23. Ghul

«Abbiamo qualcosa di cui essere felici.»
«Non proprio.»
«Sì, invece. Siamo in un hotel per vampiri, è a prova di luce.»
True blood




Ayar, quella mattina, viene svegliata da un bussare fastidioso dietro alla sua porta. Si stropiccia gli occhi e scende dal letto, i piedi toccano il pavimento freddo e le procurano un brivido. Ha già l'impressione che quella giornata sia cominciata male, non le piace quando disturbano il suo sonno. 

Il giorno precedente è stato lungo, faticoso, pesante. Un vortice oscuro in cui si è gettata con le sue stesse mani e poi ha lavorato per sistemare i danni procurati. 

Vedere la condizione delle prigioniere l'ha turbata nel profondo, certa ormai di sapere quali siano i loschi piani di Kilian.

Neppure quella mattina c'è in lei la voglia di ribellarsi. Abulica e depressa, Ayar abbassa la maniglia e alza gli occhi sulla sua condanna, la pena da scontare per tutti i suoi peccati. Kilian le rivolge uno sguardo veloce, ha l'aria gelida e distaccata.

«Vestiti e riempi questa borsa con dei vestiti di ricambio, tu e Lance partite in missione per un paio di giorni.»

«Cosa?»

Si è appena svegliata e non riesce a metabolizzare.

Lei e Lance. Non ha incluso Edvin nel piano.

Perché?

«Non ho tempo da perdere, Ayar. Ti aspetto di là», la liquida in fretta.

Brontolando e sbadigliando, ancora scombussolata per le poche ore di sonno – perché hai bisogno di dormire, Ayar? –, riesce a vestirsi e a mettere un pigiama e dei vestiti di ricambio in una piccola valigia che Kilian le ha lasciato.

Poi si precipita di fretta in soggiorno, deve saperne di più.

«Sei in ritardo», le fa notare Lance, mostrandole il suo orologio. 

Sono le nove del mattino, come possono pretendere che funzioni a dovere e che sia puntuale? Nemmeno sapeva di avere qualcosa da fare, oltretutto.

Lance ha l'aria riposata e tranquilla. Sta fermo in piedi, le mani nelle tasche e i marchi d'inchiostro che si interrompono nel tessuto. Ha i capelli scompigliati e meno occhiaie rispetto al giorno prima, segno che su di lui il riposo ha funzionato eccome. Sta molto meglio e non sembra turbato dagli ultimi episodi.

«Edvin è un po' scosso per ciò che è successo. Non era mai morto, e senza di te non l'avremmo riportato indietro... tuttavia», Kilian li interrompe, si intromette fra loro perché avranno tempo per perdersi in conversazioni frivole e quello non è il momento adatto. «Non sarebbe morto, se tu non l'avessi ucciso, e questo mi ha fatto considerare l'idea di toglierti di mezzo, voglio essere sincero.»

Ayar sente la paura strisciarle attorno, tentare di azzannarla solo per spaventarla, senza mai mordere del tutto.

«Ma Edvin non me lo perdonerebbe, perciò non posso farlo. Posso tenerti lontana per qualche giorno e sperare che al tuo ritorno qualcosa sia cambiato. Lance mi riferirà se farai danni durante la vostra missione, e ti manderò in cella senza darti nemmeno il tempo di realizzarlo se non sarai cambiata al tuo ritorno. Tutti qui lottano con le loro furie omicide, ciò non ti autorizza a uccidere uno di noi.»

Ayar vorrebbe solo protestare. Ribattere, dirgli com'è che stanno davvero le cose. Lui non si fa scrupoli a ucciderla, e le ha fatto di peggio. E perfino Edvin l'ha uccisa, una volta, quindi adesso sono pari.

Però sa che se solo provasse a spiegarsi lui finirebbe per sminuire le sue opinioni, raderle al suolo, ormai tramutate in insignificanti.

Allora ingoia il groppo che ha in gola e annuisce. «Cercherò di non fare casino.»



Vuole che siate liberi, Ayar.

Ti lascia andare per un po', ti dà l'illusione di poter respirare.

Non crederci.

E Ayar ci crede. Non avere Edvin vicino è difficile e la ferisce, vorrebbe condividere quella gita in superficie con lui, non con Lance che si dimostra un compagno d'avventura poco loquace, non ha proferito parola per tutto il loro tragitto a piedi.

