata al fianco di William e si era intromessa nella conversazione come se ci conoscesse da una vita, anche se era la prima volta che si avvicinava a noi. Ci raccontò la sua storia all'interno dell'Elezione, come per tre prove a era rimasta nella classifica dei Qualificati e finalmente era giunta tra gli Effettivi, insieme a Maximilian e Quiana. A William stava simpatica, e anche a me non dispiaceva.

Per la prima volta dopo quella che mi sembrava un'eternità, finalmente ci eravamo riuniti per parlare di altro oltre l'Elezione. La nostra era una semplice conversazione tra ragazzi.

L'atmosfera allegra svanì quando Pel-Di-Carota e Adele, crollata nel gruppo dei Qualificati, si accomodarono al nostro stesso tavolo, seguiti da Alexa, Karter, Zwendaly e quel bamboccio di Derek, scampato per un pelo al Quarto Gruppo. L'unico collegamento tra noi e loro era Quiana, l'innocente ragazzina che parlando con Shawn tentava di coinvolgere i due gruppi. Il problema era che nessuno aveva voglia di mescolarsi con loro. Ci concentrammo sul nostro gruppo, finché Shawn non decise di essere rimasto in silenzio per troppo tempo.

Anche quando il Quarto Gruppo si faceva gli affari suoi e, per qualche istante, ci dimenticavamo delle nuove prove, quella Testa Rossa non riusciva a farsi gli affari suoi.

«Oggi ti ho visto in difficoltà con l'arma, William» disse. Prima che gli sbattessi in faccia le gocce di sudore che aveva versato lui durante l'allenamento, aggiunse: «Come tutti, del resto».

«Ho dovuto rifarlo venti volte prima di capire come si smontava!» farfugliò Derek a bocca piena. Quel ragazzo aveva dei radar al posto delle orecchie.

«Quindi abbiamo tutti le stesse armi?» domandò Opal, sorpresa.

Shawn le rispose con un'innaturale cordialità. Metteva i brividi. «Naturalmente».

«Almeno noi uomini siamo avvantaggiati!» continuò Derek imperterrito. Potevo vedere le carote spappolarsi tra i suoi denti, era disgustoso.

«Ma se hai appena detto di aver provato venti volte prima di capire come smontarla!?» ribatté Alexa.

«Sì, ma voi donne ci avrete messo di sicuro il doppio!».

«Non è un po' troppo maschilista da parte tua?» domandò Josef.

In un attimo si accese una conversazione retrograda, con la quale Derek cercava di far capire quanto gli uomini fossero più portati per le armi delle donne, usando come esempio Adele. Inutile dire che la conversazione divenne un litigio, che però coinvolte entrambi i gruppi. Mentre tutti erano distratti, ne approfittai per parlare con Shawn.

Gli assestai un calcio da sotto il tavolo, distogliendo dal vassoio. «Cosa cerchi di fare?»

«Riunisco i gruppi».

«Chi ti ha detto che vogliamo stare con voi» intervenne William, sottraendosi all'altra conversazione.

«Gli ex membri del Quarto Gruppo, e quello attuale, è tutto riunito in un unico tavolo, ho pensato vi avrebbe fatto piacere allargare la schiera» continuò.

«Hai pensato male». William divenne insolitamente sgarbato. Non sopportava Shawn, ma non era troppo anche per lui.

Shawn ridacchiò. «Non te la sarai presa per questa mattina...»

William s'incupirsi, mentre lo sghignazzo di Shawn s'infittiva. Sembrava che tra quei due fosse successo qualcosa, e che io non ne fossi al corrente.

«Cosa mi sono persa?» chiesi direttamente a William. «Hai detto che dormivi».

Gli occhi verdi di Shawn ebbero uno dei suoi soliti guizzi. «Non gliel'hai detto? Brutta mossa, a Vèna non piace quando la gente mente».

«Sta zitto!» sbottò William, alzandosi dal tavolo infuriato e imboccando la via per l'uscita. Le chiacchiere del gruppo si spensero, Opal mi chiese cosa gli fosse preso, così, all'improvviso. Io non ne avevo idea, ma sapevo che la colpa era di Shawn.

Mentre William si allontanava, un concorrente lo fermò per dirgli qualcosa. L'unica cosa che si sentì dopo, fu la voce adirata di William che gli diceva di farsi gli affari suoi.

