Capitolo X (R)
Divenne sempre più difficile sopravvivere agli allenamenti. Osborne ci spremeva fino all'osso, ripetendoci che la Seconda Prova era ormai a pochi giorni di distanza.
Correvamo fino a non avere più fiato e fortificavamo i muscoli al punto da non sentirli più. E in tutto questo, io non vedevo un nesso con l'enigma, che tra l'altro non avevo ancora risolto. Asia non poteva aiutarmi, se non fornendomi materiali e dandomi consigli dopo essere già arrivata alla soluzione. Avere un'Assistente nell'Elezione era più inutile di provare a tapparti le orecchie durante un allenamento: anche così, le grida dell'istruttore riuscivano a raggiungerti.
Il mio insegnante di cucina lo avrebbe adorato. Il giusto contesto: stimolante e produttivo.
Dubitavo fortemente che tutti gli Assistenti fossero persone dai sani principi e che non avrebbero aiutato il loro concorrente con ogni mezzo possibile, ma Asia non era disposta a rischiare il suo posto e con quello si era guadagnata tutto il mio rispetto. Mi aveva spiegato che ad ogni Assistente veniva assegnato un solo candidato, e che la sua eliminazione prevedeva la squalifica di entrambi. Al contrario, in palio per loro c'era un posto di lavoro a vita come Assistenti al Governo. Un posto che, come per quello di Rappresentante, faceva gola a molti e aveva una certa importanza. Perciò non voleva sprecare quell'unica possibilità, ma procedere con cautela rispettando tutti i divieti. A sentirla, negli ultimi giorni la sicurezza era quasi soffocante: tutti i loro contatti con i candidati erano monitorati, dovevano stilare dei verbali in cui gli argomenti di conversazione venivano messi a nudo e passare dagli incaricati dell'Elezione per rilasciare delle dichiarazioni giornaliere. Infatti, non vederla tutti i giorni non significava che non stesse lavorando. Niente in quel posto era lasciato al caso, piuttosto era il frutto di solide recinzioni innalzate con lo sforzo di molte persone. Moltissime persone.
L'Elezione non era ciò che avevo sempre pensato, ovvero una competizione imposta che coinvolgeva un mucchio di ragazzini inesperti. O meglio, era anche quello, ma soprattutto un evento pensato nei minimi dettagli, il cui scopo era testare i partecipanti, quanto chi gli lavorava attorno. Una macchina i cui ingranaggi combaciavano alla perfezione, il frutto di Ere di duro lavoro. Tutto per trovare qualcuno che rispettasse l'altro, perfetto macchinario: Phērœs. Farne parte era davvero un privilegio, e per la prima volta iniziai a percepirlo come un dovere, verso la nazione e verso chi lavorava alle mie spalle.
Vista così, l'eccitazione dei concorrenti non mi parve più così insulsa. In quella prospettiva, anche le parole di Shawn acquisivano senso. Se c'era una cosa di cui ero convita, era che io, a differenza degli altri, non ero interessata alla carica. La solo curiosità non era sufficiente, oltre che irrispettoso verso chi ci stava mettendo anima e corpo. Come Shawn. Volevo sapere e capire, ma non agire al fine di arrivare al premio. Restando mi sembrava di fare un torto a qualcuno, ma bastava il ricordo di quel pel di carota e la sua richiesta di auto-squalificarmi per far scattare una scintilla di competitività. Non riuscivo a dargliela vinta. Come per la storia della sua guarigione: non avevo più infierito per non turbarlo oltre il necessario, ma non significava che mi fossi arresa.
In sostanza, ero molto combattuta sul da fare.
Riguardo al rapporto candidato-candidati, avevo percepito un miglioramento. Tutti avevano smesso di darmi addosso per quella faccenda del Rappresentante, visto come, pochi giorni dopo, questo era stato trovato in compagnia di ben cinque ragazzi. Tremblay, infatti, passava spesso per la Base Alpha, proprio per controllare e interagire in prima persona con noi. Che si fosse trattenuto per una colazione con me e Shawn non era più stata vista come una cosa così inaccettabile, e le acque si erano calmate. Dopo tre dibattiti alla mensa è una quasi-rissa, ma si erano calmate. L'unico sentimento negativo che si covava in quel periodo, era l'insoddisfazione di chi non aveva avuto ancora l'occasione di passare del tempo con Tremblay.
