Aprii gli occhi grazie al delicato tocco di una mano. Una carezza così leggera e timorosa. Scostai le coperte e uscii dal caldo bozzolo protettivo nella quale mi ero rintanata, girandomi su di un fianco per poter capire chi fosse. Avevo la gola secca, i muscoli ancora più indolenziti della notte precedente. Gli occhi gonfi misero penosamente a fuoco le linee tese del volto della mia Assistente: fronte corrucciata, gli angoli della bocca rivolti verso il basso, sguardo mortificato.
«Asia» dissi sollevata.
Sbadigliai, tentando di mostrarmi il più normale possibile. Stavo malissimo dopo aver passato la notte a combattere incubi tremendi e, per quanto mi sforzassi di nasconderlo, a giudicare dall'espressione sempre più scoraggiante di Asia, il mio aspetto parlava da sé. Sentivo che qualcosa in me era cambiato, potevo vedere i frammenti sparpagliati di un pezzo importante del mio essere, ma non sapevo quale fosse. Sapevo che, dal quel momento in poi, anche se avessi cercato di ricongiungerli, l'insieme non avrebbe più lavorato come una volta. Per questo mi ripromisi di uscirne il più in fretta possibile. Non dovevo lasciarmi sopraffare dall'accaduto.
«Ehvena...» pronunciò, la voce spezzata dallo sconforto. «Mi dispiace così tanto».
La notte prima, ricevere la compassione del soldato mi era parso quasi necessario; avevo bisogno di essere accudita e capita. Quello stato d'animo, però, era scomparso e sentirla parlare in quel modo era per me solo umiliante. Volevo una sola cosa in quel momento: poter dimenticare, quanto prima.
«Sto bene» mi affrettai a rispondere. Benché ci credessi fermamente e sapessi che presto sarebbe stato vero, quell'affermazione risultò solo un cliché mal piazzato, una bugia a cui nemmeno un bambino avrebbe creduto. «Starò bene» mi corressi.
Mi accarezzò dolcemente i capelli; il gesto traboccante di amabilità materna e sincerità. «Ne sono certa» disse.
Quel gesto era tutto ciò che mi serviva dopo essere stata soccorsa. Anche se in ritardo, mi crogiolai in quella sensazione confortante.
In quell'istante capii veramente quale fosse il ruolo di un Assistente: un appoggio per i candidati, un sostegno morale per le nostre fragili menti. Non eravamo altro che dei ragazzini ingenui, obbligati a crescere in nome di Phērœs.
«Il soldato ha detto che non dovresti avere più di qualche livido» proseguì, ritrovando la sua aria professionale da Assistente. Nel sentirlo nominare non potei che provare imbarazzo per lo stato in cui mi trovavo la sera precedente. «Ieri eri troppo scosse e stanca, ma oggi come prima cosa verrà il medico per gli accertamenti. Dopo penseremo a un buon pasto, devi essere affamata dato che ieri non hai cenato».
Misi una mano sullo stomaco, talmente vuoto da provocarmi la nausea. Non avevo mai avuto così fame da stare male, la sensazione non mi piaceva affatto.
«Che ore sono?» domandai.
«Le due passate» rispose, trafficando con il suo palmare. «Pare che tu ne abbia approfittato per recuperare le ore di sonno perse in queste ultime settimane. Svegliarsi all'alba è davvero una brutta abitudine, dovresti riposarti finché puoi».
«Sissignora» scherzai.
In verità non potevo evitarlo. Era un'abitudine che risaliva a quando avevo scoperto la mia passione per la cucina – alla tenera età di cinque anni – e non l'avrei mai cambiata. Inizialmente mi svegliavo quando mio padre andava a lavoro, alla fabbrica, così da poter creare splendidi piatti immaginari nella mia cameretta; poi, una volta presa la mano, iniziai a impiegare il mio tempo guardando le figure sulle riviste di cucina di mia madre. Da quelle splendide immagini colorate, passai alla lettura, così intensa e attenta da riuscire a memorizzarne le ricette. Senza nemmeno accorgermene ero finita tra le grinfie di pentole e fornelli, non riuscivo più a controllare la voglia di voler imparare, realizzare tutte le ricette che vedevo. Così decisi che ogni raggio di sole era indispensabile, e che svegliandomi all'alba avrei avuto più tempo a disposizione.
