Capitolo XVI (R)

Me ne stavo seduta sul selciato freddo già da un po'. Gli infermieri mi avevano lasciata uscire senza alcuna obbiezione, neppure i Latori, appostati sia all'entrata dell'infermeria che vicino agli ascensori, avevano tentato di fermarmi. In un certo senso, sembrava che tutti sapessero dove sarei andata, e che non gli importasse. Ovunque mi fossi nascosta, sarei sempre rimasta sotto l'occhio vigile di qualcuno.

Non riuscivo proprio a capacitarmi di quanto era accaduto. Da sempre si diceva che erano i concorrenti a cambiare nel corso delle Ere, non l'Elezione. Se ciò era vero tanto quanto lo sembrava, i Rappresentanti dovevano aver passato prove simili, se non le stesse, ben dieci volte. Allora perché nessuno aveva mai cercato di cambiarle? Perché alla Ventisettesima Era dello Stato Unitario di Phērœs, i concorrenti erano ancora costretti a vivere cose del genere? Doveva esserci per forza un motivo se nessun ex concorrente aveva divulgato informazioni sulle prove in tutte quelle Ere, un motivo ragionevole che spiegasse anche perché venissero usate nonostante la loro brutalità. Qualunque cosa ci fosse dietro, andava ben oltre le mie possibilità. C'era un limite anche alle domande che potevo pormi, e ci ero finita sopra. Bastava un passo per oltrepassarlo, uno per tirarmene indietro. Dopo un lungo scavare nella mia coscienza, avevo capito di voler solo tornare alla mia vecchia vita.

Non chiedere, mi ero convinta alla fine. Torna in cucina, vivrai meglio.

Tutto quel pensare e rimuginare, domandare e giustificare, mi era servito per capire di non voler sapere altro. La curiosità, per quanto forte potesse essere, era un capriccio che non potevo più permettermi, almeno se volevo uscirne il prima possibile. Domandarmi se le prove fossero giuste o ingiuste era inutile, in entrambi i casi la verità era una sola: l'Elezione funzionava. Aveva sempre funzionato. I Rappresentanti di tutte le Ere tenevano in piedi lo Stato, il popolo veniva trattato con riguardo e i miglioramenti apportati non erano elencabili. L'unica cosa che diventava sempre più chiara ai miei occhi, era che io, Ehvena Johns, non ero una buona scelta per l'isola, quindi non avevo il diritto di chiedermi se un'istituzione secolare fosse giusta o meno.

Passai la maggior parte del tempo non a chiedermi se fosse giusto, ma a capire come farmi eliminare alla Terza Prova senza finire nel Quarto gruppo e rischiare di diventare una cavia. C'era una sola persona capace di dirmi come fare senza rischiare troppo, e quella era Shawn O'belion. Il freddo calcolatore dal temperamento di fuoco, l'estraneo dal volto familiare. Se glielo avessi chiesto non avrebbe esitato a dirmelo, tanta era la voglia di avermi fuori dai piedi.

Ero nauseata dalla mia stessa voglia di incontrarlo.

Andarmene senza prima sapere della sua guarigione poteva essere il mio unico rimpianto. Non che fosse il come a interessarmi – senza dubbi era stato grazie a una medicina sperimentale – la mia insistenza dipendeva dalla necessità di fargli vuotare il sacco proprio perché si rifiutava. Sapere perché non mi aveva contattata, quel motivo sì che desideravo conoscerlo. Trattandosi di Shawn, però, ci sarebbe voluto molto più di un mese. Io non avevo più tutto quel tempo.

Raccolsi le ginocchia al petto e vi nascosi il volto. Sperai che così facendo, magicamente, i miei problemi si dimezzassero. Invece, per un attimo, anche la fioca luce del mattino si oscurò, coperta da quei nuvoloni minacciosi che da bambina scorgevo oltre la cupola protettiva durante le grandi piogge. Un'eclissi troppo improvvisa. Levai lentamente il capo dal bozzolo nella quale mi ero rannicchiata, scorgendo la sagoma che, incombendo su di me, aveva smorzato l'ultimo raggio di luce. La chioma fulva si mescolava alla luce del sole che vi si stanziava alle spalle, come un sole ancor più splendente. Per un attimo credetti di avere le traveggole, poi, con naturalezza, mi chiamò con quel nome che solo lui conosceva.

«Vèna» disse.

Dovetti reprimere l'istinto di nascondere nuovamente il volto, sperando solo che non notasse gli occhi umidi. «Non si riesce ad avere un attimo di pace, qui» brontolai. La verità era che, mai come allora, avevo desiderato di vederlo comparire.

