Capitolo IX (R)
Mentirei se dicessi di non essermi abituata almeno un po' a quei deliri notturni. Una parte di me non riusciva a convincersi che si trattasse solo di comuni sogni, quindi arrivai alla conclusione che a scatenarli fossero proprio le scosse. Come una controindicazione. Forse tra qualche mese avremmo riscontrato tutti dei danni irreparabili al sistema nervoso, mentre ogni notte avevamo a che fare con quelle stranezze.
Per quanto scombussolata mi sentissi ad ogni risveglio, non mi ero affatto stancata di quella voce melodica e incantatrice. Non dopo aver sperimentato l'effetto calmante che aveva su di me. Seppur a senso unico, sapeva districare i nodi delle mie giornate molto più facilmente di quanto riuscissi a fare io, ed egoisticamente mi bastava.
L'altra parte di me, quella colpita da scosse sempre crescenti, chiedeva delle spiegazioni. Volevo che il Comandante confermasse l'ipotesi e mi dicesse che, in realtà, era una cosa normale e vissuta da tutti. Desideravo poter scorgere negli altri candidati un sintomo che mi rasserenasse. Un qualcosa che non avevo ancora trovato.
Con quei pensieri inquieti fin di prima mattina, mi preparai e uscii in fretta dalla stanza, l'unico testimone di quanto accaduto in quelle ultime notti. Percorsi i corridoio angusti, illuminati da un fredda e grigia luce artificiale, sbucando davanti all'ingresso sbarrato dell'hangar Lauro. Dei militari, anche quel giorno, nemmeno l'ombra.
Come ogni mattina in quell'ultima settimana, girai la maniglia e oltrepassai l'hangar tappezzato di bestioni metallici dormienti, diretta allo spicchio di luce che filtrava dalla porta basculante. Mi accovacciai, oltrepassandola. Il freddo pungente del mattino mi augurò il buongiorno, rischiarato dalla luce dell'alba che avvolgeva con i suoi toni flebili la Base Militare.
Da giorni ormai mi svegliavo con lo schiarire del cielo. Come la mensa, quell'unico percorso era stato lasciato aperto dal Comandante per chi, come me, aveva la tendenza a svegliarsi presto la mattina. E per quanto l'idea di essere l'unica a gironzolare per le strutture mi piacesse, non era affatto così: mi era capitato di incontrare qualcuno alla mensa, lungo le aree di atterraggio, ma sempre dopo che il sole sorto brillava caldo nel cielo. Fino a metà mattinata ero sola, malgrado la compagnia degli ufficiali e i frastuoni della vita soldatesca, finché William non emergeva dal dormitorio e mi pedinava di lì alla sera. Se avesse potuto, anche durante gli allenamenti.
In quei giorni avevo curiosato nel Primo Settore, finché stanca di scriblet e sordi frastuoni metallici, mi ero ritirata nel Quarto Settore. Non ero certa di poterci stare, ma nessuno aveva ancora espresso la sua disapprovazione; lo presi come un tacito consenso. Girovagando lì, avevo scoperto che dal campo esterno la vista dell'alba che sorgeva dietro i ciuffi delle fronde verdeggianti, parte della foresta ibrida che circondava la Base Alpha, era bella da mozzare il fiato. Una delle poche cose degne di essere apprezzate in un luogo ferrigno come quello.
Rimasi immobile, seduta sul selciato ad ammirare lo spettacolo di colori cercando di deviare il turbinio di pensieri verso qualcosa di gradevole. Pur impegnandomi, era difficile: se non erano la voce, le scosse e la Seconda Prova a turbarmi, l'opprimente desiderio di tornare ai fornelli mi corrodeva l'animo. Un dolore quasi fisico, il bisogno innato di recuperare la parte più importante del mio essere.
Ero lì da poco più di una settimana, e già sentivo che il tassello più importante della mia vita mi era stato sottratto. Potevo sopravvivere altre cinque prove?
Sospirai. Qualcosa mi diceva di no.
Alla fatica degli allenamenti mi ero già abituata, alla routine forzata, anche. Mi ero persino adattata, in parte, alle stranezze comprese nel pacchetto dell'Elezione, non specificate nel Codice Elettorale, e all'imminenza delle altre Prove. Piccoli e grandi dettagli che cercavo di mediare giornalmente, ma quando c'era in gioco la cucina non potevo farmene una ragione.