«Che cosa gli hai detto!?» inveii verso Pel-Di-Carota.

«Dai per scontato che la colpa sia mia» disse amareggiato.

«Non lo do per scontato, lo so che è colpa tua!»

«Ehvena io non penso che sia...» s'intromise Quiana, parlando sommessamente.

«Non sono affari tuoi!» esclamai, all'apice dell'irritazione.

Mi allontanai per andare cercare William, ma soprattutto per allontanarmi da quei due. Solo pochi istanti prima che Shawn arrivasse le cose andavano bene, ero persino di buonumore. Quel ragazzo era una piaga per me!

Mi diressi alla stanza di William, sperando che stesse tornando lì. Per fortuna ci vidi giusto, lo raggiunsi poco prima che ci si chiudesse dentro.

«William» lo chiamai.

«Che ci fai qui? Torna a mangiare» disse, pronto a chiudermi fuori.

Voleva davvero chiudersi dentro e lasciarmi lì così? Se lo avesse fatto non glielo avrei mai perdonato, non dopo tutti i discorsi che aveva fatto a me.

«Dobbiamo parlare» insistetti.

«Non ne ho voglia ora» ribatté. Fece per chiudere la porta, ma vi infilai un piede per impedirglielo.

«Che cos'è che mi stai nascondendo?»

«Niente!» proruppe. Era la prima volta che lo vedevo così arrabbiato.

«Wiliam Born» iniziai solenne. «Dopo avermi fatto prediche su prediche, come osi chiudermi la porta in faccia? Dopo averti rincorso, per giunta!»

Le mie parole ebbero l'effetto di uno schiaffo: lo lasciarono incredulo e spiazzato. Sapeva che non ero il genere di persona che rincorreva il primo che passava.

«Lo hai fatto solo perché vuoi sapere di quello lì» dichiarò stizzito.

Con una frase ribaltò la situazione, ero io quella che era appena stata schiaffeggiata dalla realtà. Non ero abbastanza cinica da mentire a me stessa, o a lui, quindi giocai a favore della verità, per quanto poco onorevole potesse essere. «Solo in parte. Sono anche preoccupata per te, di solito non ti comporti così».

«Di solito non lo faccio...» mi fece eco. Aveva qualcosa di strano, molto strano. «Apprezzo il tentativo, Johns. Entra.» Aprì la porta e mi fece accomodare, con ben poco del suo solito brio.

«Questa mattina hai detto di esserti fatto una bella dormita, ma se hai incontrato Pel-Di-Carota dubito sia stata così bella. Quindi, che succede?»

«Prima rispondi tu a una mia domanda. Cosa c'è tra te e Shawn?» chiese ostile. C'era qualcosa di insolito nei suoi occhi, una specie di ombra scura che non avevo mai notato.

«Cosa c'entra ora...» provai a sviare l'argomento. Una delle cose che più mi piaceva di William era che, fino ad allora, non mi aveva ancora rivolto quella domanda. Ero così felice di aver trovato qualcuno che volesse essermi amico senza chiedere spiegazioni sulle mie cicatrici, lo ammiravo proprio per quel suo modo innato di donare sorrisi e non chiedere in cambio dei miei segreti. Dovevo averlo giudicato male, alla fine era inevitabile che iniziasse a curiosare.

«Ho capito come sei fatta, Ehvena. Provo sempre a metterti a tuo agio, ad aiutarti, per questo non ti ho mai chiesto niente a riguardo, anche se è chiaro a tutti che tra voi due c'è una specie di legame. Una roba che non riesco neanche definire, per quanto malata sembra a gli occhi di chi non vi conosce. Ho rispetto per il passato altrui, e anche io ho cose di cui preferisco non parlare, ma con voi due è impossibile non farsi qualche domanda». Iniziò a passeggiare per quei pochi metri di stanza che avevamo a disposizione. «Speravo che prima o poi me ne parlassi da sola, ma dopo quello che ho visto ho dovuto saperne di più!»

«Cosa hai visto? Quando?»

«Ieri, dopo aver concluso la prova. Ero appena stato portato in infermeria, tu eri incosciente e lui ti stava fissando. Ti guardava in un modo...  Lo fa sempre e mi dà i brividi. Gli ho chiesto cosa avesse da fissare tanto e lui ha detto una cosa strana». Stava gesticolando come al solito, innervosito e a tratti spaventato.