Shawn si accovacciò, il suo volto era ora all'altezza del mio. «Vèna» intonò ancora, più calmo di quanto non fosse mai stato.

«Dillo» lo intimai.

«Cosa?»

«Che avevi ragione e dovevo starti a sentire» confessai. Lui mi scrutò con i suoi occhi verdi, pallidi e stanchi. Sapevo cosa vedeva, potevo scorgere il mio riflesso in quelle colline sbiadite: un bocciolo rinchiuso nei suoi petali, torchiato da spine aguzze. La stessa posizione che avevo scelto mi rendeva fragile come l'immagine che mi aveva affibbiato Pel-Di-Carota, accoccolata su me stessa nel tentativo di proteggermi da ciò che mi circondava. Dal riflesso sembravo impaurita, in realtà era solo istinto di conservazione. Lo stesso che mi aveva spinta a colpire Paterson malgrado non avessi mai alzato mano su nessuno.

Per rispondermi usò una delle sue tattiche preferite: la modesta consapevolezza di essere sempre un passo avanti a tutti. «Se lo sai, non c'è bisogno che te lo ripeta io».

Mi scappò un risolino. Non mi aspettavo del conforto da parte sua, però, nella scala delle reazioni Shawn, quella poteva essere considerata una specie di premura. Provai a chiederli un consiglio senza essere troppo diretta, con lui non funzionava mai bene. «Ci sono cose che so, altre che non so. Ad esempio, come pensavi che potessi farmi eliminare...»

«Vuoi andartene?» s'incuriosì.

«Sono brava» mi vantai. «Ma come già sai, preferisco la cucina alla rappresentanza».

«La prova è stata orribile» disse, lasciandomi sbigottita. Per una volta aveva messo da parte i giochetti e i giri di parole, ed era arrivato dritto al punto. «So che sei rimasta in infermeria, ieri».

Se non fosse stata per la facciata di marmo e il tono distaccato, avrei potuto pensare che fosse preoccupato per me. Aveva sempre avuto uno strano modo di relazionarsi con le persone, ancora prima di "tornare dalla morte". «Come sai che ero lì?»

«Il tizio che ti ronza sempre intorno era venuto a cercarti dopo la prova e gli avevano detto che non eri in buone condizioni. Lui lo ha detto a Quiana, e lei ho riferito a me».

Mentre io mi struggevo, la gente faceva il passaparola sulle mie condizioni.

«Tutti e due erano preoccupati per te» aggiunse.

«Tu no?» chiesi, già sapendo di non ricevere alcuna risposta. «William lo capisco, ma la ragazza, Quiana, perché dovrebbe?». Era dal giorno in cui mi aveva rivolto la parola che la trovavo strana: la reazione esagerata che aveva avuto, il fatto che provasse a difendermi e si preoccupasse, che Shawn le rivolgesse la parola. Niente aveva senso.

«Mi ha detto che non l'avevi riconosciuta».

«Perché dovrei?»

Scoppio a ridere, neanche gli avessi detto una battuta. «Sei incredibile Vèna. Gliel'ho detto di non prendersela, a momenti non riconoscevi me».

«Di che parli?» continuai confusa.

«Quiana Meir. Questo nome non ti dice proprio niente?»

Ci pensai un po', a furia di ripeterlo stava acquistando un suono familiare. Aveva il sapore della mia infanzia, quella parte più spensierata, dolce quasi a essere irritante. C'era una ragazzina così nei miei ricordi: irritante e svenevolmente dolce. «Non sarà...» tentai di indovinare, prima di essere bruscamente interrotta.

«Quello cos'è?» disse, afferrandomi la mandibola e alzando il volto per osservare meglio qualcosa. Non mi ricordai del bendaggio finché non lo toccò.

«Ah» esalai amareggiata. «Ho avuto un altro incontro con Paterson».

«Era lì dentro durante la tua prova?» domandò con un guizzo negli occhi. Come spesso accadeva quando qualcosa attirava la sua attenzione, il verde impallidito dei suoi occhi riacquistava colore, allo stesso modo in cui i capelli sembravano più rossi quando si arrabbiava.

«C'erano lui e due miei compagni di università».

Shawn provò a guardare da una fessura del bendaggio ciò che c'era sotto, anche se doveva averlo già intuito. «Loro non potevano attaccarci» rimarcò.

«Be', io e altre quattro ragazzi possiamo confermarti il contrario». In infermeria c'erano statu altri concorrenti, conciati anche peggio di me. Qualche cavia doveva aver deciso non voler subire in silenzio. «Anche se Paterson... Lui sembrava non saperlo» pensai ad alta voce.