Dopo la sfuriata alla mensa e scoperta, poi, la verità, Lusyelle si era vergognata al punto da non riuscire nemmeno a scusarsi. Aveva fatto tre tentativi solo quella settimana, insieme a Carlos, ma tutte le volte finiva con il viso arrossato e gli occhi al pavimento. L'altro aveva semplicemente chinato il capo, in una scusa silenziosa, mentre Jefferson mi ignorava. Non che mi aspettassi qualcosa da lui, né da nessun'altro. Paterson invece... Diciamo che quelle poche volte in cui apriva malauguratamente bocca, dovevo trattenere William dal ricominciare a discutere. Al resto ci pensavano i militari: grazie a loro ora nessuno apriva più bocca riguardo a certe cose.
Non avevo creduto al Comandante Benedikt quando ci aveva garantito l'incolumità, ma il personale in servizio era davvero efficiente su quel punto. Di loro mi fidavo, erano i candidati a preoccuparmi.
Come William. Era il miglior difensore che avessi mai avuto; il primo e l'unico. Dopo gli allenamenti correva da me, e quanto l'istruttrice Petris li impegnava fino all'ultimo secondo, ero io ad aspettare lui. Trovavo strano dare così tanta confidenza a un altro candidato, ma con William stava diventando impossibile non farlo. Fin dall'inizio si era letteralmente avvinghiato al mio fianco, senza alcuna intenzione di staccarsi. Quando gli avevo chiesto il perché, aveva semplicemente affermato di non "poter resistere alle sfide". In quei giorni, invece, io avevo scoperto di non poter resistere a quel suo sorriso smagliante, alle attenzioni che mi riservava e a quei suoi squallidi tentativi di farmi ridere. Sapere che non sarebbe durato molto mi faceva venire voglia, per la prima volta, di godermi la sua compagnia il più possibile. Allo steso modo, anche il desiderio di allontanarmi cresceva.
Dopo quasi tre settimane avevo iniziato a collegare i nomi ai visi; eccetto quelli dei mio gruppo, che ormai conoscevo. William mi aveva aiutata a inquadrare anche quelli del suo gruppo e insieme avevamo fatto altrettanto con i Qualificati. Il Quarto Gruppo era troppo vasto e troppo poco reperibile per poterci anche solo provare. In realtà, erano come spariti da quando gli allenamenti erano cominciati. Durante i pasti, capitava spesso che alcuni non si presentassero, forse stremati dagli esercizi di Maguerez. Non doveva essere facile avere a che fare con lei, come per l'istruttrice doveva essere difficile lavorare con 155 concorrenti. Solo qualche giorno prima avevamo scoperto che Maguerez aveva circa trenta soldati al seguito che l'aiutavano a tenere a bada i ragazzi, e la palestra più grande di tutta la Base Alpha. Si trovata nel Terzo Settore, quando voleva lavorare all'aperto occupava i campi della zona dei Latori. Dopo aver intravisto un loro allenamento iniziai a vedere Osborne in maniera più positiva.
Ormai i cadetti in addestramento erano finiti a lavorare nelle poche aree libere a turni. Anche loro, come le scuole, erano sul punto di arrestarsi per dare spazio all'Elezione. Tutto ruotava intorno all'evento.
La tranquillità statica da poco ritrovata venne spazzata via quando il Comandante Benedikt, durante un annuncio improvvisato nel mezzo del pranzo, ci aveva sollecitati a ragionare sull'enigma e preparare una soluzione in vista di una visita all'interno della struttura nella quale si sarebbe svolta: il primo piano sotterraneo della Base Alpha. Proprio lì, sotto di noi, stavano allestendo chissà quale prova con l'aiuto di coloro che, per altre quattro volte ci avrebbero giudicati. Presto avrei visto i volti dei Responsabili e degli Osservatori, gli ideatori delle prove, e avrei finalmente esternato il risentimento per quella barbarica scelta delle scosse. Una maledizione che si ripeteva allo scoccar della stessa ora, e che mi stava facendo impazzire.
E la voce.
Questa volta la cosa più scioccante, fu il numero di eliminati previsti. Il Comandate lo disse chiaramente, lasciandoci tutti con l'amaro in bocca. Come per la prima prova, aveva già deciso quanti di noi avrebbero lasciato la competizione.