«Come lo sai, che mi sveglio all'alba?» chiesi. Un attimo dopo mi pentii di aver fatto una domanda tanto stupida. Per quanto poco Asia venisse a trovarmi, normalmente lo faceva in tarda mattinata, prolungandosi anche dopo i pasti, oppure la sera dopo gli allenamenti. Restava sempre la mia Assistente: informatissima su ogni mio spostamento. Inoltre, nella base anche i muri avevano gli occhi. Discreti e silenziosi, che monitoravano ogni angolo della struttura indipendentemente dalle Elezioni.
Ci guardano in ogni momento, pensai improvvisamente. La fame mi provocò un'insopportabile conato mentre realizzavo l'intreccio di telecamere che dovevano essere collegate al Centro di Comando. Perché doveva esserci delle telecamere da qualche parte.
Asia me ne diede la conferma qualche istante dopo.
«Sono la tua Assistente» disse come se bastasse quello a rendere ragionevole ogni cosa. Aveva sempre usato quella parola con orgoglio, pur essendo stata assegnata a me, che di doveri verso l'Elezione non ne avevo ancora assolto uno. «Anche se non sono sempre presente a causa delle burocrazie interne, i responsabili della Base sono tenuti ad aggiornami su tutti i tuoi spostamenti giornalmente. Come per l'evento di ieri. Solo così possiamo garantire la nostra efficienza e tempestività, nei limiti impostoci».
Fece una smorfia risentita, come ricordandosi di un torto. Nessuno avrebbe fatto i salti di gioia parlando dell'organizzazione assunta in durata elettiva, ma dopo noi candidati, gli Assistenti occupavano il secondo posto per i più angariati.
«Quando mi hanno detto cos'era successo ho cercato di fare i salti mortali per venire alla Base, ma l'unica risposta che ho ottenuto è stata un "attenda il primo scriblet di domani, ora i turni sono terminati"» spiegò stizzita. Era la prima volta che la sentivo parlare così, senza vincoli. «L'Elezione sarà anche un efficiente metodo di ricerca dei Rappresentanti, ma in ventisette Ere non hanno pensato a un modo per tenere gli Assistenti vicino ai loro protetti. Né di tenere i malintenzionati lontani da chi non aveva ragione di essere aggredito».
Esalò un profondo respiro. Tra le due sarei dovuta essere io quella infuriata che criticava i loro inflessibili metodi. Invece fu lei a farlo per me, quasi fosse un suo dovere. Lasciai che continuasse a sfogarsi al mio posto, preoccupandomi di un solo raccapricciante pensiero: se ci monitoravano, allora qualcuno doveva aver visto Paterson avvicinarsi a me. Quindi perché avevo dovuto patire tutti i suoi insulti e procurarmi dei lividi prima di essere soccorsa?
«Voglio parlare con i Rappresentanti» dissi d'improvviso, interrompendo il suo brontolio. «Devo parlare con loro, come faccio a contattarli?»
«Sono già qui, ti stanno aspettando per una testimonianza. Bisogna decidere che punizione infliggere a quel ragazzo, quindi hanno chiesto di poterti parlare non appena ti fossi ripresa».
«Ho bisogno di parlargli subito» insistetti, alzandomi incautamente dal letto.
Delle macchie scure mi annebbiarono subito la vista, mentre la gravità tentava di comprimermi a terra. Barcollai fino alla parete attigua, agguantandola. Non riuscivo a reggermi in piedi, le ginocchia troppo molli e la mani prive di forza, quindi scivolai lungo di essa fino a ritrovarmi sul pavimento; lo stomaco che altalenava e la stanza vorticante. Era come essere finita su uno Scriblet che virava spericolato nel cielo. Peccato non mi fossi mai mossa dalla stanza.
Asia mi guizzò accanto. Stava dicendo qualcosa, sembrava allarmata. La giacca beige del suo completo assunse una tonalità sempre più scura, finché non vidi più niente.
• • • • •
Il dottore che venne a visitarmi — un uomo paffuto dai lunghi e fulvi baffi arricciati, il viso tondeggiante e un ciuffo rossiccio colpito da un live calvizie — mi lasciò in prescrizione altro riposo e una tavola imbandita di leccornie per una guarigione completa. Il suo atteggiamento, come l'aspetto stravagante, erano totalmente fuori luogo. Nel vedere ogni giorno solo rigidi soldati e gli stessi scontrosi volti, avevo finito col dimenticare che chi non faceva parte della competizione poteva permettersi il lusso della dell'allegria.
