Capitolo XIII (R)

Per una notte ero stata privata delle scosse, ma tanto era bastato per farmele rivivere come se fossero le prime.

Quel formicolio tramortente che precedeva i guizzi sprigionati dal trasmettitore, una condanna o una salvezza per chi come me si trovava sull'orlo di un baratro. Detestavo l'idea di non avere il controllo su come e quando chiudere gli occhi, ribollivo di rabbia al pensiero che qualcuno, alle veci dei Rappresentanti, dovesse premere con leggerezza un tasto per renderci dei fantocci accomodanti. Tuttavia, per quell'unica notte, volevo dimenticarmi di cosa fosse giusto o sbagliato: un posto senza incubi, paura e dolore, era meglio di qualsiasi notte passata a soffocare in queste. Quell'esonero, che tanto ingenuamente mi era parsa una ricompensa, poteva in realtà essere visto come una punizione.
Ma chi poteva essere così crudele da dare una persona in pasto ai suoi demoni?

La fase di stallo, quella in cui dopo le scosse si restava sospesi tra la realtà e il vuoto assoluto, durò più di quanto ricordassi. Sentivo lo stato di inerzia del mio corpo, come se in realtà potessi ancora muovermi ma le energie mi venissero risucchiate. C'era qualcosa, all'altezza dei polsi e delle caviglie, che premeva sulla pelle con dolorosa costanza. Aspettai che la voce mi riportasse alla routine onirica che avevo sempre vissuto, ma non fu così. Quella dolce e delicata voce che mi aveva tanto turbata, aveva assunto delle sfumature più cupe, scostanti.

«Non avevano il diritto di farlo» pronunciò. «È una nostra competenza».

Rammarico, forse anche velata collera, scorrevano innaturali in quelle parole. Qualche verso di disappunto e il silenziò agguantò di nuovo la mia mente, talmente limpido da rendere percettibile il mio stesso respiro.
Si può ascoltare il proprio alito di vita in un sogno?

«Ehvena» infine mi chiamò. Non fu come sempre, quel nodo negativo ne distorceva ancora il tono.

Dei brividi mi corsero su per la schiena, quando un pizzico gelido mi colpì al braccio sinistro. Era un déjà-vu della prima notte passata nella Base Alpha; anche allora avevo avuto quell'insolita sensazione di essere rivoltata dall'interno, come se qualcuno raschiasse sul fondo della mia mente per recuperare qualcosa, trovando il vuoto deludente di quando non si riesce a ricordare un evento di cui diamo per certa l'esistenza.

«Sei...» sussurrò affranto, «troppo fragile, Ehvena Johns. Se ciò che è accaduto ti ha scossa fino a questo punto, superare le prove per te sarà devastante».

Le parole mi scivolavano addosso come un gelido soffio, portandosi via la mia coscienza.
Devastante, aveva detto. Non difficile.

• • • • •

Spalancai gli occhi, ancora bagnati delle lacrime versate ore prima, abbandonando il ricordo della conversazione. Mi presi del tempo per assaporare quelle genuine abitudini: svegliarsi dal torpore notturno, concentrarsi sulle lenzuola attorcigliate, gli sbadigli e lo stiracchiarsi. Il livido faceva ancora un po' male, un dolore sopportabile e in procinto di svanire.

Dopo aver sfogato le angosce represse in un lungo pianto, anche se interrotto, mi sentivo più leggera, quasi sollevata. Avevo ancora la testa affollata da quei pensieri ingombranti, raddoppiati durante la notte; quelli che se si tentava di allontanare diventavano più persistenti, vividi, spesso al limite dell'ossessione. Ora avevano tutti il suono di quella voce, la stessa che poche ore prima veneravo per via del suo effetto calmante, e che ora grondava di rimproveri.

"Sei troppo fragile. Per te sarà devastane" lo aveva detto chiaramente. La parte più irritante era similarità tra quelle parole ed altre più aspre. Lì, si parlava di una rosa – un bocciolo a dire il vero – che qualcuno credeva fosse il mio ritratto.
Il fatto che fosse tutto vero, mi faceva diventare matta.

Respirai a fondo. Mancava un giorno alla visita della struttura e io dovevo ancora ricevere il materiale per trovare la risposta all'enigma. Non potevo in alcun modo presentarmi a mani vuote, rischiando di essere etichettata come una sovversiva anti-elezione. Ero troppo lontana dalla soluzione, mi serviva disperatamente del tempo. Tempo per riprendermi, superare, capire e prepararmi. Ma nessuno era intenzionato a darmene.