Un altro guizzo lo illuminò. «Come?»

«Mentre Lusyelle e Jefferson parlavano, lui non capiva di cosa stessero parlando. Dopo il declassamento credo non gli abbiano cambiato la missione. Così, quando ha capito...» Simulai la presa al collo e qualche verso di soffocamento. Riuscire a scherzarci sopra era una buona cosa.

«No» smentì lui. «Avrebbero fermato la prova. C'era anche il vetro divisorio... Hai premuto il pulsante?»

«Mi credi stupida? È stata la prima cosa che ho fatto!» ribattei. «Non è servito! Lo ha scavalcato come un no nulla, era talmente lento. Non hanno neanche provato a fermare la prova. Se non l'avessi steso, sarei sicuramente morta».

Dirlo ad alta voce lo rese del tutto reale. Ero davvero quasi morta, durante la prova. Shawn ritrasse la mano, improvvisamente allarmato. Prese a scompigliarsi i capelli con fare nervoso, mentre fissava un punto vuoto sul terreno. Possibile che non avesse capito quanto veramente orribili fossero le prove? Lui, che era sempre il primo a collegare i nessi logici.

«Shawn?» lo chiamai.

«Dirle di mandarti via è estato inutile...» mormorò.

«Dire cosa a chi?»

Inspirò profondamente, nel tentativo di reprimere il fascio di rabbia che rese più intenso il colore dei suoi capelli. «Mi hai chiesto perché ho saltato l'allenamento, tempo fa. Vuoi ancora saperlo?»

Dal tono di voce, il modo in cui si stava comportando, la risposta non doveva piacermi. Nonostante ciò, non avrei perso l'occasione di fargli dire finalmente qualcosa che lo riguardasse, anche se era recente. «Si».

«Quando i Rappresentanti mi hanno chiamato per la deposizione sul litigio, mi sono preso la libertà di parlare in tuo favore».

«Tu? In mio favore?» ripetei scettica. Era qualcosa che il vecchio Shawn avrebbe fatto senza pensare, ma non lui, non per com'era in quel momento.

«Certo» intonò brusco. «Ho detto solo la verità, ciò che a te non interessa vincere e che avrebbero fatto meglio a eliminarti insieme a Paterson».

Lo Shawn che più detestavo, quello freddo, calcolatore e, talvolta, persino cattivo, era risbucato. No, c'era sempre stato. Solo che alcune volte non lo vedevo, o preferivo non farlo.

«Tu hai detto ai Rappresentanti del nostro Stato, che un concorrente che sta partecipando all'Elezione, l'istituzione più importante da che il mondo è stato ricostruito, che non è interessato alla carica?» riassunsi con tono troppo alto. Era vero, ma questo non lo giustificava. C'erano cose che i Rappresentanti non dovevano sapere, cose che noi non potevamo permetterci di dire, e la prima era il disinteresse per lo stato di qualcuno. «Hai detto loro cosa fare!?»

«La Rappresentante sembrava molto indisposta. Dopo il suo richiamo ero così di malumore da voler saltare gli allenamenti per farmi un giro nella Base. Devo stargli simpatico se, nonostante tutto, sono ancora in gara».

Mi ricordai della scortesia mostrata dalla Rappresentante Engineer, delle sue insinuazioni e quella ridicolo atteggiamento di sfida: a causa di Shawn aveva avuto tutte le ragioni di essere arrabbiata con me.

«Non avevi il diritto di fare una cosa del genere!»

«Infondo avevo ragione io, giusto?» ostentò, nonostante pochi istanti prima avesse evitato. «Potrebbero aver messo Paterson nella tua prova a causa di quello che ho detto».

Sgranai gli occhi, non volevo crederci.

«Può anche non averci nulla a che fare. Infondo si tratta dei nostri amati Rappresentanti, non farebbero mai una cosa del genere. Sicuramente è solo una coincidenza» disse malizioso.

Non ressi un'altra parola, con veemenza allungai un braccio e gli assestai uno schiaffo senza neanche pensarci. Dopo quell'improvvisa confessione e la chiacchierata sulle coincidenze, a cui neanche credeva, ero io a non volerci più credere in lui, a non riuscire più a scusarlo. Con le abilità che aveva era più che in grado di metter su un piano del genere solo per convincermi a lasciare l'elezione, ma era in grado di fare una cosa tanto meschina?

«A causa di quello che hai detto ho rischiato di morire!» gridai.

Shawn si tocco la guancia arrossata. Nel colpo avevo riversato tutta la rabbia e la frustrazione che da troppo mi portavo dentro, lasciandogli un segno quasi del colore dei suoi capelli.