Non era poi molto il tempo che avevo passato nella Base Alpha, alle prese con la tanto attesa Elezione, soprattutto se comparato a quello vi dovevo ancora spendere. Eppure era bastato per rendere fioco il ricordo di una vita ordinaria, dove l'idea di essere aggredita era ridicola, tanto quanto la possibilità di ritrovarmi davanti Shawn O'belion e vivere di grida che non fossero del mio insegnante.
«Applichi questa crema per un paio di giorni e sia i lividi che il dolore scompariranno entro la Seconda Prova» spiegò briosamente con le sua labbra corpulente.
Avevo qualche livido di poco conto lungo le spalle, uno grosso e violaceo nel mezzo della schiena. Doveva essere il punto in cui avevo sbattuto allo stipite e in seguito alla serratura di un dormitorio. Tra tutti, era solo quello che faceva male.
«Quindi sta bene?» chiese Asia.
Il suo atteggiamento composto non era mai scomparso da quando il dottore aveva messo piede nella stanza, come l'anomalo movimento che si era impadronito della suo piede sinistro. L'avevo fatta spaventare ancora di più svenendo a pochi passi dal letto. Presa dalla smania di risposte, mi ero buttata alla ricerca dei Rappresentanti senza essere in grado di varcare nemmeno la soglia.
Un punto da aggiungere alla lista di cose imbarazzanti che ero riuscita a combinare da quando l'Elezione aveva avuto inizio.
«Lo svenimento era dovuto alla mancanza di cibo, combinato al forte stress per ciò che è accaduto. Non deve essere stato semplice per una giovane ragazza come lei, finire in una situazione del genere, vero?»
Uno strano sorriso inarcò i baffi riccioluti del medico. A costo di sembrare irragionevolmente sospettosa, avevo l'impressione che fosse rallegrato per l'accaduto. Era inquietante.
Forse stavo solo diventando paranoica a causa di Paterson.
«Si» risposi, perplessa.
L'uomo si accarezzò un lembo dei baffi, infilando la mano libera nella tasca del camice bianco. Tutti i medici che avevo incontrato fino a quel momento portavano il tesserino riconoscitivo affisso sulla veste da lavoro, ma lui ne era sprovvisto. Si avviò sgambettando verso l'uscita, la pancia ingombrante che ondeggiava ai suoi ritmi.
Per essere un membro dello staff approvato per l'Elezione, aveva qualcosa di sospetto.
• • • • •
La mia Assistente si mostrò restia all'idea di separarsi da me, quando un Latore mi prese in custodia per accompagnarmi dai Rappresentanti. Io stessa non volli separarmi da lei, anche se fu inevitabile.
Dopo aver mangiato e applicato meticolosamente la crema, ero rinvigorita abbastanza da poter intrattenere una conversazione con i Capi della Nazione. Al contrario, non mi sentivo pronta a rivangare i particolari della mia aggressione, unico motivo per la quale stava avvenendo l'incontro. Il fatto che la Rappresentante Engineer sarebbe stata al fianco di Tremblay, rendeva la situazione ancora più scomoda.
Il Latore mi fece strada lungo una linea di canali connettivi mai vacata. Ci trovavamo nel Terzo Settore, in una sala a cupola che conduceva alla palestra del Quarto Gruppo o al Centro di Comando. Noi non eravamo diretti in nessuno dei due luoghi, ma all'ascensore che ci avrebbe portati al primo piano sotterraneo, dunque all'ufficio in cui mi attendevano i Rappresentanti. Perché, in effetti, il primo piano sotterraneo era dedicato agli uffici e alle barbose attività da scrivania.
Era difficile immaginarlo come la sede della Seconda Prova.
Dal tunnel che conduceva alla palestra potevo udire i fischi e le grida sfiatate dell'allenatrice Maguerez. Un po' per via dell'orario, un po' per merito della richiesta fatta da Asia — combinato all'accertamento del medico —, ero riuscita ad aver un altro permesso speciale: oltre all'onore di essere esentata dalle scosse, potevo saltare, per quell'unico giorno, gli allenamenti.