Il sole sorgeva, illuminando a poco a poco frammenti di quella vasta palestra all'aperto. Un telo ricoperto di sfumature cardo, su una distesa pervinca a chiazze cosparsa di candide nuvolette. Un'armonia di colori, rovinata da un punto rosso che avanzava in lontananza. Una macchia che stonava sul quadro colorato del cielo, quanto sul grigiore del terreno. Vidi la pace e la tranquillità scivolarmi di mano. Per quanto sperassi di sbagliarmi, la figura del ragazzo si faceva più nitida a ogni passo.
Pel di carota avanzava con grosse falcate, lo sguardo puntato a terra e l'aria di chi era su tutte le furie. Il suo umore era un tutt'uno con le lingue di fuoco scompigliate che aveva in testa. Nella sua furente avanzata, sembrava non avermi notata.
Quando fu abbastanza vicino non persi l'occasione per farmi beffe di lui.
«Qualcuno è arrabbiato» intonai a gran voce.
Con un certo sconcerto, il ragazzo alzò lo sguardo e mi notò, ancora seduta al suolo. Anche a quella distanza potevo vedere i suoi pensieri rappicciolissi attraverso lo sguardo, un verde sbiadito, invaso da una densa foschia.
«Vèna» disse. Era chiaro che fossi l'ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento. Un incentivo a infastidirlo.
«Per avere quella faccia devi essere stato battuto giù dal letto» constati con malizia.
Soffiò con il naso e mi squadrò dall'alto al basso. «Potrei dire lo stesso di te».
«Ero venuta a rilassarmi, quando ho visto una testa rossa che ribolliva a distanza». Indicai la direzione dalla quale era venuto. «Pensa te che sfortuna».
«Non è proprio il momento per le battute, Vèna» mi ammonì, riprendendo a camminare.
Lo inseguii. Quello stato scombussolato, invece, era davvero perfetto per una rivincita.
«Che ci facevi da quella parte? Lì c'è solo la struttura principale dei Latori» chiesi.
Lì per lì non rispose, poi si voltò di poco e allungò la coda dell'occhio. «È il centro di comando» mi corresse.
«E che ci facevi al centro di comando?»
Velocizzai il passo, sempre più curiosa, fino ad affiancarlo.
«Niente che ti riguardi. E smettila di seguirmi» mi intimò.
Naturalmente non demorsi. Lo pedinai fino al Secondo Settore, dove credetti sarebbe tornato nella sua stanza e invece imboccò la strada per la mensa. Lì avrei potuto piantonarlo quanto volevo. Si avvicinò al bancone, prese un paio di brioche e si accomodò su un tavolo. Con un cenno mi invitò a sedermi offrendomi la colazione. Eravamo soli, quindi non mi sorpresi dei suoi gesti. Mi trattava con più confidenza solo quando nessuno poteva vederci, altrimenti ero un'estranea per lui.
Mi sedetti, mentre il suo sguardo sfumava dalla rabbia a quell'eccentrica nota di so-tutto-io che detestavo.
«Cosa vuoi?» disse chiaro e conciso.
«Io?». Ridacchiai irritata. «Se sono io a infastidirti allora voglio qualcosa, se lo fai tu è tutto normale, vero?».
«Non ti dirò niente di come sono guarito e cosa ho fatto in questi ultimi anni, non ti riguarda. Quindi lascia stare» spiegò, osservando la sua brioche.
«Non mi riguarda?» sibilai a denti stretti. Sentivo rabbia risalire e bruciare, ardere come l'olio bollente. Tentai di reprimere l'istinto di sbraitargli contro, con lui certe cose non funzionavano. Lo avevo capito. Invece, mi mostrai più risoluta – calma era impossibile, come ogni cosa che ci andasse vicino – e risposi al suo giochetto. Ero decisa a rivalermi su di lui e tutte le volte in cui si era preso gioco di me da quando avevo messo piede su quel pulmino. «Allora perché siamo qui?» domandai. Era certo che volesse qualcosa, altrimenti sarebbe tornato dritto nella sua stanza chiudendomi fuori.
«Per chiarire» asserì. Stava giocherellando con l'involucro della merendina, lo sguardo a tratti assente ancora coperto da un velo di foschia.