Nel tentativo di ristabilire un po' di equilibrio, feci una lista mentale delle priorità: avevo ancora un pomeriggio di allenamenti da recuperare e non potevo ritardare. Tutti sapevano delle mie passeggiate mattutine, se proprio quel giorno avessi deciso di alzarmi tardi la Rappresentante avrebbe chiesto la mia testa su un piatto d'argento. Mi feci una doccia veloce, infilai una delle mie tute e uscii. Lasciai che la piccola lavatrice nel bagno claustrofobico, una scatola di ingranaggi che strideva e sfrigolava, riempisse il vuoto della stanza con i suoi rumori. Grazie a quell'affare i miei abiti avevano perso il loro rassicurante odore, ora sapevano della miscela igienizzante usata per pulire i locali della Base; erano così impersonali. Entro la fine dell'Elezione avrebbero assunto l'aspetto di stracci logori per via di tutti quegli allenamenti.

Ripercorrere i corridoi senza ripetere la mia patetica fuga fu una sfida che vinsi solo immaginando l'alba: la distesa di colori pastello che svettava da dietro le minute fronde della foresta ibrida. Con quel quadro come sfondo per la mia mente sofferente, dirigermi nella palestra per gli allenamenti fu meno orribile. Era piacevole prendere una boccata d'aria ai primi albori. Quando la Rappresentante mi aveva ordinato di rispettare "l'equità dell'Elezione" mi ero subito trovata contraria, invece, il faccia a faccia con del sano lavoro mattutino mi aveva completamente risollevato l'umore. Non era come cucinare, ma mi diede l'illusione di star recuperando qualcosa della mia normalità.

Trovai l'allenatore Osborne al centro della stanza, immobile. Guardava dritto davanti a se senza batter ciglio, le mani giunte dietro la schiena e le spalle incurvate dal peso dei pensieri. Mi avvicinai con cautela, aveva l'aria di star riflettendo profondamente.

«Candidata Johns» pronunciò, facendomi sobbalzare; l'aria già irritata.

Osborne era quel che si definiva "un uomo con gli occhi sulla nuca". Nella Base Alpha un po' tutti, soprattutto il personale di rango superiore, erano come lui. Contando i doppi occhi di cui disponevano, il circuito di videocamere e gli Osservatori, ero sorprendente come si verificassero ancora delle aggressioni.

Sbuffò, voltandosi con espressione tirata. Si era svegliato all'alba per colpa di un solo candidato, il suo malumore questa volta era scusabile.

«Deve recuperare un intero allenamento pomeridiano» mi ricordò. «Ho avuto ordine di impegnarla per tutta la mattinata, ma essendo lei una candidata del gruppo affidatomi e avendo ricevuto un contrordine più flessibile, le chiedo di attendere qui l'arrivo dei suoi compagni».

Capire chi avesse ordinato cosa, non fu difficile. Engineer mi voleva chiaramente martoriata dagli allenamenti, anche durante l'interrogatorio non si era data troppa pena per nasconderlo, mentre Tremblay aveva chiesto un po' di clemenza. Se i loro ordini erano sempre così discordanti, per sottoposti come Osborne accontentare entrambi doveva essere difficile.

«Compagni?» domandai inquieta. Non volevo vedere altri candidati così presto, adoravo la mattina perché era sempre stata tutta per me.

«A causa di ciò che è accaduto i Rappresentanti hanno ritenuto opportuno parlare con tutti i candidati coinvolti. Questo ha comportato loro la perdita di alcune ore dell'allenamento, che recupereranno con lei».

«C'erano le registrazioni» affermai, ancora risentita per via delle accuse della Rappresentante. «Bastava rivederle per conoscere i fatti».

Le registrazioni di telecamere così ben nascoste sarebbero bastate a chiunque, ma non ai Rappresentanti. Per qualche ragione, loro avevano deciso di scomodarsi e intrattenere colloqui con tutti i candidati coinvolti, far perdere loro gli allenamenti e costringerli a recuperarli all'alba. Per essere i Capi del nostro Stato, erano davvero inefficienti.

Osborne mi trafisse con sguardo alienato.
«L'Elezione non procede basandosi solo sui fatti, ma tenendo conto di come i candidati rispondono agli stimoli».

Lui li aveva definiti stimoli, io li vedevo come delle negligenze. Non mi sorpresi di quel suo modo contorto di vedere le cose, da quelle parti anche l'essere aggredita veniva visto come uno stimolo. Di sicuro gli istruttori come lui ci addestravano le reclute con quegli stimoli, tanto che al lungo andare doveva del tutto normale. Mi guardai bene dal rispondergli. Nessuno mi avrebbe dato ragione, soprattutto non un patriota che serviva fedelmente lo Stato di Phērœs.

«Quanti sono?»

Mi accomodai sul bordo del pavimento imbottito, sfilandomi le scarpe. Qualcosa mi diceva che Shawn era parte di quel gruppo. L'ultima cosa che volevo vedere era la sua faccia, quindi quasi certamente si sarebbe presentato. Per primo, vista la condivisa abitudine di girovagare per la base. L'occasione perfetta per un resoconto su ciò che aveva costretto me e Osborne a intrattenere una conversazione così spinosa.