«Almeno ora sai come ci si sente» bofonchiò prima battere la ritirata.

Come sempre si era appropriato dell'ultima parola, rigirando il discorso a suo vantaggio. Feci un profondo respiro e provai a non lasciarmi suggestionare nuovamente nei dubbi. Per una volta la situazione era molto semplice e, per ciò che aveva fatto, la cosa da fare era odiarlo.

• • • • •

«Quello per cos'è?» boccheggiò William con la bocca colma di cibo masticato.

Eravamo nella mensa, a consumare uno dei pochi pasti concessi, almeno quelli che se l'erano sentita. Quasi l'intero Quarto Gruppo non c'era, a detta dei militari si stavano riposando. Un modo comodo per dire che si stavano ancora riprendendo dai nostri soprusi.

«Che schifo» commentai alla vista del bolo intriso di saliva.

Rischiuse la bocca, imbarazzato. Mandò giù la poltiglia in un boccone e riprese a parlare. «Chi te lo ha fatto?» continuò, allungando una mano per controllare.

«Tieni giù quelle mani!» lo ammonii. La gente mi fissava ancora per via di tutto quello che era accaduto nelle ultime settimane, il comportamento di William di certo non aiutava.

«Vorrei ricordarti che sono un medico».

«Non stavi ancora seguendo i corsi?»

«Tecnicamente sì, ma mi manca poco alla laurea. E poi con certi talenti si nasce» si pavoneggiò apertamente.

Su quelle sue presunte abilità avevo dei grossi dubbi. Nonostante tutto il chiasso che faceva, però, la sua compagnia era un balsamo per me. Almeno non pensavo a quell'infame di Pel-Di-Carota, o qualunque cosa fosse andata storta da quando l'Elezione era iniziata.

«Avanti fammi vedere» insistette. La voce gli si era addolcita e prima che potessi accorgermene stava alzando la benda con tocco delicatissimo. «Ma questo...» sussurrò sconvolto, già consapevole di ciò che si trattava.

La serietà stampatagli sul volto mi metteva a disagio, come l'attenzione e la cura che ci aveva messo per non farmi male. Forse poteva averle davvero un po' di quelle abilità innate. La maggior parte dei presenti non mostrava il minimo pentimento per ciò che la prova ci aveva costretto a fare, e con loro anche William.

«Chi?» chiese senza aggiungere altro. Di questo gliene fui immensamente grata.

«Paterson» risposi in un sussurro.

«Ancora? Come hanno potuto metterlo lì sapendo che saresti...» si bloccò a metà frase. Doveva star elaborando quanto detto, reputandolo troppo assurdo da come scosse il capo. «Quando ti ha attaccato ha perso la prova. Questa volta lo elimineranno di sicuro, puoi stare tranquilla».

Invece non potevo. Fintanto che rimanevo in gara non potevo tornare ad essere tranquilla, non con la Rappresentante infuriata con me per ciò che Shawn aveva detto.

«Come te la sei cavata?» indagò, mantenendo un tono discreto. «Lo hai colpito in faccia con la torta?»

Sembrava divertito all'idea di vedermi lanciare torte. Non in modo cattivo, era quasi affettuoso. Mi avvicinai al suo orecchio e glielo sussurrai. «Gli ho conficcato una siringa piena di liquido stordente nella guancia».

William si staccò di colpo, lasciando scivolare nel piatto cibo e posate. Aveva l'aria sconvolta, mi guardava chiedendosi se fosse possibile. Persino io dubitavo di averlo fatto, eppure, stando a ciò che ricordavo anche troppo bene, ero stata più che capace. Riprese il suo pasto scuotendo di tanto in tanto il capo, forse tentando di mandar via l'immagine di me che usavo Paterson come un puntaspilli. Almeno lui poteva farlo.

«Ah» borbottò qualche forchettata dopo. «Pel-Di-Carota ti sta fissando di nuovo. Mi fa venire i brividi... Ehi! Ma che cavolo ha sulla faccia?»

Mi voltai per osservare meglio: due tavoli più avanti, Shawn, seduto accanto alla bionda di nome Adele, veniva confortato dalle carezze lascive di questa. La chiazza rosea sulla guancia non era ancora del tutto scomparsa e i suoi occhi roventi mi puntavano come un bersaglio.

«Questa mattina gli ho dato uno schiaffo» confessai, senza curarmi di chi mi stesse a sentire. In realtà volevo che tutti lo sapessero, e a quello ci pensò William, ripetendolo a voce troppo alta.

«Tu chi sei e cosa ne hai fatto dell'innocua cuoca che ho conosciuto su quel pulmino?» rumoreggiava.

