Capitolo XV (R)
Passai l'intera nottata triturando, distillando e mescolando gran parte delle piante in mio possesso. L'odore che ne scaturiva era insopportabile, ci vollero tutte le mie abilità di cuoca per realizzare qualcosa di soddisfacente. Non era il mio lavoro migliore, ma ero riuscita a camuffare il puzzo delle piante con un dolce aroma di pastella.
Con sole tre ore di sonno alle spalle, mi svegliai poco prima dell'arrivo della mia Assistente. Sapevo già, ancor prima di leggerglielo sul volto, il perché fosse venuta in tanta fretta. Avrei svolto la Seconda Prova quel giorno, non c'erano più dubbi. Per questo avevo trascorso la notte precedente chiusa in quella cucina, a darmi tanta pena per terminare. Gli organizzatori erano stati incauti non rilasciando le scosse come loro solito, quel dettaglio mi aveva convinta e spronata a concludere. Un solo esonero era da considerarsi un miracolo, ma che una cosa del genere ricapitasse non poteva di certo essere una coincidenza: ci avevano lasciato il tempo necessario per terminare il lavoro. Almeno a chi aveva avuto la lungimiranza di non rimandare, o come me di iniziare e terminare tutto.
«Devi andare a cambiarti, inizieranno tra un'ora» disse pacata.
Mi strofinai il volto assonnato, spostando pentole, ciotole e teglie sporche nel lavandino. Era la cosa più normale che avessi fatto in quell'ultimo mese. Volevo lavarle io stessa per rendere completa quell'abitudine così necessarie, un inizio semplice e rassicurante per una giornata che mi avrebbe distrutto. Non c'era abbastanza tempo.
Asia posò i suoi occhi increduli sulla mia via di salvezza. «Ma quella è...?»
«Una torta, sì» terminai per lei.
Dirlo ad alta voce non la rese più verosimile. Una volta entrata in cucina l'unica cosa a cui ero riuscita a pensare era il cibo, così a furia di rimuginarci mi ero convinta che fosse la strategia migliore. Stavo davvero per presentarmi alla prova munita di una torta salta ripiena e guarnita di una miscela stendi-candidati. Era improbabile che qualcuno le si avvicinasse, ma se fosse stato un fiasco nessuno mi avrebbe accusata di mancati obblighi, semmai di stupidità. Mi ero creata l'alibi perfetto, usando come copertura la mia nota ossessione per la cucina.
«Andrà benissimo» mentì generosamente Asia.
Dubitava che funzionasse, io stessa non la reputavo una grande strategia, ma forse era meglio così. Mi bastava uscire dalla prova illesa e risparmiandomi altre brutte sorprese, perché dall'Elezione ormai era rimasta fin troppo turbata.
Prima di andare tagliai la torta a fette e preparai una ciotolina di glassa extra da servire. Almeno la presentazione volevo che fosse impeccabile, ne andava del mio onore. Travasai in un piccolo contenitore il distillato che mi era avanzato, il resto lo avevo unito alla copertura della torta. Potevo portare un solo oggetto esterno, l'altro andava scelto all'interno del laboratorio; per precauzione portai anche quello.
In stanza, adagiata sul letto, trovai un'uniforme piuttosto particolare: una maglietta nera accostata a dei pantaloni larghi con capienti tasche interne. In basso gli stivaletti in cuoio usati dai militari della base. Lo stemma della ventisettesima Era ricamato all'altezza del cuore, per ricordare a tutti il motivo per cui avremmo affrontato quella prova. Resistenza, forza, obbiettività, intraprendenza, intelligenza, razionalità, dedizione e umanità. Questo era ciò che cercavano per l'Elezione, almeno secondo la propaganda. Avevano dimenticato di aggiungere obbedienza, scarsa moralità e istinti violenti.
Asia si risparmiò qualunque discorso riguardo al vincere o non vincere. Mi fece un mezzo sorriso e mi augurò buona fortuna. Era una donna ingamba, perspicace e valida; sapeva riconoscere un caso senza speranza quando ne vedeva uno.