Non era una novità che Shawn mi fissasse, lo faceva sempre, anche prima di rincontrarlo. «Cos'ha detto?»

«Sto guardando la mia Vèna, è cresciuta così tanto» ripeté imitandolo, per poi rabbrividire.

Rimasi a bocca spalancata, per un attimo la mia mente divenne un foglio bianco, con sopra stampate quelle parole. Per William era una cosa raccapricciante, per me rappresentava una speranza. La speranza di riavere il vecchio Shawn, o anche solo di sapere che non si era del tutto dimenticato di me.

«Non so te, ma io lo trovo strano. Non fate altro che guardarvi tutto il tempo, litigate, lui ti chiama Vèna, gli hai persino tirato uno schiaffo. Sembrate conoscervi bene, eppure vi comportate da estranei... Questa cosa mi preoccupa. Che succede?»

Ignorai ciò che disse. «Quindi cos'hai fatto per spingerlo a mettere su quella messinscena?»

«Cosa?» esclamò sbalordito. «L-Lo ha fatto veramente di proposito?»

Solo parlando con William, vedendo come reagiva a quella che per me era la normalità riguardo a Shawn O'belion, capii cosa gli altri vedevano in noi. Pochi istanti prima lo aveva definito un legame malato, e non potevo che essere d'accordo. Infondo era un relazione nata tra una bambina e un suo coetaneo destinato a morire, con gli anni a separarci e l'Elezione di mezzo non poteva migliorare.

«Per infastidirmi, sì». Mi venne da ridere, era proprio tipico di Shawn.

«Ehvena ma non lo vedi che è una cosa strana? Come fai a ridere!» mi rimproverò.

Sentendolo non potei fare a meno di ridere di più. «Sembra tu stia parlando di criminale. Shawn non è cattivo, è solo... Shawn». Non sapevo come descriverglielo, era una novità anche per me. «Avanti, dimmi che hai fatto invece di dormire».

«Sono veramente tornato in camera e ho veramente dormito. Mi sono svegliato molto prima, però. Stavo venendo a trovarti, quando l'ho incontrato all'ascensore. Non ho potuto non seguirlo e non chiedergli una spiegazione».

«Insomma, gli hai fatto il terzo grado? Pessima idea» commentai. Me li immaginai mentre parlavano: William che provava a carpire informazioni, e Shawn che rispondeva nel suo solito e criptico modo. Se si ostinava a comportarsi così era normale che William lo credesse pericoloso e strano.

«Mi ha detto solo che lui non ha problemi a farlo sapere a qualcuno, ma che se tu mi reputi davvero tuo amico a quest'ora già lo avresti detto» spiegò, ricolmo di collera. «Io non so che succede ma ho seriamente bisogno di una spiegazione, altrimenti penso che potrei esplodere seduta sta—»

«Va bene» lo interruppi io. Era così concentrato sul discorso da non accorgersi della mia risposta.

«—nte quindi farai meglio a dirmi tutto, dal principio. E non mi importa se la cosa ti crea disagio!» terminò tutto d'un fiato.

«Ho detto che va bene, Will» ripetei, invitandolo a calmarsi. Era proprio tipico di Shawn dire una cosa del genere, mirare al punto debole di William e continuare a colpire fino a fargli perdere le staffe.

«Sul serio?»

Annuii. «Vedi, si tratta di un argomento delicato, che riguarda più lui che me, per questo ho preferito evitare. Però se ti ha detto così, vuol dire che non gli importa che tu lo sappia. Il resto serviva solo a irritarti» spiegai. «Dare noia alle persone gli è sempre venuto maledettamente bene».

«Quindi da quanto vi conoscete?»

«Da molto, molto tempo».

Inspirai profondamente, iniziando a cercare le parole giuste per raccontare una storia di cui neppure io sapevo tutti i particolari. Cominciai dal principio, parlando di quel bambino malato che conobbi alle elementari, provando a non versare troppe lacrime. Riesumai vecchi ricordi che credevo scomparsi, alcuni felici e altri meno. Le giornate in ospedale, le crisi, la clausura forzata, fino ad arrivare al giorno della separazione. Il giorno in cui credetti di averlo abbandonato, in cui lo seppi morto.