«Quaranta eliminazioni» aveva detto senza troppi convenevoli. «Gli ultimi quaranta posti nella prossima classifica del Quarto Gruppo, verranno rimandati immediatamente a casa».
L'aria della mensa si fece satura di rivalità, di quella spietata e intrisa di rabbia. Eravamo tornati al tutti-contro-tutti, non che ci fossimo presi una pausa: avevamo solo imparato a convivere. Ma nell'Elezione era impossibile farlo. L'ultimo gruppo digrignava i denti e prometteva con tacita furia di non ritrovarsi più a così pochi passi dalla sconfitta. Avevano messo gli occhi sui primi posti già da molto tempo, ora stavano solo sugellando il loro giuramento di riscatto.
Non ero certa di riuscire a tenermi quel settimo posto, piombando invece tra quei quaranta ragazzi. Di quelle due eventualità, non mi era chiaro quale mi avrebbe potuta turbare. Una parte di me non voleva perdere, perché non abituata alle sconfitte. L'altra parte premeva sul mio punto debole: la cucina.
Avrei dato qualsiasi cosa per poterci tornare.
«La visita avverrà tra tre giorni, preparatevi» aveva detto come ultima cosa. Com'era comparso, si dissolse attraverso la soglia. La cerchia di militari di ronda sempre più stretta, allerta nel caso ricominciassero i disguidi.
Per me era giunto il momento di pensare a qualche soluzione. Questa volta era inevitabile.
• • • • •
Nell'Elezione, persino pensare in pace era un privilegio. C'erano precisi momenti in cui avrei potuto farlo, perché nei restanti attimi non era contemplato.
Gli allenamenti erano parte di quell'insieme.
«Forza con quelle braccia» intimava Osborne a pieni polmoni. «Come sperate di superare la prova se non riuscite ancora a fare una serie di allenamento in modo decente?!»
Aveva di nuovo preso di mira il meno resistente del gruppo, un ragazzo di nome Gillees. In effetti era dal primo allenamento che gli occhi taglienti di Osborne si erano implacabilmente posati su di lui.
«Dovete pensare per sperare di superare la seconda prova» continuò solenne, questa volta rivolgendosi all'intero gruppo. Si era piantato la punta dell'indice sulla tempia e ci scrutava con gli occhi iniettati di saggezza squilibrata. «Ma questo non significa che non dobbiate essere in grado di cavarvela anche fisicamente. Mente e corpo sono un unico tempio, vi serviranno entrambi per sperare di entrare e uscire tutti interi».
Aveva l'aria di un'innocente alla quale era scappata una parola di troppo, ma anche se per poche settimane, il tempo passato a osservarlo mi diceva che il suo era un tentativo di stimolare la nostra attenzione verso la Seconda Prova, di non prenderla sottogamba. Nonché un modo per ricordarci che lui sapeva qualcosa e noi no. Perché dubitavo che sapesse più di così.
Nell'abboccare al suo amo, ci fermammo a metà del lavoro, scambiandoci occhiate schive e grugni affaticati poco amichevoli. Il mio sguardo scivolò quasi istintivamente su pel di carota, di solito in grado di coglierli all'istante. Per la prima volte non se ne curò. Era assorto nei suoi di pensieri, mentre il corpo riposava immobile, disteso sul pavimento, a metà di un esercizio. E non era il solo: pian piano vidi gli altri Positivi venir risucchiati in quella scatola buia e senza fondo che è la mente umana.
Io, che da sempre avevo un posti in prima classe per quel posto, rimasi connessa alla realtà. Volevo pensarci a quella prova, trovare una soluzione, ma continuavo a rimandare. E rimandare.
«Nessuno vi ha detto di fermarvi!» esplose l'istruttore indignato.