Questo permesso avrebbe sicuramente implicato problemi futuri. Non mi sembravano il genere di persone capaci di rilasciare concessioni di quel genere a chicchessia.
Il Latore fece una piccola pressione in un punto preciso della parete spoglia, lasciando che questa si dividesse e mostrasse la claustrofobica carrucola in metallo. Era stata completamente mimetizzata. Il Latore non fece altro che procedere a lunghe falcate verso la destinazione, la testa alta e l'arma nella custodia attaccata al cinturino.
In un certo senso, sapere che era armato, mi faceva stare più tranquilla.
Il piano sotterraneo ero silenzioso quanto il mio accompagnatore. Lo stridio dell'ascensore in movimento era un frastuono ridondante, perso nel vuoto degli stretti corridoi a dedalo. L'illuminazione gelida rendeva i locali, colate in ferro assemblate con viti e bulloni, ancora più rigidi e lugubri. I suoni dei nostri passi echeggiavano tra le porte sprangate degli uffici: un cartello sulla parete di sinistra indicava l'inizio della Divisione Aerea, seguita da piccole porte rivestite con uno strano vetro, opaco e distorto.
Manutenzione aereo-velivoli, ufficio assegnazioni, rilascio permesso di volo... Un susseguirsi di stanze che nascondevano forse interi gruppi di persone segregati alle loro scrivanie.
Ne passammo un'infinità, prima di svoltare verso un corridoio più anonimo. Era una copia di ciò che avevo visto, a cui però erano state scardinate tutte le insegne descrittive e sostituite da numeri in serie. Giusto un paio di falcate dopo, il Latore si piantò davanti a una delle porte, bussò e mi fece ancora strada.
La stanza era una specie di bugigattolo avvolto dalla penombra, scosso dallo sfarfallio di una luce artificiale che pendeva dal soffitto. L'interno era stato arredato con un piccolo tavolo e tre sole sedie, due delle quali erano occupate dai Rappresentanti. A un primo sguardo, nessuno avrebbe potuto riconoscerli: sedevano irrigiditi sulle sedie scarne, i volto adombrati da chissà quali preoccupazioni. Se non fosse stato per la chioma della donna e la barba ispida di Tremblay, li avrei scambiati per comuni soldati.
Gli occhi vispi della Rappresentante mi saltarono addosso quando il Latore mi annunciò. Tremblay aveva perso quella sua aria allegra, lasciando che il dispiacere per qualcosa fosse palese.
«Si sieda» mi intimò la donna.
La voce perentoria, quasi seccata dalla mia presenza. Già dal primo incontro avevo avuto l'impressione che parlarle non sarebbe stato confortevole, ma mai avrei pensato di doverlo fare in una stanza del genere e con un spirito simile. Sembrava di essere tornati al periodo post-disastro, e dire che ero io la vitta di aggressione.
«Candidata Ehvena Johns, settima nella classifica dei Positivi, vittima di aggressione deliberata da parte del candidato Jeamur Paterson» riassunse lei brevemente.
Avrebbe parlato solo lei, ne ero certa.
«Si» risposi.
«Come prima cosa...» iniziò la Rappresentante.
Tremblay la interruppe, con mia sorpresa e sua grande irritazione, proseguendo al suo posto.
«... vorremmo scusarci per l'accaduto».
La Rappresentante Engineer gli scagliò un eloquente frecciatina: "non parlare per me", questo sembrava rimproverargli. La mia antipatia verso quella donna cresceva di minuto in minuto.
«In qualche modo siamo venuti meno alla nostra iniziale promessa, e questo ci rammarica» proseguì, l'espressione angosciata che si traduceva in piccole rughe intorno agli angoli della bocca. Forse Tremblay doveva sentirsi responsabile per quanto era successo, visto che i problemi con Paterson erano iniziati da quando i candidati avevano scoperto quell'incontro casuale. In effetti poteva dirsi colpa sua.
Mi morsi la lingua. Non lo avevo detto ad alta voce, ma il solo pensiero di accusare il Rappresentante mi faceva sentire come una sovvertitrice. Bastava ragionare un po' per capire che non era allora che i problemi di Paterson erano iniziati. Quella sera, mentre la sua rabbia verso di me esplodeva, aveva detto delle cose che risalivano a prima dell'Elezione. Eravamo compagni di corso, ma di lui non mi importava abbastanza da riuscire a ricordarne il nome; lo avevo sempre chiamato Paterson. Eppure lui mi aveva osservata attentamente, al punto da sentirsi minacciato e preso in giro.