Si fermano all'improvviso in una strada abbastanza trafficata. Ayar, agitata nel suo cappotto scuro, si guarda intorno con le mani in tasca e l'aria curiosa. «Che cosa stiamo facendo qui?», chiede dopo un po', stanca di non sapere neppure quali sono i loro programmi nello specifico. 

Si sta controllando dal fare troppe domande perché ha sentito bene le parole di Kilian, e si sforzerà sul serio di non far adirare Lance e di averlo dalla sua parte. In fondo non è una persona cattiva, e la tratta meglio di Edvin quando era appena arrivata. Non sarà difficile, tenta di ripetersi.

«Aspettiamo un taxi», le risponde Lance, chiaro.

Trascorrono una manciata di minuti quando finalmente l'automobile si ferma di fronte a loro e suona con il clacson. Ayar sobbalza, tirata fuori dalle sue paranoie e dai pensieri che le affollano già la mente. Lance prende posto davanti, mentre lei si sistema dietro, subito dopo aver consegnato la sua piccola valigia al taxista che infila la sua e quella di Lance nel bagagliaio.

Solo i mezzi di trasporto pubblici hanno più di un posto, oltre a quello del conducente. 

«Il luogo in cui dobbiamo andare-», comincia Lance appena l'uomo si siede al suo fianco, ma viene interrotto da quest'ultimo.

«So dove devo portarvi, ho già parlato con il signor Evenson», dice, e Ayar sposta gli occhi sullo specchietto di fronte ai due e può vedere il suo sguardo tranquillo e piacevole, rilassato; ciò basta a calmare il suo animo, si fida della calma che trasmette.

«Evenson?», chiede comunque, confusa.

«Kilian, Ayar. Ha parlato con Kilian», le risponde Lance con un sospiro, già esasperato dall'inutilità delle sue domande. 

«Non conoscevo il suo cognome», mormora lei, spostando gli occhi fuori dal finestrino. Il mondo attorno a loro si muove, sfreccia. I passanti sono macchie anonime, non c'è alcuna particolarità capace di contraddistinguerli, sembrano tutti uguali, tutti fotocopie di altre fotocopie.

Ayar decide di rimanere in silenzio per il resto del viaggio. Non ha voglia di fare conversazione, si sente affranta, triste, e ogni chilometro percorso l'allontana da Edvin e la priva dell'ebbrezza che normalmente proverebbe, consapevole di poter trascorrere del tempo fuori dalla gabbia sotterranea.

«Io ho fame», annuncia dopo alcune ore di viaggio.

Lance e il taxista hanno fatto amicizia, ormai. Chiacchierano del più e del meno, sembrano andare d'accordo. Ayar li ha ascoltati per trovarsi qualcosa da fare, ma non con costanza. Ha captato, tuttavia, molte informazioni. L'uomo che guida si chiama Jackson e svolge quel lavoro da ormai venti anni. È infetto anche lui, eppure ammette senza alcun problema di essere dalla parte del sistema, cosa che turba un po' gli animi. Come può essere dalla parte di qualcuno che desidera la loro estinzione? Ottengono presto una risposta, è lui stesso a fornirla: il sistema si prende cura dei cittadini infetti che si comportano bene, che controllano il virus, e lui è un lavoratore modello, tanto che viene pagato in sacche di sangue e non in oro – converte il denaro ricevuto guidando, lo scambia.

Lance, invece, ha parlato per un po' del suo lavoro, e Ayar ha letto angoscia e nostalgia nel tono della voce utilizzato. Il cuore le si è stretto in una morsa, si è abbracciata da solo per darsi conforto. C'è dolore che proviene dalla gola quando parla di come, con l'aumento degli infetti, non sia più utile a nessuno un becchino – un necroforo, dice lui, pare che quel nome gli piaccia di più. C'è sofferenza nel non poter più seppellire i corpi e porgere loro gli ultimi saluti. C'è tristezza nel vedere che la morte non è più tanto semplice da ottenere, e anzi, è un'amica sempre più lontana.

Il viaggio prosegue senza intoppi, quindi, finché lei non protesta dicendo di avere fame. E tutti in quell'auto sanno che non ha voglia di un hamburger e qualche patatina fritta.

«Dovrai resistere ancora un po', siamo quasi arrivati», le dice Lance, e lei gonfia le guance e reprime la noia. È difficile tacere, ma deve.

Si è quasi addormentata quando sente l'auto fermarsi e Lance e il taxista imprecare a bassa voce. Apre gli occhi, tirandosi su, e un brivido le percorre la spina dorsale quando vede che due guardie li hanno fermati.