La sua voce riuscì a riafferrare tutti i dispersi e a riportarli in un sol colpo alle loro faccende. Ripresi con loro il mio esercizio, terminando l'ultima flessione e sollevandomi lentamente. Ormai avevo scoperto il segreto per sopravvivere ai suoi allenamenti: a Osborne non interessava quanti esercizi facessimo e in quanto tempo, l'importante era che non ci fermassimo. Chi lo faceva, riceveva le sue particolari attenzioni – grida, insulti, sciocchi con i palmi delle mani che ti perforavano i timpani – finché la sua situazione non migliorava o peggiorava del tutto. O come Gillees, che veniva morbosamente monitorato. Io mi prendevo sempre il tempo necessario, migliorando poco a poco le prestazioni e terminando le serie di allenamenti che il mio corpo riusciva a tollerare in una giornata. Anche con tutta questa premura non potevo evitare il dolore post-esercizio.
Dopo tutti quei giorni passati nella palestra, avevo capito che gli allenamenti potevano essere quasi autonomi se sapevi gestirli in modo che l'istruttore non ti piantonasse. Così era con Osborne, non ero certa che come tecnica si potesse considerare efficace anche con gli altri.
Se qualcuno a inizio Elezione mi avesse detto che avrei sudato come un soldato in addestramento sette giorni su sette, mi sarei messa a ridere come una sciocca. Invece ero lì, inzuppata dalla fatica, quasi soddisfatta di ciò che stavo costruendo. Per la mia mente da cuoca ossessiva, più resistenza nella braccia equivale a migliori prestazioni in cucina.
Da un po' avevo iniziato a credere che gli allineamenti avessero poco a che fare con le prove. Il modo in cui ci impegnavano, dava più l'impressione di un diversivo. Una mano santa visto lo stato d'animo dei canditati, una tecnica miliare per sbollire la rabbia estremamente efficace. Certo, non tutti ne beneficiavano al cento percento, ma bastava per sfinirci fino a farci passare la voglia di litigare tra di noi durante la cena.
Quando l'istruttore batté finalmente i palmi delle mani, capimmo che la tortura giornaliera era terminata. Erano solo cinque ore pomeridiane, ma senza pausa sembravano durare un'eternità.
Anche qui, me la presi con comodo aspettando William. L'istruttrice Petris, a sentir lui, non era come Osborne, che qualche volta terminava anche una decina di minuti prima per permetterci di riprendere fiato prima della cena. Ci insultava, ci sfiniva e gridava fino a diventare rosso, ma da subito aveva intuito le nostre debolezze. Ci piegava dalla fatica tutto il giorno, ma per evitare che ci spezzassimo troppo in fretta tentava di salvarci al limite. La sua collega, invece, si spingeva oltre quel limite, per far sì che ne venisse tracciato sempre un altro. Per questo gli Effettivi erano spesso gli ultimi a uscire dalla palestra, trattenendosi venti, quasi trenta minuti in più. Metodi differenti, che molti avevano giudicato come imparziale. Se la mia idea sull'Elezione era esatta – cosa di cui era certa al 99% – nessun istruttore era stato affidato casualmente a un gruppo, quindi non mi ero neanche posta il problema.
Grazie al biondino sapevo dove si allenavano, e quando ritardava ero io ad andare da lui. Una seccatura che stava diventando la più fastidiosa delle abitudini. Con lui tutto sembrava così normale, tanto che per qualche giorno l'avevo veramente creduto. Mi ero dimenticata perché fossimo tutti lì, erano stati il Comandante Benedikt e Osborne, quel giorno, con quei cupi discorsi, a ricordamelo.
"Ora potrà sembrarvi impossibile, ma per esperienza posso garantirvi che le simpatie che coltiverete qui dentro, diventeranno in futuro le più improbabili delle amicizie" aveva detto il Rappresentante Tremblay, e io ancora non riuscivo a dargli ragione. Quello che c'era tra me e William, come qualunque altro candidato, non era amicizia. Non poteva esserlo con quaranta posti pronti ad essere riempiti. Il nostro era più un rapporto di convivenza pacifica tra due candidati poco meno sconosciuti. Una sorta di alleanza, voluta più da lui che da me. In un impeto di simpatia nei suoi confronti ero stata io a proporgli l'incarico di difensore, ma questo non cambiava la realtà: mi voleva vicino per il mio settimo posto e la simpatia del Rappresentante Tremblay.
Come per il viaggio in pullman, ci stavamo usando a vicenda.