Se da una parte la mia Assistente aveva deciso di lasciarmi i mie spazi, dall'altro William decise di non essere altrettanto premuroso. Quando ci riportarono in quella sala circolare, cinque alla volta, la sua prima reazione fu di incredulità verso l'incarto della mia torta.
«Ma che diamine...» bofonchiò.
«Non chiedere» minimizzai. C'erano concorrenti con oggetti molto più strani – tubi, attrezzi improbabili – anche se il mio dava davvero nell'occhio. Altri erano a mani vuote, presi dal panico per l'immediatezza della prova. Non tutti avevano preso in considerazione l'eventualità di un collegamento ravvicinato tra visita e prova, dovevano aver dormito beati senza accorgersi della mancanza delle scosse. «E tu? Cos'è, giochi allo scienziato?» lo canzonai.
Brandiva due fiale di composti sigillati, tenendoli stretti tra le mani come se dovessero esplodere da un momento all'latro. Mi venne la nausea all'idea che fosse quella la sua prova: far saltare in aria delle cavie nella stanza IV. Suonava anche troppo credibile. Per fortuna l'Elezione non aveva motivo per volerci morti, ci rispedivano semplicemente a casa.
Almeno lo speravo.
«Preferirei non parlarne, ora» tagliò corto. «Magari quando avremo finito».
«Si» asserii. Un'ultima chiacchierata prima del ritorno a casa potevo concedergliela.
Ad attendere fuori eravamo in pochi, le solite prime tre classifiche, mentre il Quarto Gruppo doveva essere stato lasciato indietro. Oppure ci stava già attendendo all'interno, seduti al posto delle cavie. I Latori ci divisero in file da nome candidati ciascuno, con l'intenzione di farci entrare uno alla volta a intervalli di massimo mezz'ora ciascuno. Sembrava di essere tornati al giorno dei test medici, quando ero stata selezionata come idonea. La differenza stava in ciò che mi aspettava una volta oltrepassata la soglia, e non era di poco.
Pel di carota era tre persone avanti a me, questo non gli impedì di sogghignare alla vista del mia torta. Scosse persino il capo compiaciuto, come se avessi raggiunto le sue aspettative. Per quanto fermo si fosse dimostrato riguardo al volermi mandar via, alcune volte si comportava come se volesse vedermi a lavoro. Ma Shawn non era l'unico ad essersi accorto della mia gustosa torta, il cui odore invitante trapelava dall'incarto solleticando le narici dei concorrenti vicini. Devan, proprio dietro di me, ne avvertiva l'aroma fin troppo.
«Vuoi corromperli con del buon cibo?» scherzò, mettendomi a disagio con gli altri candidati. Come saltava fuori il mio nome e qualche stupida insinuazioni, i concorrenti le prendevano subito alla lettera.
«Andiamo Devan, l'avrà portata per farsi uno spuntino» commentò qualcuno sarcastico, dalla fila accanto alla nostra. Era quella per la stanza IV, cinque posti avanti a William. Doveva essere del gruppo dei Qualificati, il volto spigoloso e i capelli neri mi dicevano qualcosa. Era uno degli amici di William, aveva un nome che iniziava con la E... Edin, Edro, qualcosa del genere.
«Ehvena è bravissima in cucina» disse una ragazza in tono dismesso, facendo cessare le risatine di quei due. Si trovava nella fila per la stanza IV, era la stessa ragazza che avevo quasi fatto piangere e a cui, stranamente, Shawn rivolgeva la parola. «Cosa c'è di male se usa le abilità per vincere la prova?»
Il suo doveva essere un aiuto, ma peggiorò solo le cose. A sentirla sembrava davvero che dovessi offrirla agli Osservatori, invece serviva solo a distrarre le cavie il tempo necessario di azionare il vetro divisorio. «La userò per la prova, se proprio vi interessa» dissi.
«Uh? E che ci farai con una torta?» insistette il candidato.