Qualcosa lo turbava.
«Se vuoi un consiglio...» iniziò, ma io lo interruppi.
«Non lo voglio. Soprattutto non da te».
«...dovresti farti eliminare» proseguì, mascherando la seccatura per la mia interruzione.
«Cosa?» esclamai incredula. «Hai perso il senno? Vado benissimo agli allenamenti, sono anche parecchio–»
Questa volta fu lui a interrompere me. «Riuscire a reggersi in piedi dopo un allenamento non ti rende adatta a questa competizione».
«E chi sei tu per deciderlo? Sono al settimo posto, tu vieni dopo di me».
Face una smorfia. Il primo colpo andò a segno.
«Vèna, non hai valutato la cosa per bene. Questo non significa niente per te, torna ai tuoi amati fornelli» spiegò, con voce esasperata.
«E per te cosa significa?»
Osservai come i lineamenti del suoi viso si indurivano dopo ogni parola. Avevo intuito fin dall'inizio che il suo obbiettivo non era arrivare al termine delle cinque prove, ma all'Elezione. Voleva quel posto, e neppure sforzandomi riuscivo a capirne il motivo. In generale, non ci vedevo nulla di interessante nella posizione di Rappresentante.
«Non stiamo parlando di me» puntualizzò, la voce smorzata dalla rabbia che tentava di eclissare. «Lascia che ti spieghi la situazione in cui ti trovi, Vèna. Tu sei...»
Sospese lì la frase, prendendosi qualche istante per valutare le sue parole, qualcosa che, Shawn O'belion, mai aveva fatto. In nessun caso. Le parole erano sempre state il suo forte.
«Sono cosa?» lo intimai. Qualcosa in lui si sgretolò, forse una di quelle barriere innalzate cedette e lo sguardo scorto durante quell'allenamento riaffiorò.
«Sei come una rosa, qui» spiegò in un sussurro. Il verde pallido dei suoi occhi stava riacquistando la sua normale tonalità accesa, provvista di quello scintillio unico, appena percettibile. «Un bocciolo nel mezzo di un roseto spinoso. Così piccola, fragile e incapace di sbocciare; ti sei rintanata tra i suoi petali creandoti uno scudo per proteggerti dalle altre rose. Alcuni ridono di te, Vèna, credono che morirai soffocata dai suoi stessi petali».
Non sapevo più cosa dire. Per pochi istanti il suo mi era sembrato quasi un complimento, ma in quelle aspre parole aveva nascosto un unico e chiaro messaggio: vattene di tua volontà, prima di essere eliminata. «Shawn...» mugugnai. L'orgoglio ferito a sangue.
«Un bocciolo, seppur sicuro di sbocciare, non può sopravvivere in un posto così. Verrai asfissiata dalle loro spine. Torna alla tua vita, lontano dall'Elezione». Scostò la sedia dal tavolo, pronto ad andarsene. «In nome del rapporto che avevamo, questo è l'ultimo consiglio che ti darò» concluse.
In un attimo, con qualche semplice parola, Shawn mi scaraventò in un polo opposto al suo, delineando un confine. A dividerci c'era più di qualche incomprensione, come se i nostri mondi non fossero più in grado di incontrarsi.
Presa dall'impeto mi allungai sul tavolo tentando di fermarlo; afferrai un lembo della sua maglietta. Chiunque ci avesse visti avrebbe detto che fossi disperata. Un po' lo ero, ma soprattutto ero stanca di ricevere porte in faccia da quel ragazzo.
Rimanemmo così per qualche istante, poi parlò ancora. «Forse avrei dovuto scriverti una lettera, ma a cosa sarebbe servita? Tu non saresti più tornata. La compassione che ti aveva legata a me non avrebbe più avuto effetto e non avresti neanche risposto. Era inutile».
Le sue parole mi ferirono nel profondo, molto più delle precedenti.
«Per chi mi hai preso!» esclamai, lasciandolo andare. «La compassione che mi aveva legata a te. Credi davvero che tutti i momenti che ho passato con te fossero obbligati e mossi dalla compassione?». Senza rendermene conto, stavo di nuovo urlando. «Allora non mi conosci affatto, non mi hai mai conosciuta!»