Dopo essermi riposata un po' sul bordo del tappetone, mi decisi a entrare nel chiassoso spogliatoio. Lì la fatica degli allenamenti non influenzava le bocche dei ragazzi: ero incappata in una lite tra due candidati che, in quanto a parole, ci stavano andando sul pesante. Scivolai lungo la parete, cercando di arrivare al mio armadietto senza rivangare vecchie storie.
«Se credi che quei perdenti del Quarto Gruppo possano sbatterti fuori dai Positivi con tanta facilità, allora dovresti andartene subito. Io non ho paura di quelli lì, sono ultimi per un motivo» stava borbottando adirata una ragazza. Si chiamava Alexa, era al sesto posto in classifica. Aveva dei boccoli bruni perfettamente raccolti in una coda di cavallo. All'apparenza era estremamente femminile, in contrasto con i suoi modi rudi e la sua resistenza quasi mascolina durante gli allenamenti. Lei era l'orgoglio femminile: carina e minuta, ma sempre un passo avanti al genere maschile. Se fosse diventata Rappresentate, sarebbe stata la copia sputata di Dena Engineer.
«Non ho affatto paura!» ribatté il ragazzo con la quale stava battibeccando. Dal modo in cui si mise sulla difensiva, come un animale braccato, diede tutt'altra impressione. «Ma se avessi buon senso li terresti d'occhio. E così che si soffiano i primi posti».
«Secondo me parli per paura» lo beffò lei, «e sarà quella a soffiarti il posto» aggiunse, afferrando le scarpe dal suo armadietto, prima di chiuderlo con un tonfo e dirigersi verso l'uscita.
Si voltò giusto per infierire. «Ma a quella sembri essere abituato. Io no. E poi, di che ti preoccupi? Verrai eliminato in un caso o nell'altro. Effettivo, Qualificato o Quarto Gruppo, non fa differenza». Poi uscì con estrema ammirazione dei presenti.
«Non ascoltatela» riprese il ragazzo.
Il suo nome proprio non me lo ricordavo, però sapevo che ero il quindicesimo dei Positivi. Era normale che fosse pressato dalla paura di perdere. Il burrone a mezzo passo di distanza.
«Dobbiamo coalizzarci, così resteremo tutti dove siamo anche per questa prova. Voi che enigma avete da risolvere?» proseguì, mostrando il foglietto datoci al termine della Prima Prova.
Occhiate fameliche piombarono su quel pezzo di carta, al che il ragazzo si trovò circondato.
«Se condividiamo le informazioni potremmo far sì che la classifica resti invariata» farneticava.
Idioti, pensai. Un piano così stupido non poteva funzionare. Manipolare la classifica non poteva essere così semplice, soprattutto con persone come gli Osservatori che ci avrebbero alitato sul collo tutto il tempo, registrando ogni nostro passo. Avrebbero smascherato questo assurdo piano dopo due concorrenti.
La risata trattenuta a fatica da Shawn, intento ad armeggiare con la serratura del suo armadietto, mi diede la certezza che non avrebbe mai funzionato. Il Comandante Benedikt non aveva specificato di tenere l'enigma per sé, ma ero abbastanza certa che fosse una comando sottinteso. Le alleanze come quella erano destinate a sgretolarsi alla prima difficoltà; si sarebbero pugnalati tutti alle spalle appena iniziata la prova, sabotandosi a vicenda.
Indugiai lo sguardo sul suo profilo posato, tentando di immaginare quale potesse essere il suo compito e come mai fosse così rilassato. Mi sentii come infilzata da tante puntine affilate quando realizzai che eravamo a un passo l'uno dall'altra, come alla mensa quel giorno. Chiunque ci stesse guardando, avrebbe detto che fossimo due estranei.
No. Lo eravamo.
«Anche sul mio c'è la stessa sala» esclamò qualcuno.
Mi allacciai le scarpe, tendendo l'orecchio. Sentirli farfugliare mi diede modo di capire quanto poco ricordassi di ciò che c'era scritto sul mio biglietto.
«Anche tu hai la sala III?» ripeterono increduli un paio di volte.
Mi suonò famigliare.
"Il suo compito è quello di anestetizzare le cavie della sala..." mi sforzai di ricordare. "... sala III"
Rimasi a fissare il grigiore metallico dell'armadietto, confusa. Non ero certa di ricordare correttamente, ma nel caso avremmo avuto la stessa sala, che fossero uguali anche le richieste? Volevo controllare di persona, ma farlo significava avvicinarmi e prendere parte al gruppo di fanatici ossessi dell'Elezione, che con grande tranquillità stavano pianificando un sabotaggio.