Sono due uomini con l'uniforme blu, uno dei due ha svariate medaglie appiccicate alla sua divisa e qualche ruga che gli segna il volto. Sono umani, hanno un odore buono e invitante, tanto che è difficile tenere a bada i canini. L'altro è un ragazzo più giovane e ha gli occhi chiari, di un verde intenso e brillante. Il colore delle foglie appena nate sugli alberi dopo un gelido inverno, niente di preoccupante.

Ayar stringe i pugni dentro le maniche del suo cappotto e si sforza di respirare e pensare ad altro, non deve farsi venire fame. Ha perso qualche frammento di conversazione quando torna lucida.

«Siamo autorizzati a viaggiare in due. È una missione del sistema, dobbiamo recuperare degli oggetti potenzialmente pericolosi per la società», sta dicendo Lance, mostrando loro dei fogli – da dove li ha tirati fuori? Come fa ad avere un piano già ideato e delle scuse credibili e accompagnate da prove?

Kilian ha davvero pensato a tutto.

Non aveva proprio un cazzo da fare, quella notte. 

La guardia più adulta fa scorrere gli occhi sulle carte e quando si rende conto che non c'è alcuna sbavatura, niente inganni e false firme, decide di lasciarli andare.

Lance li saluta con educazione ed eleganza, Ayar può vedere il taxista colare sudore dalla fronte per l'agitazione, e lei rivolge un cenno del capo ai due, che tornano nel loro veicolo fermo al bordo della strada.

«Ve lo avevo detto che dovevamo fermarci a mangiare qualcosa», commenta, distratta, tornando ad appoggiare la schiena contro il sedile e a chiudere gli occhi, sperando di prendere sonno e riposare un po'.



Quando si sveglia, Ayar scopre di essere arrivata a destinazione e sospira per il sollievo. È stato un viaggio tedioso, lungo e stancante. L'auto era scomoda e adesso si sente ogni parte del corpo a pezzi. Inoltre, il sole ormai è quasi calato oltre l'orizzonte, si è nascosto nel mare e tinge il cielo delle ultime sfumature amaranto. Ha dormito davvero parecchie ore – e per tutto il giorno non ha fatto nemmeno uno spuntino. Il suo stomaco brontola per la fame.

«Cazzo, ho le ossa a pezzi», si stiracchia con poca eleganza, mentre Jackson toglie le loro valigie dal bagagliaio.

Lance allunga delle banconote all'uomo, ma questo scuote il capo e dice di essere già stato retribuito da Kilian per scortarli fino a lì. Li saluta, dunque, ma non prima di dargli appuntamento nello stesso posto, la sera seguente, per accompagnarli di nuovo a casa.

«Ora puoi riposarti per qualche ora, è meglio uscire quando sarà del tutto buio», dice Lance, che si avvia in direzione del piccolo motel all'angolo della strada. Intorno c'è un piccolo giardino frammentato da alberi e da una panchina in legno rovinato. La struttura non ha un piano supplementare e ha una forma rettangolare. Sulla sinistra ci sono diverse porte in legno tinte di un rosso scarlatto, i numeri dorati si susseguono dall'uno al dieci.

L'ingresso è composto da vetrate che riflettono la luce con uno strano meccanismo per entrare, le porte scorrevoli si aprono da sole e possono avanzare fino a trovare la receptionist davanti a loro. È una donna con gli occhiali dalle lenti spesse che le ingigantiscono gli occhi e li rendono simili a quelli di un cerbiatto curioso. I capelli legati in una coda laterale che le scende sulla spalla di sinistra, la targhetta attaccata alla sua camicia bianca recita "Sally".

«Salve», li saluta, «siete gli unici clienti che aspetto oggi. Il vostro conto è già stato pagato», si volta, dietro di sé è pieno di chiavi appese, i posti in cui mancano sono davvero pochi, perciò il motel dev'essere quasi vuoto. «Mi è stata chiesta la camera doppia. Sapete meglio di me che è proibito, perciò spero manterrete il segreto, non deve circolare la voce che ne abbiamo una, la lasciamo solo ai clienti più fedeli, quelli di cui possiamo fidarci. Normalmente, infatti, vi avrei assegnato un'altra stanza, ma il signor Evenson ha insistito, perciò...», consegna le chiavi nelle mani di Lance, sorride con una finta cordialità – ha tutta l'aria di chi spera che si levino presto di torno per poter tornare a fissare il vuoto senza fare niente. «Niente colazione e servizio in camera, questo è un motel, non un hotel. C'è la macchina del ghiaccio fuori, se ne avete bisogno, e potete usufruire della piccola piscina sul retro a tutte le ore, ma cercate di non sporcare.»