«Abbastanza. Saranno qui a momenti» biascicò.

Annuii blandamente. Il suo modo criptico di rispondere alla domande era sempre stato snervante, soprattutto quando cercava di farsi beffe di noi poveri candidati. Senza le grida a incorniciarlo poteva quasi essere una persona apprezzabile, tolto qualunque cosa riguardasse l'Elezione. Per giunta, ebbe il tatto di non chiedere nulla riguardo all'aggressione di Paterson: ero certa che ormai tutti nella Base sapessero i dettagli della mia avventura. Per le restanti quattro frasi che ci scambiammo ci girò intorno, chiedendomi solo del mio stato di salute. Non per gentilezza o preoccupazione, ma per ricordarmi quanto dura sarebbe stata la Seconda Prova. Più ne parlava, più ero certa che ne sapesse molto meno di quanto voleva lasciar intendere. Dubitavo che qualcuno oltre ai Rappresentanti ne sapesse qualcosa, compreso il Comandante Benedikt.

La conversazione servì solo a ricordarmi di quel dannato enigma e la risposta sempre più distante. Finito il recupero in palestra mi restava poco tempo per esaminare i volumi che Asia mi aveva promesso, dopodiché il pomeriggio sarebbe andato nuovamente perso in altri stupidi allenamenti. Dopo la cena avevo poco più di un paio di ore a disposizione. Ero nei guai, e per questo potevo solo incolpare me stessa. L'attesa la passai seduta sul pavimento imbottito, le gambe incrociate e lo sguardo meditabondo, alla ricerca di un'illuminazione. Non sapevo neppure per cosa, mi bastava solo riceverne una al più presto. Anche supponendo che la Seconda prova non fosse fissata per il giorno dopo la visita, la ricerca di una pianta capace di produrre tutti quei sintomi mi avrebbe completamente assorbito. Inoltre, l'obbiettivo della prova era somministrarlo a delle cavie, un altro punto vuoto che non credevo di poter riempire in tempo.
E presentarmi a mani vuote era fuori discussione.

Quando vidi il primo candidato entrare di sfuggita nello spogliatoio, decisi di smetterla di angustiarmi. Almeno per il momento. Pur non avendolo visto, ero certa che fosse Shawn. Il mio era una specie di sesto senso: scattava non appena qualcuno di sgradito era nelle vicinanze. E con sgradito intendo pel di carota. Per quanto vederlo fosse una sconfitta, sapevo che mantenere lo stesso atteggiamento di sempre lo avrebbe irritato. Almeno così avremmo sofferto in due per tutta la durata dell'allenamento...

Quando sbucò dallo spogliatoio, sorpassandomi come una ventata gelida, rapida e paralizzante, mi sentii quasi soddisfatta di non essermi sbagliata. Si buttò sugli esercizi senza degnarmi di uno sguardo, la solita serie ammazza-muscoli che Osborne fu lieto di non rispiegare. Il nostro era a tutti gli effetti un allenamento autonomo, l'istruttore, piazzatosi in un angolo distante, si limitava ad osservarci. Nella stanza era come se ci fossi solo io, Shawn e uno spesso muro a dividerci. Ancora più spesso di quanto ricordassi.

Da parte sua mi sarei aspettata un'occhiata beffarda e una paternale estenuante, conclusa con uno sprezzante te-lo-avevo-detto, o qualche frase d'effetto che parlasse di rose. Perché Shawn O'belion difficilmente riusciva nascondere la sua saccenteria, soprattutto quando umiliarmi poteva essere un effetto collaterale del suo blaterare. Mi saltò subito al naso il suo comportamento scostante: l'unica a dover avere un ragionevole malumore dovevo essere io.

Nonostante lo spazio a disposizione, decisi che iniziare gli allenamenti accanto a Shawn sarebbe stato più proficuo di struggermi per l'ira a distanza.

«Buongiorno anche a te, O'belion. Si, sto bene, ho solo dei grossi lividi e un bel trauma a segnarmi irrimediabilmente, ma grazie per aver chiesto...» borbottai a inizio piegamenti.

Resistette bene al mio punzecchiare, così bene da farmi temere che tutt'a un tratto avesse perso l'udito. Oltre che per mio capriccio personale, la voglia di attaccar briga era dovuta soprattutto al suo coinvolgimento nella discussione che, secondo i Rappresentanti, era la causa scatenante delle azioni violente di Paterson. Io restavo dell'idea che mi odiasse più o meno dalla prima lezione all'università, ma quel suo crollo nervoso era una prova del sistema imperfetto che guidava l'Elezione, una negligenza piuttosto vistosa e difficile da nascondere. Coprirsi gli occhi con due filetti di merluzzo e trovare a tutti i costi un evento scatenante, avvenuto durante l'Elezione e non prima, era la soluzione migliore. Non per me, ovvio.