Io non ero neanche certa di voler trovare la risposta a quella prova...
Misi a bada quell'implacabile desiderio di sapere e provai ad uscire di lì prima di ascoltare qualcos'altro. Ero umana, quindi curiosità e passione erano i miei punti ciechi. Mi sarei avviata verso la palestra usata dagli Effettivi, nel Terzo Settore. Era una lunga camminata e i muscoli delle gambe chiedevano pietà, ma verso l'ora di cena i corridoi e gli hangar andavano svuotandosi, quindi era difficile sentire qualcosa da quelle parti.
Il mio piano ben architettato andò in fumo ancor prima di mettere un piede fuori da quello spogliatoio. Nell'istante in cui la voce di Shawn si fece largo tra i commenti increduli dei ragazzi, la mia attenzione si precipitò su di lui e sulla prova.
«Anche io ho la III sala» aveva detto con una tranquillità disarmante. Come se renderlo pubblico lo mettesse in vantaggio.
«Quindi siamo in tre?» esclamò l'ultimo della classifica.
Quattro, con me. Ma non lo avrei mai detto ad alta voce.
«Che significa?» borbottarono tra di loro due ragazze, a pochi passi da me.
«Qualcun altro ha la sala III?» chiese il ragazzo.
Decisi di non apri bocca sull'argomento, almeno non prima di aver riletto attentamente l'enigma. Mi limitai a fissare Shawn, il cui volto di marmo nascondeva la scintilla di genialità verdognola dei suoi occhi. Quello sguardo lo conoscevo fin troppo bene: stava architettando qualcosa. Aveva intuito più cose di noi tutti messi assieme, già da un bel po'.
«Probabilmente facciamo tutti parte dello stesso gruppo» disse, lanciando un'esca a cui abboccammo tutti.
Paterson riemerse dal suo armadietto, indignato. «Tu cosa ne sai? Te lo ha detto Tremblay?»
Bastò quell'insinuazione per puntare tutti i presenti contro O'belion. L'umore dei candidati era così labile e raggirabile da farmi temere seriamente per la sua incolumità. Asia me lo aveva spiegato, che in rare occasioni c'erano stati degli scontri nell'Elezione.
Shawn ignorò l'accusa procedendo cauto con il suo discorso. «Siamo 200 candidati. Quanto tempo è spazio credi utilizzeranno? È logico che ci dividano in gruppi. Forse avremo anche dei turni».
La sua osservazione, quasi ovvia in effetti, fece scrollare le spalle a tutti. Bastava ragionare un po' per arrivare alle stesse conclusioni di Shawn. Questo, però, non fece altro che mandare in bestia quel piantagrane di Paterson, che si mosse fulmineo verso di lui. Quasi credetti lo avrebbe colpito. Ma non lo fece, rimase a un palmo dal suo naso, ciondolando con un sguardo folle e predatorio. Aveva l'aria di voler fare a botte, ma non poteva per via dei militari ancora nella palestra. Perché dei presenti, nessuno avrebbe tentato di fermarli. Potrei dire che, a distanza di sicurezza, si stessero tutti godendo lo spettacolo.
«Di quello che ti pare, ma tanto lo sappiamo tutti che siete i cocchi del Rappresentante. Tu e quella calunniatrice» mi indicò con tanto di quel disprezzo da farmi intirizzire. Cercai di reprimere smorfie e sbuffi per quel suo insulto. Ero appesa a un filo e non volevo dargli altri motivi per prendersela con me. «Vi stanno passando di sicuro le informazioni. È tutto un vostro piano per sabotarci, in realtà i Rappresentanti hanno già scelto chi passerà le prove!»
«Ma stai zitto» lo ammonì Adele.
L'aria distaccata e innocente, gli occhi fissi sulle unghie laccate di viola. Aveva la schiena poggiata al suo armadietto e lo guardava dall'altro in basso. Una frase così schietta, rozza e sensata non pensavo potesse venir fuori da una bambola viziata come lei. Mi trovai piacevolmente sorpresa, forse anche grata per averlo interrotto prima che tornasse a martoriarmi ingiustamente.