Tremblay continuò a scusarsi per entrambi, mentre la Rappresentante ascoltava con sufficienza. Quando ebbe terminato, Engineer riacquistò la parola e riprese a indagare.
«Ciò che stavo per dire, era che per prima cosa vorremmo confrontare le versioni dei fatti che ci sono state proposte, vedere se questa situazione ha qualcosa a che vedere con l'altro spiacevole evento».
Aggrottai la fronte, confusa. Dovevano aver già parlato con Paterson, e di certo conoscevano anche i resoconti dei soldati intervenuti, ma non avevo idea di cosa fosse successo quella sera oltre all'aggressione.
«Quale altro evento?»
«Non lo sa davvero?» pronunciò, quasi a volermi accusare di star fingendo.
Scossi i capo, e per mia fortuna ci pensò Tremblay a spiegare. Quella donna incuteva timore ed era incredibilmente brava a mettere le persone a disagio, ma tutto ciò stava passando in secondo piano rispetto all'irritazione che sentivo crescere. Era la Rappresentante, quindi non potevo lasciare che la mia trasparenza, in fatto di emozioni, mi mettesse nei guai.
Ma forse era troppo tardi.
«Prima che il fatto si verificasse, c'è stato un gran trambusto dalle parti dell'hangar Lotus. A quanto abbiamo stabilito, il suo aggressore doveva essere di ritorno da lì quando si è imbattuta in lei. Questo potrebbe essere stato un altro elemento scatenante».
Mi lasciai scivolare sullo schienale della sedia, sempre più confusa. Dopo la discussione nello spogliatoio ce n'era stata un'altra... Da come mi stava esponendo la situazione, essersi irritato a causa di un disguido con altri concorrenti era una scusante sufficiente per le azioni che aveva commesso contro di me.
«Pare che lei e il candidato Paterson abbiate discusso anche nello spogliatoio, dopo gli allenamenti» infierì Engineer.
Questa insinuazione non riuscii a fargliela passare. «Io non ho discusso. Gli altri candidati avevano iniziato un discorso sulla Seconda Prova che lo aveva irritato al punto da scagliarsi contro di me senza che aprissi bocca. Dopo se né andato e io sono tornata nella mia stanza» spiegai, una punta di rabbia che balzava nella voce.
«E come mai è tornata nella sua stanza dopo l'allenamento, invece di dirigersi alla mensa come tutti?» continuò imperterrita. «È sicura di non aver fatto nulla per istigarlo? Così facendo saremmo stati costretti a eliminarlo per pessima condotta e ci sarebbe stato un candidato in meno a cui dover pensare. Avrebbe avuto un possibilità in più di tenere il suo settimo posto».
«Dena...» sospirò esausto Tremblay, senza però smentire le sue calunnie.
La fissai esterrefatta. La Rappresentante Dena Engineer, il capo dello Stato di Phērœs, mi stava seriamente accusando di aver pianificato un'aggressione? Per cosa, l'Elezione? Nemmeno se fossi stata certa di poterne eliminare cento in una volta mi sarei fatta picchiare da qualcuno. Io, che non avevo ancora pensato a una soluzione per la Seconda Prova.
«Dovevo controllare una cosa» dissi. Lei alzò un sopracciglio, quasi a sfidarmi. «Ero tornata indietro a controllare l'enigma per la Seconda Prova. Dopo la discussione nello spogliatoio mi era sorto un dubbio e ho semplicemente deciso di passare a controllare prima di andare alla mensa. Non sapevo niente della seconda discussione, non avrei mai immaginato che Paterson potesse aggredirmi in quel modo».
Stavo ansimando dalla rabbia. Avevo voglia di gridarle in faccia e sbattere i pugni sul tavolo finché non si fosse rimangiata tutto. Ma per amore del mio orgoglio e della mia vita, mi limitai a osservarla. Lo sguardo teso che sosteneva il suo, un tentativo più pacifico di convincerla dell'assurdità della sue affermazioni.