«Eddie, perché non stai zitto?» sopraggiunse il biondino, seccato. «Lei almeno ha qualcosa con cui presentarsi alla prova, tu sembri essere qui a mani vuote» infierì, stizzito anche più del dovuto.
Difatti il ragazzo con se non aveva niente, bastò farglielo notare per rabbonirlo. Oltre quello non ci furono più imprevisti, l'ansia iniziò a divorare i candidati al punto da togliergli la voglia di punzecchiarsi l'un l'altro. La mia non era semplice agitazione, ma paura. Ogni passo che facevo verso la porta era come una condanna. Se avessi superato la prova avrei atteso per un altro mese qualcosa di peggiore, non superarla significava uscire con più di un semplice livido.
E con me avevo solo una torta.
Ripensando alla mia strategia iniziò a sembrarmi quasi ridicola. Forse avrei dovuto usare i condotti di ventilazione o l'allarme antincendio come tutti.
Presto mi ritrovai faccia a faccia con il mio incubo; uno dei Latori appostati ai margini mi disse quando entrare. Realizzai in quel momento che nessuno era uscito dalla stessa porta da cui era entrato. Ancora una volta si trattava di una strada a senso unico.
L'interno era identico a come lo ricordavo, forse un po' più illuminato. Il vetro era stato oscurato in modo che non vedessi chi mi attendeva dall'altra parte, e un tavolo era stato posizionato in un angolo vuoto; gli Osservatori e il Responsabile Chamber si erano raccolti intorno a questo.
«Candidata Johns» il Responsabile mi fece un cenno.
Mi avvicinai titubante, osservando l'accozzaglia di oggetti abbandonati sul quel tavolo. L'Osservatore Bogaert mi chiese di scegliere un secondo oggetto che mi potesse essere utile, mentre una delle sue colleghe prese in setaccio la mia torta.
«Userà questa?» domandò scettica, ma non sorpresa.
«Esatto» risposi. Mi aspettai anche da loro una risata simile a quella degli altri candidati, ma si limitarono a scribacchiare sui loro palmari.
Mi concentrai sulla massa di ciarpame proposto. C'erano tubi in metallo e di plastica, attrezzi, accendini, provette, corda, materiale affilato e... una siringa. Se ci avessi messo dentro il distillato che mi era avanzato e che avevo fortuitamente deciso di portare, potevo avere una seconda arma a disposizione. Un solo colpo era sempre meglio di avere con me solo la torta.
La estrassi dal mucchio e tirai fuori dalla tasca la boccetta con il liquido. «Se inserisco questo qui dentro, posso portarlo dentro insieme alla torta?»
«Si può portare un solo oggetto esterno e uno interno. Non può» iniziò una delle Osservatrici.
«Questo liquido è l'oggetto che porto come me, solo che lì» indicai la torta, «ha un aspetto migliore». Sperando bastasse a convincerla.
«Non penso sia possibile» insistette lei. «Responsabile Chamber, glielo dica».
L'uomo si avvicinò, scrutando con attenzione la boccetta. «Si può portare un solo oggetto esterno. Nel caso di liquidi concediamo l'utilizzo di un oggetto intermediario, un contenitore per capirci. Dunque la sua torta andrebbe considerata tale» chiarì, tirandosi su gli occhiali. «Nel caso, la siringa avrebbe uguale utilizzo. Vuota è da considerarsi inutilizzabile e lo scopo del secondo oggetto è di aiutare il candidato durante la prova. Riempiendola con il liquido diventerebbe efficace e in ogni caso si tratterebbe dell'utilizzo della torta che, come abbiamo visto, funge da contenitore un po' inusuale per quello stesso siero».
I suoi giri di parole stavano dando alla donna il mal di testa, che alla fine si appellò ai suoi colleghi. Io avevo perfettamente capito dove volesse andare a parare, quindi attesi paziente.
«In visione di ciò, sono certo che anche gli altri colleghi converranno che alcuna effrazione verrà commessa lasciandole riempire la siringa.» Nessuno fiatò, quindi lo prese come un tacito assenso. «Se lei è pronta a giurare che in quella torta c'è lo stesso siero che ha tra le mani, può andare» aggiunse con un guizzo scaltro negli occhi.