Mi presi gioco di lui. «Dovresti ritenerti fortunato, potevo colpire anche te quel giorno».

«Quindi lo ammetti» disse, punzecchiandomi la guancia con l'indice come un bambino.

«Cosa?»

Fece un sorriso smagliante. «Che ti sono simpatico».

«Ogni tanto» la buttai lì.

«Allora devo esserti mooolto simpatico» constatò compiaciuto.

Battibeccammo finché Asia non ci intercettò sulla via del ritorno dalla mensa. Dietro di lei una donna dai lunghi capelli color nocciola chiamava William con urgenza.

«È Nora, la mia Assistente» spiegò. «Ci vediamo dopo?»

Senza accorgermene risposi con un accenno, lasciando che se ne andasse tutto allegro e trotterellante.

«Un tuo amico?» chiese Asia, squadrandolo mentre svoltava l'angolo.

«Più o meno» risposi. «Come mai gli Assistenti sono così agitati?»

Subito dopo il pranzo gli Assistenti avevano cominciato a comparire alla mensa, trascinandosi via i loro candidati. I corridoio erano un andirivieni di persone che entravano e uscivano dalle camere.

«I Rappresentanti hanno fissato i colloqui tra meno di mezz'ora» disse, poco prima di iniziare a trascinarmi fino alla mia stanza. Aspettò che fossimo entrate per poter parlare. «I colloqui avverranno dopo ogni prova, sono degli incontri privati con una coppia di osservatori in cui ti verranno fatte delle domande. Suppongo riguardino la prova, ma non ne sono certa. Non mi sarà permesso entrare ed è importante che tu mantenga la calma. Gli Osservatori sono persone molto perspicaci, non esiteranno a toccare gli argomenti più spinosi e a sottolineare i gli errori che hai commesso» spiegò frettolosamente, senza curarsi dell'affanno dovuto alla corsa lungo i corridoi.

«Dei colloqui?» ripetei avvilita. Non c'era mai un attimo di pace...

Mi afferrò per le spalle, parlandomi faccia a faccia. Sembrava piuttosto tesa. «Sono più che sicura che solleveranno anche la questione aggressione e ciò che è accaduto con Paterson durante la prova»

«Come lo sai?»

«Sono la tua Assistente, vuoi che i medici non mi informino del motivo per cui sei rimasta in infermeria ieri?» Sospirò. «Potrebbero anche fare delle insinuazioni sgradevoli, ma u devi promettermi che, qualunque cosa dicano, tu non perderai le staffe. Promettimelo, Ehvena».

Con i suoi atteggiamenti protettivi e gli occhi ricolmi di determinazione puntati addosso, non riuscii a non prometterglielo.

«Sono persone molto insidiose, quando puoi rispondi solo a monosillabi e senza mostrare incertezze. Non pensare troppo alle risposte e se proprio devi dare delle spiegazioni, non dilungarti. E ti prego... non dire cose di cui potresti pentirti. Annoteranno ogni tua parola e reazione, una volta letti per i Rappresentanti sarà come essere lì».

Estrasse dalla valigia un paio di vestiti che mi ero portata da casa, fece qualche combinazione e mi chiese di cambiarmi. Era un mese che non indossavo altro che le tute da allenamento e i capi grigi della Base, potermi mettere qualcosa di normale fu liberatorio. Poco più tardi scoprii di dover rimettere piede nel primo piano sotterraneo, più correttamente nello stesso dedalo di uffici che avevo visto durante l'incontro con i Rappresentanti. Non so quante stanze avessero impiegato, né quanti Osservatori, ma con poco avrebbero risolto la questione. Dalle indicazioni dei Latori, i colloqui potevano durare dai trenta ai sessanta minuti l'uno, perciò ci avevano divisi in tre turni, massimo quattro turni. Da quel che Asia mi aveva anticipato era persino troppi. I ragazzi del Quarto Gruppo, che erano tornati ad essere delle persone e non più delle cavie, avevano l'onore di entrare per primi. Un po' a causa del mio carattere e un po' per via dello stress accumulato, non ero certa di poter mantenere la parola data. Per il mio bene mi sarei dovuta sforzare il più possibile.

William mi intercettò subito, piazzandosi accanto a me e scaricando la sua agitazione su di me. Farfugliò qualcosa sulla necessità di fare buona impressione, e già lì smisi di stare a sentire le sue idiozie. Il Quarto gruppo non riaffiorò, dovevano esserci degli intricati secondi passaggi, ma con estrema puntualità i Latori lasciarono entrare il secondo turno. Io e il biondino eravamo in questo, avevo deciso di togliermi subito il pensiero e Asia era stata d'accordo. Mi rimase a guardare con languidi occhioni finché le porte dell'ascensore non si chiusero. Questa volta l'addetto al pulsante non era Oscar Bauwens.