«Le sue parole coincidono con quanto riportato dai tecnici» intervenne Tremblay. «Questa conversazione aveva il solo scopo di confermare i fatti. Sulla base di quanto accaduto, decideremo la sorte del candidato all'interno della competizione. Ora la prego, torni a riposarsi. Deve essere stata dura per lei».
Si alzò dalla sua postazione e con un gesto mi intimò ad alzarmi. Mi stava chiaramente cacciando.
«Certo, deve essere stata dura per lei» ripeté Engineer. Il sarcasmo traboccante da ogni lettera. «Può tornare nella sua stanza, a riposarsi, a patto che recuperi gli allenamenti saltati. Dato che ha molto tempo da perdere la mattina, si presenterà nella sua palestra per gli esercizi aggiuntivi con l'allenatore».
Me l'aspettavo una richiesta simile, così annuii rassegnata.
«Nell'Elezione vige l'imparzialità, e l'obbligo di rendere concreti i propri diritti. Partecipare è un dovere» aggiunse la Rappresentante, puntellando il tavolinetto con l'indice accusatorio.
Non avevo idea del perché avesse tirato in ballo quelle perle sull'Elezione, al contrario ero certa di essermi presentata a quella testimonianza per niente. Avevano già le prove di come realmente si erano svolti i fatti, sapevano che ero la vittima, eppure mi avevano fatta chiamare appositamente per accusarmi.
Tutta quella storia, il modo dei Rappresentati di farsi carico dei loro doveri, era... Sbagliato.
• • • • •
Dopo essere tornata nella mia stanza, trovai Asia in pensiero ad aspettarmi. Io ero troppo arrabbiata per spiegarle cos'era successo durante l'incontro, così decisi di impegnarla con l'unica cosa che l'avrebbe allontanata dalla questione, lasciandomi il tempo necessario per riflettere: la Seconda Prova.
«Mi servono delle cose per la prova» dissi, cogliendo il guizzo di speranza nei suoi occhi.
«Davvero?» esclamò, dimenticando all'istante i Rappresentanti. «In realtà stavo aspettando questo momento da un bel po'. Iniziavo a preoccuparmi non vedendoti lavorare».
«Avevo bisogno di... ragionarci a fondo» dissi, mascherando il totale disinteresse dietro una facciata di lunga ponderazione.
«Ora l'importante è farlo bene. Cosa può esserti utile?»
«Libri. Molti libri sulle erbe anestetiche che crescono sull'isola».
Annuì, iniziando la ricerca seduta stante. Con il suo palmare non fu difficile avere risposte in qualche click. Lo avrei fatto da sola, se non mi avessero requisito tutto alla partenza. Ero fuori dal mondo, il mio unico contatto con la tecnologia era Asia.
Sapevo che, anche se non lo dava a vedere, trovava strano una richiesta come quella. Chiunque sano di mente l'avrebbe trovato insensato.
Dopo aver confrontato circa una decina di siti differenti, tutti protetti dal calane riservato all'Elezione, vennero fuori circa venti volumi differenti. Chiesi di restringere il campo, preoccupandosi solo dei volumi in cui si parlava di erbe con specifici sintomi. Le elencai quelli dell'enigma, arrivando a un numero di circa sei volumi da setacciare. Me li feci andare bene, dandole il via libera per l'ordinazione.
Contando gli allenamenti, avevo troppo poco tempo per una ricerca accurata. Non avevo diritto di prendermela con nessuno per questo: la colpa era solo mia. Mi sarei accontentata di qualcosa che potesse andare bene. Non avevo intenzione di tenermi il posto in classifica, volevo solo evitare che quella donna mi guardasse nuovamente con sufficienza.
Tempo da perdere, con quella frase mi aveva fatto capire quanto il mio modo di fare non le andasse a genio. Il mio, infatti, non ero lo spirito adeguato all'Elezione, e non avrei mai potuto controbattere restando nel torto. Per questo dovevo impegnarmi quanto bastava per potermi difendere, la prossima volta.
«Ho comunicato ai fornitori dell'Elezione l'urgenza, entro domani pomeriggio dovrei essere in grado di portarteli. Forse riesco a recuperarne qualcuno anche oggi, se torno ora» chiarì, recuperando il soprabito abbandonato in su un angolo del letto.
Era una donna d'invidiabile pazienza. Mi ero ridotta all'ultimo minuto, addossandole improvvisamente il problema, e non aveva detto una parola.