Mi diressi verso l'uscita, furiosa e sconvolta. Mi sembrò di iniziare a conoscerlo solo in quel momento. Che lo Shawn che avevo conosciuto io non fosse mai esistito? Che anche nei momenti passati assieme quel ragazzo si domandasse se io gli stessi accanto per compassione? Quello era davvero il colmo, non avevo più nulla a cui aggrapparmi.
«Vèna!» la voce di Shawn era vicinissima, tanto che poco dopo sentii la sua presa intorno al mio polso.
«Smettila di fare così!» esclamò, per la prima volta palesemente infuriato.
Strattonai il braccio per liberarmi dalla presa, ma lui strinse più forte. Le sue dita salde erano come lame di ferro, non avevano l'aria di volersi staccare. «Così come?»
«Di scappare e fare la vittima! Non riesci a capirlo oppure non te ne frega niente? Ho passato la mia intera esistenza circondato da persone che stavano con me solo per compassione, tu non mi sei sembrata diversa. Io credevo nella nostra amicizia, davvero, ma tu avevi una vita al di fuori di me, degli amici, una famiglia, io ero una cosa a parte e vedevo la delusione nei tuoi occhi quando per stare con me dovevi rinunciare ad altre cose! Ho sempre fatto finta di niente perché il mio egoismo era incontenibile, ma quando mi sono finalmente trovato con delle possibilità, ho riflettuto e ho capito alcune cose».
Il suo respiro era accelerato per la rabbia che gli scorreva nelle vene, i muscoli tesi e lo sguardo capace di fondere chiunque. Iniziava a spaventarmi.
«Santo cielo!» esclamò improvvisamente. Il punto in cui mi teneva stretta iniziò a dolermi. «Ho passato gli ultimi anni a tenere quella parte della mia vita il più lontano possibile, e tu, in pochi giorni, hai portato alla luce le cose peggiori. Te ne devi andare Vèna, subito!»
Ero sul punto di sputargli in faccia alcune cose, ma non vollero uscire. Riflettendoci, aveva ragione. Da quando lo avevo incontrato ero diventata irremovibile, capricciosa, mi interessava solo sapere e non mi ero resa conto che per lui doveva essere stato difficile. Non mi ero passato per la testa che se ora si comportava in quel modo, probabilmente, era per ciò che aveva vissuto.
«Candidati». Una voce quieta fece capolino alle nostre spalle. Ci voltammo all'unisono, impietrendo alla vista del Rappresentante Tremblay, fermo sulla sogli della mensa. La presa che aveva sul mio polso si sciolse in un baleno.
Chissà da quanto era lì, a osservarci.
Shawn sgranò gli occhi, il panico che si disperdeva come una macchia d'olio. Si spostò al mio fianco, cercando di sembrare normale, anche se i muscoli contratti e il picchiettare frenetico della mano sulla coscia, lo tradirono.
«Oh» esclamò nel riconoscerci. «Johns e O'belion. Cosa vi porta qui così presto?»
Il Rappresentante fece qualche passo avanti, diretto al bancone. Indossava ancora la divisa da pilota, l'espressione serena come sempre. Scetticamente, non potevo credere che non avesse sentito qualcosa.
«Avete già fatto colazione?» indagò preparandosi un vassoio per sé.
Lanciammo uno sguardo alle brioche abbandonate sul tavolo. Tremblay non ci fece caso, in realtà non aspettò una risposta prima di invitarci a sedere con lui.
Consumò metà del vassoio prima di riaprir nuovamente bocca. «Vi svegliate sempre così presto?» domandò distaccato.
«Si» rispondemmo noi all'unisono.
«Capisco» annuì, sorseggiando il suo tè. «Come stanno procedendo gli allenamenti?»
Ero certa che Osborne e gli altri riferissero minuziosamente i dettagli delle nostre giornate, voleva chiaramente vedere cosa ne pensavamo noi.
«Benissimo» rispose subito Shawn.
«Faticosi» confessai. «Ma sopportabili»
Tremblay annuì a Shawn e rispose a me.