«Senti, scusa. Voglio solo sapere cos'è successo» iniziai. «Ti prego...» mugugnai.

Stavo mettendo l'orgoglio sotto i piedi per elemosinare una spiegazione, quando la sua espressione si scurì d'improvviso. Aveva qualcosa di dannatamente serio e spaventoso, una reazione spropositata persino per lui.

«No Vèna, sono io che prego te: non rivolgermi la parola» sibilò.

Aveva la fronte corrugata, i muscoli della braccia contratti e un rivolo di sudore che scendeva dalla tempia anche se aveva iniziato da poco l'esercizio. A vederlo bene non aveva una bella cera. Per un attimo pensai alla possibilità che quella voce avesse turbato anche il suo sonno. Speravo davvero che sussurrasse anche ad altri, come un altro stimolo gentilmente concesso dall'Elezione. Mi avrebbe fatta sentire un po' meno pazza.

Stavo quasi per domandarglielo, ma preferii mordermi la lingua prima di emettere un suono. In quello stato di furia in cui si trovava non mi avrebbe ascoltata. Non lo faceva mai. Ogni conversazione finiva sempre con lui più infuriato di me, e davvero non me lo spiegavo.

Forse se sta così è solo colpa delle scosse, pensai frustrata. Oppure... c'entra qualcosa la sua guarigione. Qualunque fosse la ragione, non ne avrebbe mai fatto parola con me.

Terminai quasi quattro serie prima di vedere altri concorrenti. Una coppia irruppe nella palestra schiamazzando, la loro era una conversazione accesa, così accesa da dare l'impressione di essere un litigio. Vidi Alexa entrare nello spogliatoio, seguita dal fanatico delle alleanze che già una volta l'aveva fatta infuriare. Ancora non ricordavo il suo nome...

«Donne» sospirò questo esasperato, poco prima di seguirla all'interno.

Quando uscirono la situazione divenne più pesante: da un lato c'era Shawn, che sembrava volersi uccidere di fatica, e Alexa che tra grugniti e versi minacciosi scaricava la rabbia, dall'latro io e il fanatico. Osborne si divertiva ad osservarci dal suo angolo, sgridando Devan Larkin – ecco qual era il suo nome – quando batteva la fiacca per osservare imbambolato Alexa. Forse stava ancora cercando di convincerla a prendere parte al suo assurdo piano. Non mi avrebbe sorpreso scoprire che anche la seconda discussione, quelle avrebbe portato Paterson a usarmi come canale di sfogo, riguardasse quei dannati enigmi.

In realtà era l'unica soluzione logica. Per cosa potevano discutere un gruppo di candidati, se non per la Seconda Prova?

A metà mattinata ci avevano raggiunti altri quattro candidati: Gillees della classifica dei Positivi e tre del Quarto Gruppo. A giudicare dagli sguardi ostili di quest'ultimi, doveva esserci del rancore tra Buck – un ragazzo dalla pelle mulatta e un grosso quantitativo di piercing – e il vecchio Pel di Carota che, tanto per cambiare, non si curava di nessuno.

Quando Alexa e Devan recuperarono le loro ore, rimanemmo in sei. Tra un piegamento ed un altro tentai di ricostruire gli eventi da sola: nel tempo passato a occuparmi dell'enigma doveva esserci stato un battibecco tra Positivi e Quarto Gruppo, forse a causa della folle idea di Devan secondo cui gli ultimi stavano per conquistare i nostri posti. Shawn doveva aver istigato Buck con i suoi soliti modi, e Paterson doveva essersi immischiato con le sue teorie del complotto. Se già una volta quel discorso lo aveva portato a darmi la colpa, una seconda lo aveva di certo convinto. I candidati del Quarto Gruppo di certo avevano sostenuto la sua idea malata. Quando poi, per sbaglio, me lo ero ritrovato davanti in quel corridoio, già più che infuriato aveva deciso di passare all'azione. In sostanza, mi ero trovata nel posto sbagliato, al momento sbagliato, davanti alla persona che più mi detestava in quel momento.
A pensarci bene era davvero patetico.

L'unica cosa che ancora non mi convinceva era il tempismo dei militari. Per quanto avessero discusso, nell'istante in cui le telecamere avevano catturato l'immagine di Paterson che mi minacciava, qualcuno doveva essere stato avvertito. La Base Alpha era piena di soldati, cadetti e militari appostati in ogni angolo, quanto ci voleva per mobilitarli? Dopo averci pensato un giorno intero la questione iniziava ad avere sempre meno senso, finché non mi ero ritrovata troppo stanca per preoccupare ancora. Era successo, ormai non potevo farci nulla. Però potevo ancora migliorare la mia permanenza obbligatoria all'interno dell'Elezione, almeno fino alla mia eliminazione. Vicinissima, se non avessi concluso qualcosa. Senza Paterson le cose sarebbero di certo state più facili, la prospettiva di un po' di giustizia era l'unica parte positiva.