Ayar non riesce subito a capire il perché di quel discorso, finché non inizia a connettere mentre raggiungono la stanza contrassegnata dal numero dieci. 

Kilian ha insistito per farli dormire nella stessa stanza.

Perché?

Pensandoci su, tuttavia, le viene in mente solo un'opzione. Con Lance in camera non potrà scappare, lui se ne accorgerebbe. Kilian vuole tenerla in gabbia anche quando non sembra esserlo. L'ha esiliata da quella che le ha proposto al principio come la sua nuova casa, le ha dato una certezza e poi l'ha distrutta.

Kilian gioca le sue partite senza seguire schemi, lascia che sia il destino a scegliere, gli applausi che rimbombano nel vuoto e che sente solo lui, convinto di fare sempre la cosa giusta e di ricevere delle approvazioni da parte del sistema... in realtà è solo un illuso, Ayar ci crede. 

Scuote il capo. Deve rimuoverlo dai suoi pensieri o condizionerà tutte le sue scelte.

Lance apre la porta girando la chiave. È una camera piccola, c'è un letto ampio al centro della stanza, ha un piumone rosso sangue che lo ricopre in contrasto con i cuscini bianchi. Ai lati ci sono due comodini in legno e delle lampade. Una finestra dà sul retro del motel, da lì possono vedere la piscina a cui faceva accenno la receptionist, circondata da un giardino un po' trascurato.

Ayar non ha mai fatto un bagno in piscina, né al mare, perciò l'idea di provarla l'alletta.

Lance appoggia i bagagli ai piedi del letto mentre Ayar continua a guardarsi intorno. Raggiunge la piccola porta a sinistra della stanza, la apre e scopre un bagno, è uno spazio quadrato e claustrofobico, c'è solo il necessario e uno specchio ellissoide sul lavandino.

Nessuna forma di svago, oltre alla piscina all'esterno e al giardino. È tutto minimalista e ristretto, il giusto necessario.

Niente libri, niente quadri, niente arte. Le sembra di soffocare in quell'assenza di bellezza. È una struttura intaccata dal sistema, se i tempi fossero diversi forse non apparirebbe tanto... noiosa.

«E ora che facciamo?»

Respirare diventa difficile.

Lei non lo conosce affatto. Non è abituata alla sua presenza e la mette a disagio l'idea di stare lì dentro con Lance. È in imbarazzo, ed è diverso dal vivere con Edvin e Kilian perché non è mai stata costretta a intrufolarsi nel loro letto.

L'idea di dormire con Lance le mette i brividi. Ha paura di morire nel sonno, prosciugata dagli incubi, martirizzata dal terrore.

Lance apre la sua valigia, poi porge ad Ayar una sacca di sangue. «Avevi fame», dice, e torna a rovistare con le mani fra le poche cose che ha portato con sé, tanto che c'è spazio per altri inconfondibili litri di sangue.

In busta.

Asettico, impersonale, con il sentore grigio e freddo degli ospedali. Non le scalda le mani, non le fa scendere giù i canini per la fame cieca.

Ayar usa i denti per aprirla e premerla con le mani, il getto rosso le riempie la bocca e lo manda giù, ma è come bere dell'acqua sporca. Non le piace, sembra stantio, marcio. Lo sputa sulla moquette e si sporca le mani e il mento, un rivolo vermiglio le percorre il collo in verticale fino a inzupparle la felpa. «Ma fa schifo!», protesta, non ricordava fosse così orribile da bere. Quando viveva solo con il sangue in busta non lo trovava per niente sgradevole, anche se al principio aveva fatto un po' di fatica ad abituarcisi, troppo abituata a lacerare gole umane e strappare cuori per divorarli un morso alla volta.

Poi ha provato quello di Edvin, e da allora non ha avuto altre fonti di nutrimento, e ha riscoperto il sapore dell'icore caldo che inghiotte ogni traccia di rimorso e senso di colpa, lascia solo la fame crudele e orba.

«Qualcuno l'ha donato per te e hai anche il coraggio di lamentarti?», dice Lance, che non ha alcun problema a mandarlo giù, né usa la furia cieca che Ayar si aspetta. Lo ingoia lentamente, lo assapora – forse lo trova buono per davvero.