«Certo. Può analizzarlo se preferisce. Entrambi» risposi, indicando anche la torta.
«Con piacere. Dopo la prova, però» disse. «Come ricorderà dal discorso di ieri, deve entrare e svolgere il compito descrittole sul foglietto. Quando avrà terminato, se ne avrà necessità, prema il pulsante per azionare la lastra sparatoria. Avrà 15 minuti per farlo, il conto alla rovescia partirà alla chiusura del portellone».
Mentre spiegava iniziai a prepararmi: rovesciai la glassa extra sulla torta, lasciandogliene un po' da poter analizzare; riempii la siringa e anche lì lasciai abbastanza fluido da poter analizzare. Nella siringa risultava poco, ma si trattava di un composto puro quindi doveva bastare per mettere fuori gioco almeno una persona. Per la torta lo avevo dovuto diluire un po', in modo che non raggrumasse la guarnizione.
Chamber prese gli scarti e li adagiò accanto ai macchinari da laboratorio. Non sapevo se li avrebbero realmente analizzati, io comunque non avevo niente da nascondere.
Infilai con cura la siringa in una tasca, sperando di non iniettarmi accidentalmente il contenuto camminando, afferrai il vassoio e mi diressi alla porta. Chamber l'aprì quanto bastava per farmi passare, faticò ad attendere che oltrepassassi la soglia per richiuderla. Il rumore secco della serratura azionò con un bip il contatore, dando subito inizio alla prova. Per qualche istante indugiai per la paura, non alzando lo sguardo verso il tavolo. Riuscivo a pensare solo al pulsante rosso e alla voglia che avevo di premerlo subito. Quando capii che farlo non era una buona idea, mi decisi a guardare avanti ed ebbi quasi un mancamento.
C'erano solo tre persone sedute intorno a quel tavolo, ma le conoscevo tutte.
Lusyelle, con i suoi capelli argentati, guardava vitrea davanti a se; di fianco il suo ragazzo, Jefferson. Il terzo posto era occupato dall'ultima persona che avrei dovuto vedere seduta lì: Paterson. Mi voltai verso il vetro oscurato, da cui gli Osservatori ci stavano già tenendo d'occhio. Mi misi in modo che tutti e quattro potessero vedere l'espressione disgustata che avevo. Non era un caso, non lo credevo possibile. Doveva essere stata la Rappresentante Engineer ad averlo richiesto, per vederlo continuare da dove lo avevano interrotto.
Decisi di non muovermi, neppure quando Lusyelle mi guardò fissa negli occhi. Era così gonfi e arrossati, come se avesse pianto allungo. Guardandolo bene, anche Jefferson aveva qualcosa di strano: un taglio gli correva lungo il sopracciglio sinistro, gli angoli della bocca gonfi e sanguinolenti. Sfortunatamente Paterson era l'unico ad avere un aspetto normale. Cosa ancora più strana, nessuno aveva provato a fermarmi. Erano tutti immobili, quasi inchiodati a quelle sedie metalliche.
«Non devi fare qualcosa?» disse Paterson innervosendomi. Non so come osasse rivolgermi ancora la parola, o cosa mi trattenne dal piantagli subito quella siringa nella schiena.
Invece di lanciare loro la torta e premere il pulsante, decisi di avvicinarmi a piccoli passi. Lusyelle si rannicchiò spaventata, coprendosi la bocca per soffocare i singhiozzi. Jefferson era come bloccato, quasi assente.
«Cosa vi è successo?» domandai in un sussurro. «Lusyelle...» la chiamai. Sembrò mettermi a fuoco solo allora.
«E-Ehvena», la voce smorzata tra le lacrime.
«Chi ti ha ridotta così?»
Si guardò attorno, allarmata. Lo sguardo scorreva per la stanza, senza mai fermarsi sul vetro. «È la prova. Basta fare quello che dicono» borbottò. «Subire senza opporsi, hanno detto così».