«Capisco le sue difficoltà. L'Elezione sa essere subdola a volte, e mi rendo conto che convivere tutti insieme in una situazione così particolare non vi renda più a vostro agio» chiarì, poggiandosi stancamente allo schienale. Non mi ero accorta di quanto sembrasse vecchio, benché non lo fosse realmente. Aveva lo sguardo di chi portava sulle spalle i problemi della Nazione. «A mio avviso, però, è anche un modo per ricominciare. Il passato conta poco qui dentro, è c'è la possibilità di instaurare nuovi rapporti che vanno oltre i limiti della competizione. Ora potrà sembrarvi impossibile, ma per esperienza posso garantirvi che le simpatie che coltiverete qui dentro, diventeranno in futuro le più improbabili delle amicizie».
Il discorso pensato del Rappresentante mi fece intuire che qualcosa doveva per forza averla sentita. Non che ci volesse uno specialista per capire che tra me e Shawn c'erano dei trascorsi irrisolto. Su una cosa concordava con lui: era impossibile. Costruire delle amicizie in una situazione come quella, in un posto così? Non avrebbe mai funzionato, e che a lui fosse andata diversamente doveva essere di certo un caso. Sulla questione del "ricominciare", be', un po' di ragione gliela concessi. Per un attimo compresi anche il desiderio accanito di Shawn di avermi fuori dai piedi e di vincere l'Elezione.
Io ero il passato, quella carica il futuro.
«Concentratevi sulle prove», ci consigliò, «e non lasciatevi intimorire dal modo in cui è iniziata».
Annuii accondiscendente, pur non condividendo affatto i suoi pensieri. Da un obbligo non poteva nascere nulla di buono, e visto come si stavano mettendo le cose, poteva solo peggiorare.
D'un tratto lo schiarirsi ripetuto di una voce ci portò tutti a voltarci, interrompendo quell'illuminante discorso sulle possibilità che avremmo avuto impegnandoci nella competizione. Un miraggio così assurdo che persino il più pazzo e moribondo uomo, nel vederlo, nutrirebbe dei dubbi.
Credetti fosse uno dei militari e quasi sussultai nello sorgere un candidato, un po' trasandato e chiaramente mezzo addormentato, sull'uscio. Il suo volto mi era sconosciuto – come la maggior parte in quel buco di metallo – e l'espressione basita, vorticava da me e Shawn al Rappresentante Tremblay. Una lampadina mi si accese di colpo: eravamo nei guai.
• • • • •
Tremblay ci aveva congedati dopo la comparsa del candidato, che non perse occasione di spifferare ciò che aveva visto a tutti nell'istante in cui si svegliarono.
Quando arrivò l'ora di pranzo mi accorsi della gravità della situazione: non c'era occhio che non si levasse per ammonirmi o compatirmi. Qualcuno andò ben oltre gli sguardi, bisbigliando e sbuffando al mio passaggio. William aveva preso posto, sia per me che per lui. Mi ci accomodai accanto senza fiatare.
Aveva un'aria strana. Era muto come un pesce e giocherellava distratto con i pezzetti di cibo.
Non mi guardò neanche.
Tentai di concentrarmi sul cibo, lasciando il resto al di fuori. Nemmeno il tempo di portare un boccone in bocca, che qualcuno da dietro mi strattonò all'altezza della spalla per farmi girare. Mi voltai seccata mentre gli sguardi disgustati di Lusyelle e Jefferson mi investivano. Ma non erano stati loro a disturbarmi, bensì Paterson, che con un sorriso sciocco e maligno mi stava parlando.
«Ehi» aveva detto. «Ehvena Johns». Guardò me e poi gli altri ragazzi del tavolo, in parte formato dai visi che per mesi avevo visto tutti i giorni. «Non ti è bastato farci fare la figura degli idioti una volta con il Rappresentante, ora fai anche colazioni con lui» proferì con un sottotono minaccioso. Almeno ci provò, anche se con quel suo sconnesso modo di parlare risultò poco credibile.
«Ma che ti aspettavi? È sempre stata una vipera» commentò Carlos Mullas.
Emisi un suono esterrefatto: non gli avevo mai rivolto la parola, eppure mi stava insultando. Anche a Paterson, che la stava prendendo sul personale, non avevo mai parlato. Quei due, Lusyelle e Jefferson, invece, mi guardavano come se li avessi pugnalati alle spalle.
«Credevo che fossi solo timida, che preferissi startene per conto tuo, invece ci stavi raggirando» disse Lusyelle, stringendo amareggiata il braccio del suo fidanzato. «Ha fatto così anche con i professori».