«Io questa roba non la bevo, non so come possa sembrarti buona. Sa di vecchio, sa di morto. Quando dissangui un corpo che è andato a male da un pezzo, hai presente? Beh, in realtà non so se è davvero così, li ho sempre prosciugati vivi. Comunque... sono un'esperta di sangue, e questo è imbevibile.»

«Sì, beh, proviene da dei cadaveri, è normale», dice Lance con indifferenza.

Ayar spalanca la bocca di fragola, il mento ancora percorso da una linea scarlatta. «No, io questa robaccia non la bevo. Tu puoi fare quello che vuoi e scegliere una dieta tanto disgustosa, ma a me danne un po' del tuo, ho fame.»




Ayar ha dovuto pregare Lance a lungo prima di tirargli fuori un "sì". Alla fine ha accettato di darle un po' del suo sangue, e Ayar si è premurata di non prosciugarlo troppo e alla fine si è passata la lingua sul labbro inferiore con un sorriso divertito.

«Ora sì che mi sento bene!», si allontana dal suo collo, felice. «Però davvero, Lance, dovresti rivalutare la tua dieta.»

«Non tutti i vampiri sono uguali. Per me il sangue dei cadaveri va più che bene, non lo sento diverso da quello di una persona viva. Onestamente lo preferisco.»

Ayar corruga le sopracciglia e si rende conto che lui potrebbe fornirle alcune delle risposte che cerca con disperazione, in fondo si è dimostrato piuttosto propenso a rivelarle dettagli sulla loro natura. «In che senso non siamo uguali? Ci nutriamo tutti di sangue, alla fine.»

«Il virus non è uno solo, sono più virus. Non so dirti quanti, ma sono parecchi.»

Ayar inclina il capo, pensierosa. «E allora che cosa sei tu?»

«Ci sono tantissimi vecchi miti e leggende sui vampiri. Ne esistono di ogni tipologia, e hanno molti nomi, tuttavia non sono mai riuscito a identificarmi in nessuno di essi. Penso di essere un po' un ghul, un po' un brucolaco. La rigenerazione che dà il mio sangue, però, non so da dove sia saltata fuori.»

Ayar non ha mai sentito le parole pronunciate da Lance, ma tenta di memorizzare comunque quelle veloci spiegazioni. «Quindi per te va bene il sangue dei cadaveri, mentre per me no, quindi io sono un altro tipo di vampiro.»

«Il sangue dei cadaveri dei bambini, dei neonati o delle donne in gravidanza, per la precisione, ma ho recentemente scoperto che anche il tuo sangue mi piace, anche se continuo a preferire quello dei morti.»

«E io invece che cosa sono?», Ayar spera che lui abbia una risposta a tutto.

«Beh, Kilian ti conosce meglio di me e crede che tu sia un'Estia.»

«In cosa sono diversa da te?», chiede Ayar, che non ha mai sentito quel termine e non comprende come possa calzarle addosso.

«Sebbene coloro che appartengono a questa specie preferiscano il sangue degli uomini, in realtà possono bere quello di chiunque, quando sono affamate. Vivono fra gli umani e sono alla ricerca costante di una soluzione per tornare normali, si sentono imprigionate nella loro maledizione e tentano di avere un'esistenza tranquilla, rinnegando ciò che sono, vogliono scappare dalla loro natura. Estia era una Dea, una figura appartenente alla mitologia greca, nello specifico, e in realtà studiandola ci sono molte cose che non tornano, non credo che sia come dice Kilian. Non credo che siamo esatte riproduzioni di vecchie figure esistenti, più che altro. C'è di peggio sotto, Ayar. Non è questo il problema, la nostra natura non è così importante. Mi ci sono concentrato per anni, ho imparato e letto tanto, ma niente mi ha fatto mai sentire al mio posto. Posso trovare delle categorie in cui infiltrarmi, ma non mi appartengono mai in modo assoluto.»

Quelle spiegazioni perdono il loro valore alla fine, per Ayar.

Forse Lance ha ragione, è alla perenne scoperta di se stessa e del suo passato e non si rende conto delle ragnature attorno a lei, le trame tessute dal destino – o da Kilian?

«No, no, frena... non ha senso.»

Lo mormora con incertezza, si blocca un istante prima di ascoltare le voci che rivelano una verità che Ayar non vuole davvero conoscere.