«Anche io ho parlato con il Rappresentante Tremblay, per più di due ore, con altre due ragazze del Quarto Gruppo. Non si è mai avvicinato all'argomento» aggiunse, infierendo su una bomba già sulla soglia della detonazione.
«Brutta...» ringhiò Paterson, mordendosi la lingua prima che il resto uscisse fuori da quella sua bocca insoddisfatta. Ogni giorno si rendeva sempre più ridicolo; era già finito sulla lista nera dei militari. «Questa Elezione fa schifo, come voi» esclamò prima di sfilarmi accanto.
Mi lanciò uno sguardo truce, seguito da un'eloquente smorfia rabbiosa. Soltanto dopo uscì dalla stanza. Non mi era ancora del tutto chiaro il perché, ma per quanto lo facessero arrabbiare, tornava sempre a prendersela con me. La questione del filetto aveva scatenato una lotta interminabile.
«È vero che non sai niente, O'belion?» subentrò Karter nel discorso.
«Credi che qualcuno, qui, possa lasciarsi sfuggire qualcosa?» domandò lui a sua volta.
Non c'era nemmeno bisogno di rispondere. In un posto dove gli unici a saperne qualcosa erano il Comandante dei Latori e i due Rappresentanti, non poteva di certo capitare che una banda di ragazzi raccogliesse informazioni riservate. Per quanto sveglio fosse Shawn, ciò che aveva lanciato come un'esca in un acquario erano solo supposizioni. Mi chiesi a quale scopo... Confonderci? Depistarci? Metterci in guardia? L'ultima poteva avere un fondo di verità anche se la sua essenza altruista era ridotta all'osso, specialmente se ci credeva talmente inetti da non riuscire a vedere il quadro della situazione. In fondo il sui erano sempre stati continui tentativi di ostentarsi e gongolare sulle mancanze altrui. Farci apparire stupidi, deboli, così da risaltare; fomentare dubbi in altre persone e usarli a suo vantaggio.
Malato o non, di fondo c'era sempre la scaltra volpe che aiutavo a vendicarsi contro i bulli che lo deridevano. A quei tempi io le sue gambe, e lui il cervello di ogni operazione.
Anche la pulce lanciata da Paterson aveva fatto il suo lavoro: nel gruppo si era aperto uno squarcio ben più profondo della normale competizione tra candidati. Si trattava del caro nemico "dubbio", il virus più contagioso esistente al mondo. Bastava poco perché si espandesse a macchia d'olio, ed era difficile da curare. Difficile da gestire persino per Shawn.
«Gli credo» dichiarò Karter, come bastasse a concludere la faccenda.
Ad alcuni bastò veramente, come Adele e Gillees. Altri erano ancora sotto le grinfie di quella subdola malattia senza tempo. Presto anche gli altri candidati avrebbero saputo della nostra chiacchierata, si sarebbero infettati e, per qualche ragione, sentivo che ci sarei di nuovo andata di mezzo io.
• • • • •
Canale dopo canale, arrivai al Secondo Settore. Tutti erano diretti alla mensa, sfiniti dagli allenamenti e desiderosi di rintanarsi nelle loro stanze il prima possibile. Avrei di certo preferito seguire quel piano, mangiando e ascoltando i vaniloqui di William come ogni sera in quelle ultime tre settimane, ma la mia testa era altrove da quando i discorsi sulla seconda prova erano iniziati.
O meglio, da quando Shawn aveva reso la questione inesorabilmente interessante.
Al bivio che mi avrebbe portata a un pasto caldo e qualche risata, scelsi la via verso all'enigma abbandonato nella mia stanza. Seppellito sotto i promemoria e i resoconti della mia Assistente, giaceva quel pezzo di carta ripiegato e ufficializzato dal nostro Governo. Leggerne il contenuto fece riaffiorare quella sensazione nauseabonda che avevo provato la prima volta: "Il suo compito è quello di anestetizzare le cavie della sala III". Così trovai scritto.