Sono impazziti, pensai. E lo sembravano. Deliravano e si accanivano contro di me come se mi fossi finta loro amica e li avessi, tutt'a un tratto, pugnalati alle spalle, quando invece non avevano perso occasione in quegli anni di usarmi per la mia bravura.
«Ora vuoi fare lo stesso con il rappresentante, eh?» mi punzecchiò Paterson.
«Lasciala stare» tuonò William. «Se avete insulti da lanciare, fatelo con la bocca piena».
Mi mise un braccio sulla spalla e mi fece voltare, le risposte che stavo per lanciare a quel gruppo di allucinati mi rimasero sulla punta in gola.
William mi stava facendo di no con la testa, dissuadendomi dal fare il loro gioco, mentre lo stridio di una sedia fendeva il flebile brusio della stanza.
«Ehi!» esclamò Paterson, la mano ancora una volta sulla mia spalla. William fece per voltarsi, l'espressione indicibilmente cupa. Quasi non lo riconoscevo.
«Fermo!» intervenne un militare di ronda. «Una parola in più e ti sbatto fuori» abbaiò. A quel punto chiunque, persino i cadetti, si erano uniti alla faccenda. L'intromissione del soldato bastò a rabbonirlo, ma aiutò a peggiorare il suo umore.
Inutile dire che il resto del pasto fu un inferno. Forse la parte peggiore era William che, nonostante fosse intervenuto, rimase sulle sue fino a che non terminò il pasto. Nel mentre, lanciai un'occhiata a Shawn, che a differenza mia era esentato da tutte quella premurose attenzioni. La sua risposta fu un chiaro te-lo-avevo-detto.
"Verrai asfissiata dalle loro spine", così me lo aveva spiegato. Inizia a credere che avesse ragione.
• • • • •
Sgattaiolata fuori dalla mensa, allarma fino alle ossa per quello che era successo, etichettai la giornata tra le peggiori in assoluto e sperai di sopravvivere anche all'allenamento e alla cena. Con il giungere della sera, l'avvicinarsi delle scosse e un po' di fortuna, forse il cervello della maggior parte dei concorrenti si sarebbe fritto e al risveglio nessuno avrebbe più ricordato quanto accaduto.
Il mio piano venne scardinato fin dagli inizi, quando William mi disse che aveva qualcosa di cui discutere e mi trascinò lontano da sguardi indiscreti.
Ci eravamo rintanati nel posto più chiassoso di tutti: tra gli hangar e le aree di atterraggio. Almeno lì i militari non mancavano.
Come prima cosa avrei forse dovuto ringraziarlo, ma mi venne più spontaneo chiedergli cosa avesse. Non era normale quell'ombra sul suo volto.
«Mi aspettavo un ringraziamento» disse.
«Grazie per avermi aiutata» mi affrettai a dire, anche se ormai suonò costretto.
«Comunque», proseguì, «sappi che sono deluso».
«Senti, è successo per caso. Non cercato io il Rappresentante e non gli ho chiesto di sedersi con me. Poi non capisco per quale motivo tu debba...»
«Non per il Rappresentante» spiegò interrompendomi. «Gli sei simpatica, lo abbiamo capito tutti, come altri candidati. Se la stanno prendendo con te gli insoddisfatti invidiosi che non hanno ricevuto nessun genere di attenzione, e quelli che hanno paura di farsi battere da una ragazza».
Con mio sollievo aveva ripreso a blaterare ininterrottamente. Per evitare che continuasse così per ore – avevamo poco tempo prima degli allenamenti, e se arrivato in ritardo Osborne mi fulminava – andai dritta al punto.
«Quindi cos'è che ti ha deluso?» domandai. Tralasciai il mio pensiero a riguardo, ovvero che il sentirsi deluso fosse una gran stupidaggine. In effetti, quel giorno, avevano tutti degli atteggiamenti che superavano la soglia di stranezza sopportabile. Pochi istanti prima due ragazzi di cui a malapena conoscevo i nomi mi avevano insultata per qualcosa che non aveva fatto di proposito, e due persone con cui aveva condiviso un paio di lavori di gruppo si erano presi il diritto di etichettarmi come raggiratrice. E poi William si era dichiarato improvvisamente deluso. Forse gli effetti postumi delle scosse stavano iniziando a manifestarsi.