«Chi ha detto così?» chiesi. Scosse il capo; qualche lacrima scivolò silenziosa. «Sono stati gli latri concorrenti? Da quanto siete chiusi qui dentro?
«Da ieri» rispose Jefferson. «Ci sono dei turni. Dobbiamo solo tenere duro per vincere».
Non capivo cosa stesse succedendo. Sembrava che gli avessero rinchiusi dalla visita del giorno prima, trattati come vere e proprie cavie da laboratorio. I concorrenti prima di me avevano svolto le loro prove sui questi poveretti, i segni era ben visibili. Tutti quegli attrezzi, i tubi, i liquidi, servivano a quello. E io dovevo fare altrettanto.
Scoccai un'occhiata al mio aggressore: stava bene, fin troppo bene. Perché loro e non lui, che tra tutti se lo meritava di più?
«Ma che state blaterando» esplose Paterson irritato. «Muoviti a fare quello che devi fare. Non perderò la prova per colpa tua!»
Se avesse detto una parola in più e lo avrei senza dubbio colpito con quella siringa.
«Dobbiamo mangiarla?» domandò Jefferson. Lusyelle singhiozzò di nuovo, provando ad afferrane una fette. Glielo impedii.
«No, non dovete». Mi voltai verso il contatore, erano passati già cinque minuti.
Quei tre erano stati messi lì perché ci conoscevamo. Mettermi davanti ai miei compagni di corso, le persone che mi avevano dato più problemi durante la permanenza nella base – per giunta il mio aggressore – solo vedermi dar loro quella torta e uscire allegramente. No, non potevo dargliela. Quei due non avevano commesso nulla di così grave da giustificare un'azione simile. Paterson se lo meritava, anche solo per il suo atteggiamento per nulla pentito, ma per quanto avessi desiderato ripagarlo con la stessa moneta, non avrei permesso a nessuno di toccare quella torta. Se questa era l'Elezione, allora me ne sarei tirata indietro.
Lusyelle mi afferrò il polso mentre tentavo di spostare quella trappola. Gli occhi alienati che mi supplicavano di non farlo. «Tu devi darcela» disse. Non riuscivo a credere alle mie orecchie, mi stava chiedendo farle del male?
«No. Se la mangiate voi...» tentai irremovibile, mentre la sua stretta diventava sempre più decisa. Per essere così minuta e avere l'aria sconvolta, aveva abbastanza energie da farmi male.
«Se ti rifiuti loro ti mettono nel Quarto Gruppo, e poi finisci come noi nella prossima prova» bisbigliò. «Resta lontana dal Quarto Gruppo».
Scivolai in ginocchio, davanti al tavolo. Non riuscivo a credere che stesse succedendo davvero, sembrava tutto un incubo orrendo. Dopo la prima prova era avvenuto qualcosa di simile, mi ero immaginata cataste di cadaveri a causa della prima scossa. Come allora volevo potermi svegliare e scoprire che la Seconda Prova non era ancora iniziata, che in realtà era molto più umana di così. Poi vidi Lusyelle afferrare una fetta di quella maledetta torta, divorarla senza esitazione e offrirne un po' anche al suo ragazzo. Dopo il boccone aveva guardata negli occhi, lodando la mia bravura in cucina e confessandomi di averla sempre invidiata. Le sue dieta si erano intrecciate a quelle del suo fidanzato, e insieme avevano aspetto che, qualunque cosa avessi messo dentro, facesse effetto. Non ci era voluto molto prima che entrambi cadessero in un tragico sonno, mano nella mano. Un sonno causato da qualcosa che avevo creato io. Qualcosa che avevo desiderato ardentemente mi aiutasse a uscirne illesa.
Assistere a quella scena mi spezzò il cuore, tanto che non riuscii a trattenere le lacrime. Shawn intendeva questo per carnefice: quel senso di sporco che non poteva essere lavato, una macchia sulle mani che mi sarei portata dietro a vita. Pensare che fosse in nome dell'Elezione non bastava a pulirmi la coscienza.