Era ufficiale, eravamo in quattro ad avere la stessa sala nella classifica dei Positivi. Ammesso che altri non avessero deciso di tacere a riguardo, come me. Shawn aveva ragione, eravamo già stati divisi in gruppi. Era stato tutto dettagliatamente programmato dagli organizzatori. Pensare di boicottare le classifiche sembrava sempre più un'idea stupida, così come la possibilità di ricevere aiuti da qualcuno. Sulla similarità delle prove era indecisa: realizzare duecento enigmi per ogni candidato sarebbe stato impegnativo, ma non impossibile.
Rilessi ancora, e ancora, finché non lo memorizzai. Mancavano tre giorni alla visita del piano sotterraneo, dopo di ché la Seconda Prova poteva essere fissata anche per il giorno seguente. Sempre che non avessero intenzione di usare la visita come scusa per un'altra prova a sorpresa.
Il solo pensiero mi faceva salire una punta di panico, oltre che far venire la pelle d'oca. Dovevo assolutamente inventarmi qualcosa prima di quel giorno, non potevo presentarmi a mani vuote e lasciare che qualche Osservatore pensasse a un rifiuto volontario. Oltre che vietato dal Codice Elettorale, e punibile per via legale, ero semplicemente stanca di essere fraintesa e accusata ingiustamente.
Avevo ancora tempo. Per la prima volta sapere di dovermi svegliare all'alba per fare qualcosa di più di osservare il cielo come un beota e rimuginare su ciò che non potevo fare. Era scioccante come dopo qualche chiacchiera avessi tutta quella voglia di risolvere il quesito per la Seconda prova. Aver tentato di evitare quel momento era stata una perdita di tempo. Non potevo sottrarmi a certi doveri, almeno non fino al termine di quelle cinque prove.
Decisi di tornare sui miei passi, verso la mensa. Mentre percorrevo i corridoi, potevo immaginare l'espressione corrucciata di William mentre si lamentava di come lo avevo piantato in asso. Nonostante il broncio e le smorfie, mi avrebbe riservato un posto accanto a lui, e un sorriso.
Le parole del Rappresentante mi ronzavano in testa da giorni; riaffioravano quando mi soffermavo sugli atteggiamento di quel biondino. Alle sue parole si erano aggiunti altri fastidiosi sussurri, voci che avevo udito durante la giornata e che tenevano torturarmi. Quaranta eliminati. Vipera. Anestetizzare cavie. Perdita dei sensi. Prove. Più cercavo di allontanarli, più queste si facevano rumorose, finché arrivai a sentire solo quelle. Ero come circondata da una folla invisibile. Volti pallidi e raccapriccianti che ripetevano instancabili verità che volevo ignorare.
Per quel che accadde dopo, do la colpa unicamente all'Elezione. Se non fosse stato per quella partecipazione obbligatoria, tutto il trambusto di quelle ultime tre settimane non sarebbe avvenuto, non mi sarei ritrovata da sola per i corridoi del dormitorio, mentre tutti erano alla mensa, e di certo mi sarei accorta di lui.
Calunniatrice. Mi parve di sentirglielo dire ancora una volta, anche se le labbra di Paterson non si mosse. Rimasero stizzite nel silenzio, mentre della rabbia rovente mi scaraventava addosso tutte le sue remore. Ero diventata un capro espiatorio, e l'Elezione gli aveva offerto l'occasione perfetta per dar sfogo ai suoi pensieri.
Abbassai lo sguardo e gli passai accanto con cautela. Avevo una pessima sensazione. Mi aspettavo che dicesse qualcosa di cattivo, come tutte le altre volte. Lo avrei di gran lunga preferito, invece rimase in silenzio. Fu molto peggio. Come alla mensa, la sua mano mi afferrò per una spalla. Questa volta non c'era William a fermarlo, né un militare. Fu libero di strattonarmi e mettermi con le spalle al muro, accusarmi ancora.
«Dimmi quello che Tremblay vi ha detto» sibilò.
Non avevo mai temuto qualcosa così tanto in vita mia. Quelle accuse, la sicurezza con cui pretendeva delle risposte, il modo in cui mi stringeva per le spalle fino a farmi male... Per cosa?
«Rispondi!» mi intimò, spingendomi con forza verso la parete. Battei la schiena sullo stipite metallico di una porta, il dolore soffocato in gemito.
Non riuscivo a parlare, a dirgli di lasciarmi in pace e di smetterla con quelle pazzie. Non riuscivo a nemmeno urlare o a scappare.
Ero solo terrorizzata.
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