«Be'...» farfugliò. «Che diamine ci facevi di nuovo con la testa rossa? Insieme al Rappresentante poi! È già la terza volta che vi vedete, senza contare gli sguardi che vi lanciate nella mensa...»
Lo fermai. «Aspetta, è questo che ti avrebbe deluso?»
«Si! Non avrai pensato che ce l'avessi con te per via di Tremblay? Te l'ho detto poco fa cosa ne penso, quell'uomo è incredibilmente gentile e non mi sorprende che dopo la storia del filetto ti tenga d'occhio. Solo, perché sempre O'belion? È da quando ci siamo conosciuti sul pullman che lo sto osservando: ti segue sempre con gli occhi, ovunque. Non mi piace» dichiarò. «Tra l'altro tu diventi strana quando c'è lui. Sempre sulle spine, scottante anche più del solito. Per non parlare dell'atmosfera carica di elettricità dell'ultima volta; mi avete fatto venire la pelle d'oca».
«Non vedo come questo abbia a che fare con te».
«Come non ha a che fare con me? Io sono più grande di te», bofonchiò, «ho il dovere di aiutarti a tenere alla larga i brutti ceffi. Come quel tizio di poco fa» confessò.
Non trattenni un sorriso da parte a parte, mentre l'immagine di William-Il-Difensore si insinuava nella mia mente. Le sue attenzioni mi erono sempre sembrate sgradevoli e insensate, e anche quelle sue ridicole spiegazioni non furono diverse. Però, non potei fare a meno di sorridere, perché come lui, in fondo, le trovavo molto carine.
«La prossima volta che vuoi fare colazione con qualcuno, aspettami» disse, incrociando le braccia imbronciato.
«Tu dormi troppo» gli feci notare io.
«Ah, sì» riconobbe scontento.
I nostri orari erano molto differenti: io mi alzavo all'alba, lui verso le undici. Non un un'ora prima. Contando gli allenamenti, gli unici momenti in cui potevamo incontrarci erano i pasti e quei pochi minuti prima degli esercizi. La differenza nei gruppi si sentiva, forse non a livello di attività, ma di legami. Se William fosse stato nei Positivi, o io negli Effettivi, probabilmente il pomeriggio sarebbe volto.
Rimasi sorpresa dai miei stessi pensieri. In fondo William mi era simpatico. La sua genuinità era una ventata d'aria fresca in un luogo come quello.
«Dopo gli allenamenti?» proposi con sua enorme, gradita sorpresa. «Hai detto di volermi difendere dai brutti ceffi, si dà il caso che Paterson sia nel mio stesso gruppo di allenamento. Dopo la discussione di oggi non penso che sbollirà la rabbia molto presto».
Un brivido mi percorse al ricordo della sua mano che afferrava la mia spalla. Lì per lì il suo atteggiamento mi era sembrato ridicolo, ma lo aveva fatto con un impeto tale da intimorirmi. E lo avrebbe rifatto se William non fosse intervenuto.
«Ora non ti starai montando un po' la testa?» mi canzonò come suo solito. Pochi istanti dopo accettò senza doverci pensare granché. «Ci sto. Ti farò da scorta. Dove hai detto che vi allenate?»
«Palestra 5» dissi. Tentai anche di spiegargli il percorso, non era ancora stato nell'area dei Latori.
«Paterson e Testa Rossa se la dovranno vedere con me. Sai che prima che arrivassi, gli altri concorrenti, avevano fatto una bella ramanzina anche a lui? Ho visto il suo ego andare in fiamme insieme a quei suoi capelli».
«Davvero?»
William annuì con aria soddisfatta. Doveva proprio detestarlo; non che Shawn facesse poi molto per farsi amare. Potevo immaginare la sua espressione mentre gli davano contro, una corazza inscalfibile che cercava di proteggere il suo orgoglio ferito.
In questo, eravamo uguali io e lui.
La sua giornata era peggiorata grazie al mio contributo e alla lucedelle ultime rivelazioni, la soddisfazione che avevo tanto agognato, il bisognoquasi vitale di rifarmi su di lui, aveva assunto un retrogusto troppo amaro perpotermi appagare.
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