Spostai la mano esile ancora attorcigliata al mio polso, adagiandola delicatamente sul tavolo. Se lo avessi saputo avrei selezionato con più cura le piante e aggiunto meno siero, invece di limitarmi a mescolare un po' di tutto. Se lo avessi saputo, non penso che avrei avuto il coraggio di presentarmi alla prova.
«Che gli hai fatto?!» gridò Paterson quando persero conoscenza. Non aveva nemmeno pensato di assaggiarla quella torta.
«Se vuoi vincere la prova ti conviene mangiarla» mi limitai a dire, asciugandomi le lacrime. Mancavano ancora alcuni minuti secondo il contatore.
«Non ci penso nemmeno!» sbraitò. «Io non ci finisco così! Non ci riuscirete!»
Batté i pugni sul tavolo con la stessa furia squilibrata che gli avevo visto la notte dell'aggressione. Avrei preferito buttarmi a terra e lasciare che tutto mi scivolasse addosso, ma il morso della paura mi agguantò alle spalle e mi mise sulla difensiva.
Paterson si diresse a grandi falcate verso il vetro oscurato; senza accorgermene era finita dalla parte sbagliata della linea, troppo lontana dal pulsante.
«Siete tutti d'accordo» blaterò come un tic nervoso. «Mi avete declassato solo per permetterle di farmi questo!»
Come me, Paterson aspettava una risposta che sapeva non sarebbe arrivata. Non era persone in grado di sprecare qualche parola per risolvere dei fraintendimenti, loro preferivano osservare silenziosi e meschini mentre mi usava come capro espiatorio.
Rividi le scene di quella notte in un flash improvviso, mentre inveiva contro di me.
«È colpa tua» delirò. «Il mio posto non era su quella sedia! Dovevo esserci io al tuo posto!»
Gli occhi sbarrati lanciavano sguardi alle pareti, il petto ansimante e qualche goccia di sudore che gli colava dalle tempie. Sembrava un animale in gabbia, pronto a sbranarmi. Si sporse in avanti per venirmi addosso ed io ero già pronta ad usare la siringa; purtroppo non avevo tenuto in conto che ormai era completamente accecato dalla rabbia. Ciò che avevo visto la prima volta era nulla se confrontato al suo stato attuale: era davvero fuori di sé. Le pupille dilatate e l'adrenalina che gli scorrevano in corpo era immobilizzante. Schivai il primo tentativo di colpirmi quasi per miracolo.
Rotolai di lato, tentando di rialzarmi per premere il pulsante. Riuscii a colpirlo al primo tentativo, soltanto perché Paterson era troppo sorpreso dalla mio tentativo di sfuggirgli. Si aspettava che restassi ferma e inerme come la prima volta. Quando il muro si attivò, alzandosi lentamente, andò ancora più in confusione.
Tirai un sospiro di sollievo, forse troppo presto.
Qualche istante di esitazione e lo vidi scavalcare il vetro separatorio prima che fosse troppo in alto. Cadde a terrà e gemette, rialzandosi quasi nello stesso istante. Le sue mani si stinsero intorno al mio collo, come fosse un ramoscello. Stringevano sempre di più, mozzandomi il respiro. Le mie mani si strinsero intorno alle sue in un vano tentativo di fargli allentare la presa. Gli occhi gli divennero due braci ardenti, specchiandomi in quell'inferno potevo vedere la mia paura sguazzare nella sua rabbia; la voglia di farmi del male. La prima volta voleva solo spaventarmi, farmi confessare cose che non avevo fatto. In quel momento, stava seriamente provando ad uccidermi.
Sapevo che la siringa era lì, nella tasca, e che bastava allungare un braccio per estrarla. In quel momento però, potevo solo pensare alla sua presa così paralizzante. Al dolore. Alla paura. Poi scesero le lacrime, la vista andava annebbiandosi e mentre pensavo a quella patetica fine stavo per fare, ebbi una folgorazione: non volevo morire, non in quel momento, in quel modo, in quel posto. Come un automa la mano esplorò la tasca in cerca della forma famiglia di quella siringa, trovandola poco prima di iniziare a sentire la pressione accumularsi alla testa. Conficcai l'ago nell'unico poco che potessi vedere abbastanza chiaramente: la guancia.