«Se ti serve altro fammelo sapere tramite i militari. Domani avrai tutto il materiale». Sfoggiò un sorriso fiducioso, che poco a poco si spense. «Promettimi che fare attenzione» aggiunse mesta.
Annuii, senza però prometterle nulla. Non sapevo se, varcata di nuovo la soglia, non sarei stata attaccata di nuovo. E non intendo solo fisicamente. Come avevo scoperto in quei due soli giorni, le parole erano così potenti da poter ribaltare intere situazioni, creare o dissipare dubbi, portare qualcuno a riversare la sua rabbia verso una persona innocente.
Dopo qualcosa del genere le cose tra i candidati potevamo migliorare o solo peggiorare. Stando lì, mi sarei sempre trovata nel mezzo dell'uragano. D'altra parte non potevo rintanarmi per sempre in quella stanza, ricevere permessi e rimandare il giorno in cui sarei stata di nuovo sotto tutti i loro guardi.
Bastava presentarmi a cena per quello.
• • • • •
Tra le cose non potevo assolutamente evitare, c'erano i pasti. Il solo dirigermi verso la mensa, quella sera, fu la prova della mia buona volontà. A dirla tutta, fu la fame a guidarmi verso quel covo di serpi sibilanti; io ne avrei fatto volentieri a meno. Vederli non era tra le mie priorità, parlare non lo era mai stato.
Varcata la soglia fu come essere tornati al periodo dei pettegolezzi: occhietti che mi scrutavano dalla testa ai piedi, forse convinti di trovare i segni della colluttazione. Se quelle occhiate fossero state di rabbia lo avrei sopportato, ci ero abituata oramai. Invece mi guardavano come un cucciolo indifeso e questo mi faceva seriamente infuriare. C'erano per lo più soldati in fila alla mensa, ed era loro.
La prima cosa che notai fu l'assenza di William, poi anche quella di Shawn. Parte dei posti a sedere erano ancora vuoti, non solo gli Effettivi e il Quarto Gruppo, ma anche molti dei Positivi, come dei Qualificati.
Paterson non c'era. Non che mi aspettassi di rivederlo più in giro.
Colsi l'assenza dei candidati per rimpinzarmi. Con un po' di fortuna avrei finito prima del loro arrivo.
Riempii il vassoio con tutto ciò che sembrava allettante e, senza troppi convenevoli, iniziai a gustarmi il pasto. Anche solo assaporare il cibo mi aiutava a calmarmi, i problemi e le persone intorno a me si rimpicciolivano fino a diventare insignificanti. Se fossi riuscita ad avvicinarmi a una cucina, avrei dimenticato persino i Rappresentanti. Forse l'intera Elezione.
La felicità, per quanto frivola potesse essere se scaturita da un vassoio di alimenti poco creativi, era davvero qualcosa di cui si riusciva appena ad assaporare in quel posto. Poco meno di un battito di ciglia e una ragazza si sedette al mio fianco, disturbandomi. Il volto minuto e curato, gli occhietti innocenti color caramello, non mi dicevano nulla. Lei invece, pareva addirittura conoscermi.
«Ehvena, finalmente!» esclamò. «Nessuno ti ha vista a cena ieri, poi abbiamo saputo cos'era successo e ci siamo tutti preoccupati. Stai bene, vero?»
Non sapevo cosa intendesse con tutti, visto che la maggior parte aveva sicuramente gioito delle mie disgrazie. Non risposi alla domanda, il solo fatto che fossi lì chiariva il mio stato di salute. Passai qualche minuto a osservarla con ostinata e palese irritazione, sperando che si allontanasse il più in fretta possibile.
A causa del mio silenzio scoppiò in una risata imbarazzata, di quelle dolci e frivole che solo le ragazzine sapevano fare. Doveva avere al massimo un anno in meno di me per poter partecipare all'Elezione, anche se a vederla gliene davo anche meno.
«William arriverà tra poco, la sua assistente l'ha rapito dopo gli allenamenti. Staranno organizzando qualcosa per la prova, come tutti» spiegò, lanciando occhiate ai fugaci ai posti vuoti.
Stavo ancora cercando il comprendere il motivo che poteva averla spinta a rivolgermi la parola, mentre si ostinava a darmi informazioni su ciò che William aveva fatto durante gli allenamenti, nominando concorrenti a me sconosciuti. Chiaramente doveva essere nel gruppo degli Effettivi.
