Capitolo 13- Al cambiamento
«Vince.»
Sentì una voce calda e lontana chiamarlo. Ripeteva il suo nome con fermezza, mentre parlava con un tono sottile e confortante come una carezza sul viso.
Lo chiamava come già era successo tempo prima, ma questa volta Vince non si svegliò di colpo.
Rimase in uno strano stato di dormiveglia per attimi che sembrarono eoni, mentre sogni brevi e confusi si susseguivano in un film infinito.
«Vince.» Sentì di nuovo, e questa volta aprì a fatica le palpebre, strofinandosi gli occhi per scacciare la vista annebbiata.
«Per favore, preparati. O faremo tardi»
Emeline sedeva sulla sedia vicino all'entrata della stanza d'hotel.
Portava un abito di un azzurro pallido, dalle spalline sottili, coperto da una breve mantella di pizzo damascato che le fasciava le spalle come una seconda e fine pelle.
Teneva le braccia conserte come in preghiera e osservava Vince con distacco.
«Per... per dove? Cosa?» chiese lui, passandosi una mano sulla faccia.
«Per la colazione di metà novembre» disse, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, sistemandosi i guanti di raso per poi tornare a osservare l'altro, «mettiti qualcosa di elegante, per cortesia.»
Aveva immaginato le stranezze più assurde per quella colazione, ma Vince rimase quasi deluso nell'accorgersi che si trattava di una semplice riunione, in cui tutti sedevano allo stesso tavolo di legno al limite del bosco, tutti in abiti antichi dai colori chiari.
E mentre i cittadini erano già seduti, Vince arrivò con interminabili paia di occhi puntati sulla sua persona, sedendosi nell'unico posto rimasto vuoto: alla sinistra di Emeline, davanti a Evander.
Rabbrividì al pensiero di dover avere davanti il sindaco per tutto quel tempo.
Come avrebbe potuto reggere il suo intenso sguardo sanguinante?
Emeline era capotavola, scrutava gli altri con lo stesso inespressivo sguardo, giocando di tanto in tanto con la tazza che aveva davanti.
Se qualcuno li avesse visti dall'alto avrebbe potuto pensare a loro come a delle miniature immobili, tutti con la medesima espressione, tutti vestiti con gli stessi perfetti toni pastellati.
«Per favore» Theodore si alzò, attirando l'attenzione dei presenti in un baleno, «prima di iniziare, la nostra Emeline vorrebbe dire alcune cose.»
Le lasciò la parola risedendosi, mentre lei era già in piedi, sistemandosi la mantella.
«Grazie,» disse, in un bisbiglio, «come sapete, siamo arrivati all'anno di svolta. Il ventennio sta per concludersi e tutti sappiamo cosa presto verrà compiuto per la quarta volta. Quindi, come sapete, quest'anno la colazione di metà Novembre sarà diversa dagli altri anni, grazie al siero iniziale» poi si rivolse ad Evander, «per favore, Theo, alza il coperchio» disse, indicando un grande vassoio d'argento.
Lui scattò in quella direzione, svelando una grande teiera di porcellana.
Tutti guardarono con estremo interesse le mani di Theodore alzare quella strana brocca, tenendo con delicatezza il tappo in modo tale che non cadesse.
Passò tra le sedie, versando qualcosa di somigliante al tè in ogni tazza, sempre con un bel sorriso stampato su quel volto fresco.
«Mi dispiace, è solo per i cittadini» si giustificò poi, quando arrivò fino alla tazza di Vince.
«Oh, capisco» rispose lui, tirando un sospiro di sollievo mentalmente, ringraziando di non dover bere quella roba.
Sentiva il suo profumo dolcissimo provenire dalla tazza di Emeline.
Nessuno bevette in un primo momento, poi tutti iniziarono a farlo contemporaneamente, nel silenzio più totale.
In mezzo a quel bosco erano percepibili solo i rumori del vento lontano e delle bacche che ogni tanto cadevano sopra al manto di foglie marce del terreno.
«Il profumo che senti proviene dal gelsomino»chiarì Emeline, senza che nessuno glielo avesse chiesto.
Guardò Theodore, e come se si fossero scambiati chissà quale intesa con gli occhi sorrisero, per poi far scontrare le loro tazza in un brindisi.