Dopo averla svuotata si staccò per la sorpresa, urlando di dolore. Ripresi a respirare, grossi e disperati imbocchi d'aria, mentre le lacrime calde continuavano a sgorgare. Sollievo, gratitudine, non sapevo cosa provare. Paterson sia accasciò lentamente, continuando a fissarmi con rancore. Aspettai di vederlo perdere del tutto coscienza prima di scivolare lungo la parete, priva di forze.
Fu solo allora che la porta si aprì.
• • • • •
Avevo un cappio legato intorno al collo, fatto di dita perfide che stringevano con ostinazione, decise a privarmi di ogni respiro. Quando annaspavo in cerca di aria, portandomi le mani alla gola, graffiavo e mi dimenavo nel tentativo di sbarazzarmene. Ma non c'era mai niente di cui liberarsi. Dopo l'ennesimo inutile tentativo, i dottori decisero di legarmi entrambe le braccia al lettino. Almeno credetti fossero dottori, tutto ciò che riuscivo a distinguere macchie d'inchiostro acquoso si spostavano su di un piano bianco. Per quanto salda era la presa, poteva essere stato anche un militare.
«Candidata Johns» mi sentii chiamare.
La voce del Responsabile Chamber risuonava sordida e ovattata, il volto ridotto a una chiazza informe. Nonostante la confusione intontente nella quale ero sprofondata, decise di mettermi ugualmente al correte dei dettagli riguardanti la prova.
«Candidata Johns, si trova nell'infermeria della Base Alpha» mi comunicò. Ero frastornata, certo, ma non al punto che credeva lui. Mi ricordavo perfettamente il momento la porta era stata aperta e una coppia di militari era venuta a portarmi fuori. Ero stata spostata su di una brandina, trasportata attraverso i corridoio del piano sotterraneo fino all'infermeria. Dopo aver fatto quel che avevo fatto, avevo semplicemente deciso di restarmene distesa, muta, paralizzata. «La sua prova è terminata; anche gli altri candidati hanno eseguito le loro. Gli esiti vi verranno comunicati domani» aggiunse.
Avrei voluto dirgli di sparire, che non mi importava affatto del risultato; invece di tenermi nell'infermeria volevo che mi spedissero a casa con il primo Scriblet disponibile. Invece di dar voce ai miei pensieri, decisi di tacere ancora, fintanto che potevo.
«La prova è andata bene, ha fatto un ottimo lavoro. Non dovrebbe avere ragioni di preoccuparsi» aggiunse, stuzzicando troppo la mia falsa calma.
Non so cosa fosse peggiore, tra la consapevolezza di aver fatto veramente un ottimo lavoro e i suoi nauseanti complimenti. L'unica cosa che mi trattene dal piombargli addosso come Paterson aveva fatto con me, non fu tanto il dolore o lo stato confusionario, quanto i polsi bloccati. Preoccuparmi di com'era andata la prova doveva essere la priorità degli altri candidati, non la mia. Io rivedevo ancora l'espressione spaventata di Lusyelle, il suo volto rigato dalle lacrime e le ferite di Jefferson; ripensavo a quando avevo visto il mio aggressore in quella stanza, a come aveva cercato di soffocarmi mentre gli Osservatori e il Responsabile erano rimasti impassibili, studiandoci comodamente dalla loro postazione. Avevano atteso che l'ultimo secondo scattasse prima di aprire la porta, mentre io ero a un passo dal morire soffocata. Qualunque cosa i Rappresentanti avessero provato a dire o a fare, non avrebbe mai coperto una cosa del genere.