I cunicoli stretti erano gli stessi, come le porte su ogni parete e quelle odiose luci affisse al soffitto. Ci distribuirono ognuno davanti a una porta e decisero di farci entrare nello stesso istante. L'interno era come lo ricordavo: scarno, usurato, con poco meno di un lampadario pendente, un tavolo e tre sedie. Al posto dei Rappresentanti c'erano due Osservatori, uno dei quali avevo auto modo di incontrarlo più di una volta: Augusto Bogaert.

«Ehvena Jhons, prego si accomodi!» pronunciò allegramente. Quel suo modo di fare così spensierato mi dava i brividi. Il suo collega digitò una sequenza numerica sul suo palmare, aprendo un foglio vuoto, dalla quale si preparò a trascrivere ogni parola e movimento detto fino a quell'istante. La candidata si è accomodata, mantenendo l'espressione diffidente. Dovetti leggerlo al contrario, ma bastò per farmi distendere istantaneamente i muscoli del viso.

«Nata a Vicbury, nel Libet. Ha diciannove anni e frequenta l'Università di Arti Culinarie della Capitale. Eccellenti voti sia in materie pratiche che teoriche e a giudicare dai responsi è la migliore del suo anno» riassunse. L'ultima parte lo sorprese piacevolmente. «Gode di ottima salute e dopo la Prima Prova ha occupato il settimo posto nella classifica dei Positivi. Direi che il suo è un profilo notevole».

Parlando del posti in classifica si era rivolto al periodo precedente la Seconda Prova, scartai l'ipotesi di aver mantenuto la stessa posizione. Continuò ad adularmi ancora un po', mettendomi visibilmente a disagio. Già normalmente era molto trasparente nelle mie reazione, era un dato di fatto e anche i miei genitori me lo ripetevano spesso, davanti a loro dovevo sembrare ridicola.

L'insolito brio dell'Osservatore Bogaert si spense, come una fiamma tra due dita umide, non attese oltre e iniziò. «La sua assistente le avrà già spiegato perché si trova qui, dunque direi di iniziare subito con la prima domanda: Qual è la sua impressione riguardo alla Prima Prova e a cosa crede che sia servita?»

Bogaert mi colse impreparata, non credevo si sarebbe parato anche della Prima Prova. Asia mi aveva consigliato di non metterci troppo a rispondere, e di mantenermi il più sintetica possibile. L'unica cosa a cui riuscivo a pensare, però, erano le cataste di corpi ammassati sulla piattaforma Omicron. L'unica parola capace di descriverla era raccapricciante.

«La Prima Prova è stata... sorprendente» esitai. Questo non sfuggì al collega scribacchino, che lo annotò con una marcata sottolineatura.

«E cosa l'ha resa così sorprendente?» infierì Bogaert.

«Ero certa che bisognasse essere arrivata alla Base Alpha per svolgere le prove» risposi subito. Almeno era vero.

Annuì, forse poco convinto. «Quale crede che fosse lo scopo della prova?»

Pur di non esitare ancora, dissi la prima cosa che mi venne in mente, ovvero le parole del Comandante Benedikt. «Credo che avesse lo scopo di testare la nostra resistenza fisica».

«...fisica» ripeté, come se non fosse del tutto corretto. L'altro Osservatore annotò tutto molto meticolosamente, lanciandomi occhiate tra una parola ed un'altra. «Come le sono sembrati gli allenamenti durante l'ultimo mese passato nella Base?»

«Faticosi, ma gratificanti» dissi. Se avessi potuto avrei aggiunto anche molto insensati, ma Bogaert si anticipò con la domanda e mi chiese se l'allenamento mi ero risultato utile per la seconda prova. A questa risposi con un'unica parola, che però non pensavo. «Si».

Per un po' andai avanti a monosillabi, come consigliatomi dalla mia Assistente.

«Ha avuto difficoltà ad adattarsi ai ritmi?»

«No».

«Le scosse le hanno mai creato qualche problema?»

«No». Feci finta che la voce non esistesse, mi concentrai solo sulle domande e il tempismo della risposta.

«Lei è una dei pochi concorrenti che tende a svegliarsi prima nonostante le scosse. Si è mai sentita affaticata?»

«No».

Più la conversazione andava avanti, più mi accorgevo dei dettagli che mi erano sfuggiti e delle cose che invece avevano meticolosamente tenuto d'occhio.

«Ha mai avuto problemi con gli altri candidati?» chiese, lisciandosi i baffi.