Gillees ci lasciò dopo appena una mezz'ora di allenamenti, poco dopo anche due del Quarto Gruppo, finché non restammo io, Shawn e Buck. Non capivo se Shawn restasse per gli allenamenti, oppure perché il suo "interrogatorio" era durato più degli altri. Quando iniziai a sollevarmi a fatica da terra, Osborne concesse a me e Pel di Carota un breve pausa. Buck mantenne per tutto il tempo l'aria di uno che voleva attaccar briga con Shawn a ogni costo, l'unica cosa che gli impediva di farlo era il nostro l'istruttore. Durante la pausa notai che i suoi allenamenti era differenti dai nostri: una seria più vasta, più veloce, quasi cronometrata. Noi Positivi ci limitavamo a flessioni e addominali, gestite a nostro modo perché ad Osborne bastava che non ci fermassimo. Buck, invece, eseguiva piegamenti sulle gambe, flessioni con un solo arto, e persino esercizi alla spranga. Milioni di volte ci avevano ripetuto che gli allenamenti erano equi per tutti i candidati, ma qualunque cosa l'istruttrice Maguerez facesse fare loro, non aveva minimamente a che fare con ciò che Osborne chiedeva a noi.

Mi alzai per recuperare una bottiglietta d'acqua dal fondo della stanza. Di solito le usavamo a fine allenamenti ma Osborne non replicò. Presa da una vena di buonismo e pena, ne presi una anche per Shawn. Quando mi avvicinai per porgerla non mi scacciò, non aveva abbastanza fiato per farlo.

«I Rappresentanti devono averti trattenuto a lungo» constati senza malizia.

Il mio fu un semplice pensiero ad alta voce, punzecchiarlo in quello stato pietoso non era soddisfacente. Shawn replicò con una specie di cenno, mentre sorseggiava esausto la sua acqua. Decisamente non era in forma.

«È stanco, O'belion?» domandò Osborne.

Shawn si staccò dalla bottiglietta, stizzito. «Affatto, Signore».

«Allora non avrà problemi a continuare fino all'ora di pranzo» sentenziò.

Shawn emise un verso strozzato, a giudicare dall'espressione tirata avrebbe voluto rifiutare. Osborne se ne accorse, decise bene di infierire. «Se l'idea non le aggrada sarebbe dovuto tornare direttamente agli allenamenti dopo il colloquio con i Rappresentanti, invece di gironzolare».

«Non ti sei presentato?» gli chiesi all'istante.

Buck se la rise a distanza, mentre la mia intromissione veniva sgarbatamente ignorata.

«No, Signore. Va benissimo» asserì, poco prima di riprendere il suo allenamento.

Dopo aver visto la mia faccia divorata dalla curiosità, anche Osborne tacque. Quasi di proposito. Per un'effrazione del genere mi sarei aspettata non degli esercizi punitivi, ma l'eliminazione dalla competizione. Capii solo qualche ora dopo che la mia Assistente e il Comandante Benedikt avevano esagerato nell'elencare il regolamento, quel primo giorno.

Quando anche Buck se ne andò e il mio stomaco cominciò a brontolare per l'avvicinarsi dell'ora di pranzo, un ultimo candidato fece capolino nella palestra per recuperare l'allenamento perso. Paterson, nella sua tuta grigia Elezione, si era fermato all'imbocco della palestra. Strabuzzai gli occhi alcune volte, giusto per essere certa di non star solo immaginando la scena. L'aria annoiata e la postura riluttante, nascondevano invece un ghigno soddisfatto che sapevo fosse rivolto a me. Quando Osborne gli ordinò di uscire fuori e correre lungo tutto il perimetro del campo esterno, capii che il mio aggressore era ancora pienamente parte della competizione. Non solo non era stato eliminato, ma se l'era cavata con qualche giro di corsa.

Aspettai che fosse uscito per iniziare a chiedere spiegazioni. «Credevo fosse stato eliminato!» esclamai infuriata.

L'istruttore non disse nulla riguardo al tono, troppo alto e informale. Raccolse le mani dietro alla schiena, tirando ancora più in fuori il petto muscolo. «I Rappresentanti hanno deciso di punirlo declassarlo nel Quarto Gruppo, lasciando che nelle altre classifiche tutte salissero di un grado per colmare lo scambio».

«Non è abbastanza per ciò che ha fatto! Dovevano...» controbattei d'istinto, prima che Osborne mi mettesse a tacere.

«Avranno avuto le loro ragioni» li scusò.