Per tutto il tempo non guardai William ma le proiezioni dei miei ricordi, così non vidi il mutamento drastico che aveva colpito i suoi lineamenti. L'apprensione e la rabbia che lo avevano invaso erano scomparse, assorbite da una maschera di tristezza pura con qualche spruzzo di sgomento. Quando terminai provò a dire qualcosa, ogni parola spariva non appena cercava di tirarla fuori. Riconobbi quella frustrante sensazione, la stessa che avevo provato il giorno della lettura della classifica, quando si era mostrato a me.

«Io non...» farfugliò. «Non avrei mai, mai immaginato una cosa del genere».

Gli diedi una pacca sulla spalla. «Ogni tanto fatico a crederci anche io».

«Questo spiega le occhiate, il nomignolo... Dopo tutto il tempo che avete passato insieme non capisco come possa trattarti così» si meravigliò. Sapere di non essere l'unica a pensarlo era confortante, ogni tanto mi chiedevo ancora se ero io a sbagliare. «E com'è guarito?»

«Non lo so, si rifiuta di dirmelo. Non vuole parlare di qualunque cosa sia successa da quando mi sono trasferita, alcune volte si comporta come persona totalmente diversa. È cambiato moltissimo».

«Incredibile!» esclamò, strofinandosi i palmi sugli occhi. Forse sperava di starselo immaginando. Capii che per lui era diventato troppo quando ricominciò a passeggiare per la stanza.

«Volevi sapere la storia ed eccola qua. Stai... bene?»

«Più o meno» confessò. «Questa cosa ha dell'incredibile, Ehvena. Sul serio. E tu non lo avevi nemmeno riconosciuto! Una malattia rara sconfitta a uno stadio così avanzato è incredibile. Perché non è stato pubblicato nessun articolo?»

«Non lo so» riflettei. «Di solito lo fanno?»

«Certo!» esclamò. Stava iniziando a ravvivarsi, il suo lato da medico pazzo iniziava a prendere il sopravvento. «Chiuso qui dentro non posso neanche cercare qualche vecchia notizia».

«Una volta fuori potrai usare questa storia come tesi» scherzai.

«Posso? Mi farebbe guadagnare un sacco di punti! Ma dimmi, come si chiama la malattia?»

«È la Sindrome del Mollusco». Il solo rinominarla mi faceva venire i brividi.

Scosse il capo ripetutamente. «No» disse. «È impossibile. Starai ricordando male».

«Affatto, è proprio la Sindrome del Mollusco. L'ho sentita nominare talmente tante volte, non posso sbagliarmi».

«Ti dico di no» insistette lui. «La Sindrome del Mollusco non ha cure».

«William, ne sono certa, è proprio quella!» ripetei, alzando il tono di voce. Era impossibile che non ricordassi un dettaglio importante come quello. «Avranno usato una cura sperimentale, qualche novità in capo della medicina che tu non conosci. Non sei ancora un medico, infondo».

D'un tratto William mi afferrò per le spalle, i nostri occhi erano sulla stessa linea. «È impossibile che non sappia di una cura sperimentale per quella malattia, abbiamo un corso apposito sulle malattie rare e giusto qualche mese prima dell'inizio dell'Elezione avevano tenuto un convegno all'università per parlare di quelle incurabili. Io ero presente. Tra quelle malattie c'era la Sindrome del Mollusco».

«Shawn è guarito, una medicina c'è di sicuro» continuai.

«Non basta una medicina per curare una malattia così. Non la contrai come un raffreddore, ci nasci» proseguì, la stretta sempre più salda. «È una malformazione genetica che ti fa nascere senza alcuni segmenti ossei, le cellule cutanee non crescono correttamente e si hanno intere fasce muscolari lese. Ehvena, per guarire qualcuno con una malattia così bisognerebbe fargli crescere intere parti del corpo. Non esiste una cosa del genere. Quindi te lo ripeto: non c'è una cura».

Lo guardai interdetta, riuscivo solo a pensare alle volte in cui la sua famiglia, i medici e lui stesso, avevano detto il nome di quella malattia. Non potevo sbagliare su una cosa del genere, quindi doveva per forza farlo William.

Provò a rispiegarmelo molte altre volte, usando persino dei termini tecnici, ma né la mia risposta, né la sua, cambiarono. Shawn erano nato con la Sindrome del Mollusco, però, inspiegabilmente era vivo e vegeto.

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