Quella domanda segnò l'inizio della parte scomoda. «Si» risposi.

«Prego, ci illustri le occasioni».

Scelsi con cura ogni parola, sperando di non scavarmi la fossa con le mie mani. «La prima volta è stato a causa di un incontro casuale con il Rappresentante Tremblay, nella mensa. A causa di ciò, e considerando il precedente approccio del Rappresentante, tra i candidati si era sparso il dubbio di un'imparzialità. Per un po' mi hanno parlato alle spalle e insinuato qualcosa verbalmente».

«È stata l'unica ad aver avuto questo problema?»

«No. Altri candidati hanno avuto modo di incontrare i Rappresentanti e ricevere lo stesso trattamento, Shawn O'belion è stato uno di questi» spiegai senza farmi scrupoli a nominarlo. Lui aveva parlato di me ai Rappresentanti, come minimo potevo fare altrettanto con gli Osservatori.

«Ci sono altri episodi?» continuò.

Dovetti farmi forza per iniziare il discorso su Paterson. «Un'aggressione da parte del concorrente Jeamur Paterson».

«È un suo compagno di corsi universitari, giusto?»

«Sì».

«Com'erano i vostri rapporti prima dell'aggressione?»

«Eravamo solo compagni di corso» specificai.

«Avrete avuto modo di parlare, ogni tanto» m'invogliò a parlarne.

«No» risposi subito. «Non parlo quasi mai con i miei compagni di corso, se non durante le esercitazioni di gruppo».

Bogaert smise di lisciarsi i baffi, concentrando tutta la sua attenzione su di me. «Interessante» ammise. «Con "compagni di classe" intende anche il candidato Jefferson Ghilmore e la candidata Lusyelle Doboise?»

«Sì»

«Non so se si ricorda, ma ho presieduto alla sua Seconda Prova in veste di Osservatore ufficiale».

«Sì, mi ricordo». Ricordavo anche come si fosse finto un medico e fosse venuto a visitarmi dopo la prima aggressione, ma questo rimase un segreto tra me e lui.

«Qual è la sua impressione riguardo alla Seconda Prova e a cosa crede che sia servita?»

«Anche la seconda prova è stata sorprendente» iniziai, cercando di riparare all'errore commesso prima. Ricorsi a tutta la mia volta per pronunciare le parole seguenti. «Credo che lo scopo sia quello di individuare i candidati in grado di portare a termine la prova».

«E lei crede di esserci riuscita?»

«Sì» dissi, il rammarico grondante in quell'unica parola. Avevo commesso un altro errore, e questo mi sarebbe costato molto di più.

«Ha detto di aver fatto ciò che la prova ha richiesto per essere superata, eppure non sembra contenta».

Strinsi le labbra, suscitando in lui una reazione. Gli occhi gli brillavano come un'animale scaltro, mentre il suo collega attendeva sviluppi. «La prova è stata dura da superare» dissi.

«Perché i suoi compagni di corso erano lì? Poco fa ha detto di non aver mai rivolto loro la parola, se non necessario».

Stava cercando di farmi apparire bugiarda o cosa? «Loro non c'entrano, sarebbe stato difficile con chiunque».

«Dunque sta dicendo che la presenza del candidato Paterson non ho costituito un'aggravante?»

«No, lo è stato ma...»

«Però ha detto che, indipendentemente da chi ci fosse stato in quella stanza, per lei sarebbe stato difficile, ma che comunque le sue difficoltà dipendevano da Paterson. È corretto?»

Bogaert non la metteva di parlare, il ticchettio dei tasti premuti dell'altro Osservatore mi distraevano. «Sì... Aspetti, no» mi confusi.

«Non credo di starla capendo, candidata Johns. Perché per lei la prova è stata dura da superare?»

Mi agitai un po' sulla sedia, errore gravissimo che mi fece apparire ancora più insicura. «Come ho già detto, la prova sarebbe stata dura da superare ma non per via dei mie compagni di corso. Fare ciò che ci avete chiesto di fare a delle persone, qualunque persona, non è stato affatto facile» spiegai, il tono crescente denudava il mio stato d'animo.

«Per questo ha esitato in quella stanza?»

«Sì» risposi stizzita.

«Non c'è bisogno di arrabbiarsi, candidata Johns» mi fece notare l'altro Osservatore. Bogaert sogghignava, nuovamente rallegrato.

«Nonostante le difficoltà ha comunque deciso di fare ciò che le era stato chiesto, in un modo molto interessante direi. Collega Treon, sa che la candidata Johns ha usato una torta?» spiegò tutto esaltato all'altro Osservatore. Lui semplicemente annuì. «È stato emozionante vedergliela offrire ai suoi compagni. Nell'istante in cui la candidata Doboise ne ha presa una, persino commovente».