Per me non c'erano abbastanza ragioni al mondo da tollerare ancora la presenza di quel ragazzo, per nulla pentito. Ne era uscito illeso, e d'ora in poi avrebbe continuato a ciondolarmi davanti in quel modo come a volermi provocare. Con tutta la rabbia che avevo in corpo in quel momento, sarei persino stata capace di restituirgli il favore aggredendolo per prima. Volevo correre fuori e buttarlo a terra, fargli provare un po' del dolore che lui aveva causato a me. Anche più di un po'. Un'idea che mi frullò per la testa con tale insistenza da spaventarmi.

Ero davvero in grado di farlo?

Shawn mi osservava con insistenza, come se avesse letto nella mia mente quegli orribili pensieri e d'un tratto temesse di vedermi dare la caccia di Paterson. Ma non serviva leggermi nella mente per capirlo, bastava guardarmi: stavo stringendo i pugni al punto da sbiancarmi le nocche, e chissà quale orribile espressione dovevo avere in volto...

Provai a incanalare la frustrazione negli esercizi, riducendomi in poco tempo a una copia di Shawn all'arrivo in palestra. Qualcosa doveva averlo fatto arrabbiare come me alla vista del mio aggressore in totale libertà. Volevo cedere ad Osborne e pensare che i Rappresentanti avessero le loro ragioni per averlo semplicemente declassato al Quarto Gruppo, ma non era così. Ogni loro decisione, ogni mossa all'interno dell'Elezione, mi portava a perdere sempre più fiducia verso il quel sistema.

• • • • •

La rabbia non svanì con gli allenamenti, né dopo una doccia rifrescate o la vista di un pasto caldo. La pila di libri che Asia mi portò riuscì a mala pena a distrarmi. Peggiorò persino nel momento in cui misi piede nella mensa, vedendo Paterson ridere e scherzare come se nulla fosse con altri concorrenti. Lasciarlo impunito significava dimostrare a tutti che, pur ferendo altri candidati, si poteva solo scendere in classifica e risalire dopo una prova.

Era assurdo. Inconcepibile.

La ragazza che avevo quasi fatto piangere il giorno prima mi seguì lungo tutta la mensa, come un cucciolo che sperava di impietosire il suo padrone. Quando mi accomodai, si sedette a due posti di distanza. Il perché quel giorno avesse reagito in quel modo era un mistero per me e preferivo che restasse tale, almeno finché non la sentii squittire affettuosamente il nome di Shawn. Lo aveva invitato a sedersi accanto a lei e, misteriosamente, lui le aveva dato retta. Potrei giurare di averlo visto accennare un sorriso. Fu come ricevere un doppio schiaffo in faccia: uno per la presenza di Paterson, l'altro per la capacità di Shawn di parlare con chiunque eccetto che con me.

La ciliegina sulla torta fu l'arrivo di William Born, che con veemenza scaraventò il suo vassoio su tavolo e si sedette accanto a me, coprendo la visuale di quei due che civettavano armoniosamente. Misi a fuoco il volto del biondino, così accigliato da sembrare irriconoscibile. Mi guardava con insistenza, le mani incrociate al petto e le spalle che coprivano la testa fulva di Shawn.

«Voglio una spiegazione» asserì. «Adesso»

«Riguardo cosa?»

Sbuffò allibito, blaterando chissà cosa a voce bassissima. «Hai idea dello spavento che mi hai fatto prendere? Quando non ti ho vista quella sera al solito posto ho penato che fossi già alla mensa, ma non arrivavi. Con quella discussione fuori alla porta si è creato il panico, credo ci fossi finita in mezzo. Poi hanno detto che qualcuno era stato aggredito e ho quasi avuto un infarto!»

«Già, ero io. Ormai lo sanno tutti» dissi, tra un boccone ed un altro.

«C-Cosa?» balbettò. «Quando hanno fatto il tuo nome sono corso a vedere come stavi ma non mi hanno fatto avvicinare. Sono rimasto tutto il tempo fuori, nessuno voleva dirmi niente. Il giorno dopo mi dicono che stai riposando e che devo lasciarti in pace, poi ricompari a cena e ti comporti in quel modo. Mi merito una spiegazione!»

Mi scappò una risata amara, era talmente inverosimile come racconto. Doveva essersi impegnato parecchio quel mettere su una storia così commovente. Se veramente fosse stato lì Asia o qualche militare me lo avrebbe detto. «Si, come no. Sei rimasto fuori tutto il tempo... Senti William, non sono davvero dell'umore oggi. Come puoi vedere il mio aggressore è stato risparmiato dalla benevolenza dei Rappresentanti e sono ancora costretta a vedere la sua faccia. Vai a raccontarlo alla ragazza dell'altra sera, sarà felice di piangere anche per questa storia» dissi a voce abbastanza alta da assicurarmi che anche lei lo sentisse.

«Incredibile, non mi credi?» pronunciò scioccato.