Quando finalmente si accorse di aver blaterato troppo, tornò alla risatina nervosa. «Comunque...» proseguì. Posai definitivamente le posate, forse dandole corda sarebbe sparita. «Io sono Quiana. Quiana Meir». Lo pronunciò come so dovessi conoscerlo.
Annuii, brandendo nuovamente le posate. Il cibo si stava raffreddando e i candidati iniziavano a riempire i posti vuoi. Pochi, ma per me anche una sola persona era di troppo.
«William sta arrivando» annunciò ancora.
«Ho capito» ribattei, il boccone riminato in bocca.
Non avevo pensato a lui nemmeno un istante da quando mi avevano soccorso, e lui doveva aver fatto altrettanto visto che non avevo ricevuto sue notizie. Diciamo che in parte davo la colpa anche a lui: se ci fossimo visti come sempre, niente sarebbe successo. Se i candidati non avessero infierito su Paterson, già di pessimo umore, me la sarei cavata con qualche insulto. Se i soldati fossero accorsi nel momento in cui mi era comparso davanti, non avrei avuto quel grosso livido sulla schiena.
C'erano tante, troppe persone a cui dare la colpa per quanto era successo. Vedere qualcuno come Quiana avvicinarsi per raschiare dettagli sulla mia disavventura, era una di quelle bassezze che poco tolleravo.
«Con lui verrà anche Maximilian. Scommetto che lo conosci, ha un cespuglio di riccioli bruni scompigliati, se ne sta sempre da solo come te e...»
«Senti» mi intromisi bruscamente nel suo monologo privo di senso. «Non ti conosco, non so chi sia questo Maximilian e non mi importa se William sta venendo oppure no. Voglio sono mangiare e tornare nella mia stanza il prima possibile».
«Ho capito... non mi conosci» sussurrò, l'espressione ferita. Sembra sul punto di scoppiare in lacrime.
Spero non lo faccia, pensai avvilita. Mi mancava solo un'accusa per aver fatto piangere un concorrente e dopo sarei tornata soddisfatta alla mia vita. La Rappresentante avrebbe gioito.
«Ehvena!» gridò qualcuno.
Sobbalzai, il cuore che martellava immaginando Engineer cogliermi sul fatto. Invece era solo William, seguito dal singolare personaggio decritto dalla ragazzina. Passai lo sguardo da quei due a lei: era ancora in piena crisi e io non ne capivo il motivo.
Mi strofinai la fronte. Improvvisamente avevo perso tutte le energie, il male alla schiena stava riaffiorando come tante puntine aguzze che mi picchiettavano alle spalle.
«Sei viva!» esclamò il biondino quando mi fu accanto.
A quelle parole non resistetti, tutta la frustrazione di quella giornata si concentrò in una fila di veleno con cui cosparsi i presenti.
«Sfortunatamente» esalai con un gran respiro.
Mi alzai da tavola, scansando rumorosamente la sedia. William disse qualcos'altro che a mala pena scalfì il mio udito. Presi tutta quella stanchezza, irritazione e malumore con me, ritirandomi nella mia stanza come un topo nella sua tana. Il cibo sul vassoio quasi integro, lo stomaco che ne reclamava disperato il contenuto.
Uscii con leggerezza dalla mensa, la stessa con la quale ci ero arrivata, ma che non mi graziò anche al ritorno. Quando mi ritrovai di nuovo sola nel mezzo dei corridoi, mi sentii mozzare il fiato. I ricordi distorti dagl'incubi che scendevano dalle pareti anguste. La mia stessa ombra mi turbava, come se da un momento all'latro potesse trasformarsi in un mostro polimorfo dai tentacoli spinosi e colpirmi alle spalle.
Raggiunsi la mia stanza correndo e guardandomi alle spalle. Mi chiusi all'interno sbattendo la porta e ansimando: ore ero io sul punto di piangere.
Mi accovacciai sul letto, le gambe strette in grembo mentre sfogavo i miei ultimi dolori.
Ti sei rintanata nei tuoi petali.
L'immagine apparsa come un riflesso.
Verrai asfissiata dalle loro spine.
Il terrore alimentato da quelle parole.
Almeno, pensai, nessuno mi ha vista crollare.
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