Non so a che gioco stesse giocando, ma iniziava davvero a stancarmi. Commovente? Emozionante? Sembrava stesse parlando di un film, non di qualcosa che era accaduto giusto il giorno prima.

«Potrebbe essere stata la voglia di rivalsa su di loro ad averle fatto cambiare idea?» domandò dopo, e lì persi ogni vincolo.

«Come scusi?»

«Ha detto di essere stata presa di mira da certi pettegolezzi per un po', e se non erro c'è stato un diverbio alla mensa tra lei e il candidato Paterson, a cui però erano presenti anche il candidato Jefferson e la candidata Doboise. Se non erro, entrambi non avevano preso le sue difese» spiegò con fare scaltro, mentre tornava ad accarezzarsi i baffi.

«Cosa cerca di insinuare?»

«Io non insinuo nulla» protestò categorico. «Il suddetto evento è accaduto, candidata Johns?»

«Si ma...»

«E il signor Paterson l'ha persino aggredita!» intonò, fin troppo preso dall'argomento. «Questi due avvenimento possono aver scatenato in lei il bisogno di ripagarli con la stessa moneta, per questo ha deciso di farlo nonostante fosse un comando così duro per lei da portare a termine. Mi sbaglio forse?»

«Sì, si sbaglia!» esclamai, perdendo le staffe. «Non avrei mai fatto una cosa del genere solo per qualche malinteso!»

«L'aggressione è stato un malinteso?» indagò.

«No, non lo è stato. Quello di Jefferson e Lusyelle è stato un malinteso».

«Quindi sta dicendo che farlo a loro due è stato difficile». Inspiegabilmente il ritmo delle sue domande rallentò. Prese ad annuire accondiscendente per un po', mentre il collega trascriveva tutti i dettagli della mia sfuriata.

Avevo il cuore che pulsava nelle tempie, le mani strette a pugno per scaricare la pressione. Volevo che quella tortura finisse al più. Dopo tutto quello che avevo passato non mi meritavo anche quello.

«Per quanto riguarda Paterson, ciò che ha fatto lo ritiene scusabile?»

Espirai frustrata. «Mi sta chiedendo se l'essermi difesa è stata una vendetta personale?» rigirai la domanda.

«In altri termini, sì»

«Allora la risposta è no. Ha detto di essere un Osservatore e di aver presieduto alla prova, allora dovrebbe sapere che il candidato Paterson ha tentato di soffocarmi. Se non lo avessi fatto a quest'ora sarei morta».

«Ne è sicura?» continuò.

«Avevo io le sue mani intorno al collo, i segni che ho sul collo ne solo la prova» dissi indicando la benda. «Non sembrava intenzionato a volerle staccare. Invece di chiedermi cose ovvie, perché non mi svela il motivo per cui nessuno di voi Osservatori, neppure il Responsabile, avete fermato la prova quando mi ha aggredita di nuovo?».

Avevo dovuto subire una sfilza di domande a trabocchetto, ora era il suo turno. Bogaert congiunse le mani corpulente e mi fissò. Non sembrava contento della mia domanda, ma neppure a disagio. «Come ha sottolineato, sono un Osservatore ed ero presente» replicò, come se bastasse a spiegare tutto.

Una serie di pensieri mi affollò la mente, la maggior parte erano insulti.

«Ultima domanda» sentenziò qualche attimo dopo. «Se non per vendetta, perché ha deciso di seguire le indicazioni della prova, soprattutto se l'ha trovata così difficile?»

Per paura di finire nel Quarto Gruppo, invece di essere direttamente eliminata come invece speravo fin dal principio, e fare da cavia nella Terza Prova. Pensai prima di rispondere. «Perché fa parte dell'Elezione, e questo è uno dei sacrifici che vanno affrontati per contribuire alla ricerca dei prossimi Rappresentanti».

«Lodevole senso del dovere» commentò.

Il suo collega stava ancora trascrivendo quando bussarono alla porta. Un militare aprì e tutto ciò che sentii furono i saluti di Bogaert.

«È stato un piacere avere questo colloquio con lei, le date dei prossimi le verranno comunicate tramite la sua Assistenza. Le auguro buona fortuna per la Terza Prova».

Quando fui finalmente fuori di lì potei riprendere fiato. Mi accorsi di avere la fronte perlata di sudore, la gola secca dal tanto parlare e un tremore nervoso allemani. I prossimi colloqui... Avrei fatto di tutto pur di non arrivarci.

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