Si strofinò nervosamente il viso con i palmi delle mani, continuando a borbottare. Mentre continuava con la sua sceneggiata, io proseguivo il mio pasto riflettendo sul perché fossi circondata da persone così insistenti e false. La risposta era ovvia: stavo partecipando all'Elezione, dopotutto. Se avessi avuto l'occasione di parlare ancora con Tremblay, gliele avrei dette quattro riguardo a quel ridicolo discorso sulle amicizie nella competizione.

William insistette a voler continuare quel ridicolo teatrino. «Puoi smetterla di mangiare e starmi a sentire!» mi gridò d'un tratto.

«Smettila tu di insistere» controbattei. Gli altri candidati iniziarono a tendere le orecchie, curiosi del motivo per la quale stavano litigando. Quando William gesticolò mezzo isterico, vidi la coda dell'occhio di Shawn posarsi su di me e una mano scivolare su quella della ragazza, Quiana, per confortarla.

William si alzò, scansando la sedia rumorosamente. «Vieni con me» disse.

Sapeva che avrei rifiutato così non me ne la sciò il tempo. Afferrandomi per un polso mi trascinò via dalla mensa, zigzagammo lungo i corridoi finché non sbucammo in uno degli hangar. Lì allentò la presa, riducendo le falcate a normali passi.

«Dove stiamo andando?» chiesi. La voce suonò un po' allarmata.

«Dal mio testimone» asserì.

La fermezza nella sua voce era inequivocabile. Mi venne il dubbio che stesse dicendo la verità, non si sarebbe sposto tanto solo una bugia. Fino a poco prima di arrivare a destinazione pensai a tutte le ipotesi possibili, anche quelle meno nobili. Non credevo potesse arrivare al livello di Paterson, ma comunque la vedessi non riuscivo a spiegarmi tutto il suo interesse. Credeva davvero che fossi indispensabile per arrivare in vetta alla classifica?

Arrivati nel settore dei Latori imboccammo una porta proprio accanto alla palestra dove mi allenavo. Il locale, un corridoio che si estendeva lungo tutta la fiancata del campo. L'interno era illuminato dalla luce artificiale della Base, piccole porte affiancate riempivano le pareti da entrambi i lati. Era una versione più stretta e claustrofobica del dormitorio principale.

«Non sarà...» bisbigliai.

«È il dormitorio dei Latori» confermò lui.

Presa dal panico gli mollai un ceffone sul braccio. Il biondino represse un verso, intimandomi a proseguire. Nessuno mi aveva rimproverata apertamente per l'entrare costantemente nella zona dei Latori durante la mattinata, ero certa che avrebbero avuto qualcosa da ridire riguardo all'intrufolarsi nel dormitorio.

Passammo una dozzina di cabine, lo spazio bastava a malapena perché entrambe le porte di due stanze opposte si aprissero contemporaneamente. Ero convinta che il secondo passaggio dalla palestra portasse ad un tunnel, invece collegava il dormitorio alle altre strutture. William si fermò davanti a una delle porte, chiaramente ci era già stato.

Bussò finché un soldato dal viso famigliare non gli aprì. Lo stesso del ragazzo che aveva salvata da Paterson, mi aveva consolata quando i miei nervi avevano ceduto. Aveva la bocca piena di cibo, l'aria trasandata di chi si stava godendo una meritata pausa pranzo, cosa che da un po' non riuscivo più a fare.

«Uh» emise sorpreso, mandando giù il boccone. Si spazzolò le bricio dalla bocca e chiese: «Johns, come si sente adesso?»

«Bene». Dopo averlo visto non ne ero più così sicura; stavo per morire d'imbarazzo. «Avevi detto di essere cadetto in addestramento per la divisione aerea, non un Latore...»

«Non lo sono. Almeno non ancora»

«Vi conoscete?» chiese William. «Se vi conoscete anche meglio! Oscar, puoi gentilmente dire a questa piccola ingrata che la sera in cui è stata aggredita mi sono precipitato nella sua stanza ma tu, e un altro soldato, mi avete impedito di non entrare perché era ancora priva di coscienza» disse a voce forse un po' troppo alta. Oscar provò a fare come da richiesta, ma il biondino lo anticipò. «E già che ci sei dille anche che sono rimasto fuori ad aspettare che si svegliasse non curandomi del coprifuoco o di svenire a causa delle scosse nel mezzo del corridoio. Spiegale come sono caduto come un sacco di patate lesse e come mi hai riportato di peso nella mia stanza. Voglio che sappia anche come il giorno dopo, quando la sua Assistente mi ha cacciato, sono venuto a cercarti per sapere come stava dopo aver importunato non so quanti altri soltati solo per sapere come stesse. E lei cos'ha fatto? Si è comportata da...»

Oscar lo interruppe prima che morisse per mancanza di fiato. «Lo hai già fatto tu, anche esaustivamente».