«A Fostemoon» disse lei.
«Al cambiamento» rispose lui, mantenendo fisso lo sguardo sugli occhi azzurri dell'altra.
«Sapevi che il gelsomino ha delle notevoli proprietà ringiovanenti, Vince?» continuò poi il sindaco, dopo aver bevuto un lungo sorso di quella bevanda.
Proprietà ringiovanenti, pensò lui.
Così alcuni pezzi del puzzle iniziarono combaciare, lentamente e incerti.
Forse in quel momento Vince comprese perché Evander fosse più simile a un ragazzo che all'uomo che mostrava di essere nei modi e nel parlare.
Che la sua pelle sembrasse sempre così perfetta e giovane, senza che nemmeno una fine venatura potesse solcarla, nonostante secondo i suoi calcoli non dovesse avere meno di quarant'anni.
Così come Emeline.
Così come tutti i cittadini.
Era quel tè, si convinse.
Quel tè è il cazzo di elisir, pensò.
«È un peccato che tu sia l'unico senza qualcosa da bere, Vince» mormorò contrariata Emeline, mentre osservava i sedimenti del suo tè agglomerarsi sul fondo.
«È un vero peccato, è una rara occasione poter bere il siero iniziale» s'intromise una cittadina che sedeva vicino a loro, «ma potrai sempre berlo tra poco, tranquillo, quando diventerai-»si fermò, zittendosi sotto il comando di Emeline, che le prese a mano con una delicatezza che sembrava nascondere qualcosa di sbagliato.
«No» disse solo, prima di lasciare la presa e tornare a bere il suo tè come se non fosse successo nulla.
Si era allontanato senza preavviso, quando tutti chiacchieravano e ridevano a quella tavola infinita.
Vince aveva pensato che Emeline lo avrebbe fermato o richiamato quando si fosse accorta che si stava dirigendo verso la boscaglia, ma non lo fece. Se ne accorse, ovviamente.
Vince sapeva che era così.
Ma non fece nulla per fermarlo.
Forse non era nei suoi interessi.
O, forse, era nei suoi interessi che si allontanasse.
Camminò tra la vegetazione per diversi minuti, fermandosi a tastare le cortecce dei faggi che riconobbe, a amano a mano che proseguiva, essere quelli del suo sogno.
Per un secondo gli sembrò di scorgere qualcosa di simile a degli occhi tra i colori ipnotici e confusi del bosco, ma continuò a camminare. Sentiva una sensazione molto simile a quella che aveva provato la notte prima mentre, sognando, arrivava proprio nel punto della foresta in cui si trovava in quel momento.
Rimase spaesato per qualche attimo, immerso nel verde dell'erba incolta e nel giallo tenue delle foglie appena scolorite, come se anche loro, in quel posto, non potessero rovinarsi.
Poi Vince guardò davanti a sè, accorgendosi di qualcosa a cui non aveva dato la minima importanza fino a quel momento: una serra. Era abbandonata, di una bellezza misteriosa e decadente.
I vetri erano rotti e sporchi di terra, la vegetazione si era sparsa dappertutto, arrampicandosi lungo le inferriate intagliate di metallo, la facciata e la porta principale.
Vince si avvicinò, incuriosito e angosciato da quel luogo surreale e familiare.
Scavalcò una trave di legno per varcare la soglia, noncurante della struttura pericolante e dei rischi che avrebbe potuto correre nell'entrare lì dentro.
Si guardò intorno: un tavolo di legno scuro giaceva, coperto di detriti, dove un tempo doveva esserci una specie di angolo per gli attrezzi da giardinaggio.
Rimase a contemplare la polvere, ammirando tutto quel disordine antico, affascinato.
Voltò il capo, incontrando vasi rotti, cocci sparsi per il pavimento di terracotta e piante secce.
Notò un'insenatura vicino a uno scaffale colmo di sacchetti squarciati, da cui si erano rovesciate manciate e manciate di semi di ogni genere, in passato.
Poi, come se quella visione avesse scatenato qualcosa dentro di lui, ricordò, di colpo:
era martedì.
Il giorno dopo sarebbero ricominciate le estrazioni.
E quella frase risuonava nella sua mente come una condanna a morte.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top