Quando finalmente si decise a sparire, i medici tornarono per un secondo giro di controllo. Mi tennero legata alla brandina per il resto della giornata, avvolta nel torpore dei farmaci e un fascio di lacrime che non riuscivo a fermare. Avevo un piede nella realtà, spietata e asfissiante, mentre l'altro navigava nel regno degl'incubi, altrettanto cupo e doloroso. Nessuna scossa mi avrebbe salvata dal ricordo di quell'orribile esperienza, e dimenticare era per me impossibile. Volevo credere che stessi così male per via di Paterson, ma più della paura erano i sensi di colpa ad attanagliarmi. Lusyelle e Jefferson che addentavano la mia torta, quella che avevo preparato con il preciso scopo si stendere chiunque mi fossi trovata davanti, era un'immagine di cui non mi sarei più sbarazzata. Pur pensando a tutte le scuse possibili, alle mezze verità che potevano farmi sentire un po' meglio, non potevo cambiare la realtà dei fatti: avevo svolto la prova come da richiesta. E con tutta probabilità, ero ancora in gara.
Malgrado l'avvertimento di Lusyelle riguardo all'ultimo gruppo, riuscivo solo a pentirmi di non aver dato subito forfait. La punizione dei Rappresentanti non sarebbe stata peggiore della colpa che mi portavo addosso, che mi avrebbe seguito al di fuori dell'Elezione.
Torturandomi con i ricordi della prova, realizzai lentamente quale fosse il suo reale scopo: dopo averci impartito degli ordini, ci avevano divisi in vittime e carnefici solo per vedere chi riusciva ad eseguirli. Indipendentemente da chi avessimo avuto davanti. Nel mio caso, con compagni di università e la persona che più detestavo, avevano voluto vedere come mi sarei comportata. Shawn ne aveva intuito lo scopo e, ancora una volta, aveva cercato di mettermi in guardia. Ma neppure lui avrebbe potuto prevedere che le cavie non erano lì con lo scopo di ostacolarci, bensì di subire in silenzio. Questo valicava tutti i principi morali sulla quale lo Stato di Phērœs era stato fondato, intorno alla quale l'Elezione doveva ruotare. E se all'interno della Base Alpha le leggi di Phērœs non valevano, allora niente avrebbe più potuto fermarli.
Era solo il principio.
Passai ore incatenata al letto in quelle condizioni. Quella sera più che mai, le scosse non mancarono. Nonostante i farmici ero certa che fossero durante più del solito, come dei tentativi ripetuti di mettermi a dormire. Nello stato di tensione in cui mi trovavo, senza le scosse non sarei riuscita a chiudere occhio per tutta la notte. E quelle a seguire. Persino dopo queste mi sembrò di essere totalmente sveglia, paralizzata solo nel corpo e vigile nella mente. Qualcosa che sperimentavo già ogni notte, così velatamente da accorgermene a fatica.
Attesi con una certa impazienza che la voce facesse capolino con una nuova spiazzante verità, magari sottolineando quando sbagliate erano state le mie azioni. Volevo che la gente la smettesse di congratularsi e iniziasse a sgridarci, che ci dicesse che avevamo perso la prova perché non ci eravamo opposti. Volevo sapere che qualcuno mi disprezzava per ciò che avevo contribuito a creare, almeno più di quanto già non facessi io. La voce, però, non era lì per questo, lo capii solo dopo un intero mese di sussurri. Il primo giorno aveva mostrato interesse per me e ciò che avrei potuto fare, per intere notti aveva sussurrato il mio nome, solo quello, ricordandomi chi fossi e, nel frattempo, lo aveva capito. Perché io lo avevo capito. Si presentava come l'eco dei miei pensieri, non quelli che potevo udire o capire: erano molto più profondi. Quella notte, infatti, non desiderano davvero dei rimproveri, né volevo essere consolata.
«Mi dispiace» disse un'unica volta. Un suono sottile che danzava in bilico su di un filo consumato, pronto a spezzarsi. La mia voce sarebbe stata esattamente così, se avessi deciso di aprir bocca.
Perché era a me che dispiaceva.
Ero io a volermi scusare con qualcuno.
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