Il biondino se ne rese conto dopo, mormorando impacciato: «Diglielo lo stesso, altrimenti non mi crede».

«È tutto vero. Dalla prima parola fino all'ultima» confermò lui.

Raggiunsi l'apice dell'imbarazzo possibile con una sola persona in quell'istante, quando mi resi conto di come dovevo apparirgli: una debole ragazzina che non crede ai suoi amici. Già, perché William Born, il testardo biondino petulante, sembrava proprio essere mio amico.

«La mia Assistente non ne ha fatto parola, non ho neanche avuto modo di rivedere i soldati di quella notte quindi come potevo saperlo» dissi in mia difesa.

«Potevi credermi quando te l'ho detto invece di dare per scontato che mentissi. Cosa ti sarà mai successo per essere così dannatamente diffidente, irritabile e...» Ci pensò qualche istante. «Egoista. Ecco, questa è termine perfetto per descriverti!»

«Come sarebbe a dire...»

«Potreste discuterne da un'altra parte? Tra poco inizieremo i nostri allenamenti, voi iniziate poco dopo di noi» s'intromise Oscar.

«Oh, sì. Scusa il disturbo e grazie per...» William provò a cercare un motivo per cui ringraziarlo, ma visto che il poverino non aveva aperto bocca non venne fuori nulla. «Be', grazie».

«Di niente» rispose, trattenendo a stento una risata. Dovevamo sembrargli due idioti. «In realtà mi avete preceduto, sarei passato domani a controllare come stava la candidata Johns. Sarà di turno durate la visita alla struttura».

«Oh, è domani!» esclamò William. Possibile che se ne fosse dimenticato?

«Passate per palestra, non c'è nessuno a quest'ora» ci consigliò, prima di riuscire la porta e smorzare una profonda risata.

Nel tragitto di ritorno rimanemmo per lo più in silenzio. Io troppo imbarazzata per aprir bocca, lui forse ancora troppo arrabbiato. Tutta la voglia di chiarire era svanita, lasciando spazio solo al silenzio. Stando ai fatti William si era preoccupato parecchio per me, il minimo che riuscii a fare fu non ripetere un vecchio errore, scusandomi subito.

«Mi... Mi dispiace» mormorai.

Dirlo, anche se a voce così bassa, mi costò non poco fatica. Il silenzio tombale gli permise di capirlo anche troppo perfettamente, senza però gongolare come suo solito. Si limitò a compiacersi in silenzio mentre tornavamo alla mensa. Era inutile farlo, una volta arrivati avremmo avuto poco tempo per riposarci, così ce la prendemmo con comodo. Piccoli passi e anche l'imbarazzo venne messo da parte.

«Stai davvero bene?» mi chiese infine.

«Sono stata meglio» confessai. «Vederlo impunito non aiuta».

«Lo hanno declassato, giusto? Vedrai che non supererà la prova.»

Se ce l'avesse fatta lui, speravo di non farcela io. La possibilità non era così remota, visto quanto fossi vicina alla soluzione dell'enigma.

«Sembravi conoscerlo bene» domandò lui, ancora a disagio. «Oscar, intendo».

«Mi ha salvata lui. È stato anche molto gentile, quel giorno».

«Lo sarei stato anche io, se solo mi avessero fatto entrare. E se tu non avessi reagito così acidamente l'altra volta. Sono molto bravo a consolare le fanciulle».

Gli credetti senza troppi sforzi, era la parte di lui che più di tutte mi era parsa chiara. L'altra, quello che lo spingesse a essere sempre così gentile, fino a preoccuparsi, quella era ancora sconosciuta. «Scusa» ripetei.

«Se continui a scusarti ci cadrà il cielo addosso» scherzò.

«Hai ragione. Anche tu eri molto in confidenza».

«Ha solo due anni più di me, è normale. Inoltre, mi ha portato in spalla fino alla mia stanza, direi che basta per essere in confidenza».

«Vorresti farmi credere che lui, da solo, ti ha portato fino alla tua stanza? È molto più basso di te e meno muscoloso».

Si trattenne dal covare un intero discorso su quel "muscoloso". «Lo so, il mio orgoglio maschile ne è rimasto profondamente ferito. Quando sono andato a cercarlo per chiedere di te ho incontrato anche un altro cadetto che era di turno quella notte, se non me lo avesse confermato non ci avrei creduto».

Da lì sembrava che tutto fosse tornato alla normalità tra me e William, e non solo. Quella fetta di quasi normalità che per un po' avevo vissuto nell'Elezione, prima che il binario della mia vita venisse completamente dirottato. Volevo veramente che le cose proseguissero bene, ma sapevo che sarebbe stato così. Quella voce nella testa aveva spaventosamente.

Superare le prove poteva davvero essere devastante per me.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top