Fa domande assurde e distanti dalla verità perché è un modo per convincersi d'imparare qualcosa, senza mai sprofondare nell'amara realtà dei fatti.

Se solo sapesse, il mondo attorno a lei finirebbe per sgretolarsi.

«Come non ha senso? Sì che lo ha. È così palese intorno a noi...»

Intorno a loro Ayar non vede niente. Solo il disagio e la confusione che sente dentro.

«Perché io non lo vedo, allora?», commenta con cinismo, rinnegando i suoi stessi pensieri, sopprimendoli con tutte le forze che ha.

«Perché non lo vuoi vedere.»



Ayar e Lance rimangono a casa finché non cala il buio. Aspettano la notte di proposito, il sole affoga nel mare e si spegne, muore sfrigolando in un abbraccio di cenere.

Ayar non ha ancora chiara la loro missione mentre si addentrano nel bosco dal lato opposto della strada, rispetto al motel e alla sua grossa insegna scarlatta. Camminano immersi nel silenzio per un po', si beano della natura viva e rigogliosa attorno a loro, uno spettacolo che non è spesso riservato a chi vive sottoterra. Lance le ripete che non dovranno camminare molto mentre si rigira una mappa fra le mani. È stata disegnata a penna, non è stampata, e ha l'aria di essere piuttosto abbozzata, non di certo un'opera finita e precisa. In ogni caso, le speranze pessimistiche di Ayar si rivelano vane, non è difficile trovare il luogo contrassegnato da un cerchio.

«Ci siamo», dice Lance.

Ayar si guarda intorno. In fondo al bosco c'è una piccola casa costruita con il legno. Non è sgradevole e l'edera che si abbarbica sulla facciata principale la tinge di un rigoglioso verde, le foglie brillano come smeraldi, intaccate da una sottile pioggia fredda – ma non troppo fastidiosa. Ad Ayar piace sentirla colpirle dolce il viso, una goccia si appoggia proprio sulla punta del suo naso e la raccoglie con la punta dell'indice, la guarda con meraviglia. Sembra una piccola lacrima.

Affretta il passo per seguire Lance, che non si è fermato né si è premurato di spronarla a camminare più veloce. Alcuni rami secchi scricchiolano sotto alle suole delle scarpe di Ayar, e lui si volta con un'espressione truce nella sua direzione. «Fa' piano, potrebbe esserci qualcuno.»

Ad Ayar brontola di nuovo lo stomaco. L'idea di uccidere è allettante e maliziosa, le provoca un gorgoglio basso e una vaga eccitazione che si propaga in ogni vena, pulsa in tutte le arterie. «Ci provo.»

Raggiungono la porta, questa volta con più calma e con meno rumori molesti.

Ayar si sorprende quando nota che è socchiusa e non avranno bisogno di suonare il campanello – né di sfondarla, ipotesi più probabile. È certa che non siano lì per una felice chiacchierata con uno o più sconosciuti.

Dall'interno della piccola abitazione non provengono rumori. Ayar si sforza di ascoltare oltre il silenzio e quando Lance apre la porta, che cigola appena, inizia a sentire un lieve respiro diaframmatico. Qualcuno che dorme.

«Chiunque sia qui dentro sta dormendo», avvisa Lance con un sussurro.

Lei annuisce e Lance si guarda intorno nel buio, poi recupera una torcia per accenderla.

«Menomale che non dovevamo farci scoprire», sottolinea Ayar.

La luce ha centrato in maniera quasi perfetta il volto di un uomo che dorme stravaccato su una montagna di paglia e una coperta sdrucita. Fa una smorfia appena Lance sposta il lume verso sinistra, illuminando il corridoio stretto che conduce altrove, ma Ayar sa che è già troppo tardi, sente com'è cambiato il respiro dell'estraneo di fronte a sé e vede i suoi occhi rosso sangue brillare torbidi nel buio.

«Lo uccido?», chiede quindi, lanciando un'occhiata a Lance.

«Occupatene tu se proprio ci tieni, io cerco il quadro. Mira alla testa. Staccagliela, se ci riesci», acconsente l'altro, che si dirige in corridoio e la lascia da sola dopo averle dato quelle frettolose raccomandazioni.

La situazione non è per niente rassicurante.

Ayar respira.

Ha fatto di peggio.

Corre con le dita sulla gamba, dove è certa di aver allacciato il suo fidato coltello. Non sa con che cosa ha a che fare, perciò è meglio non affidarsi solo all'uso fortuito dei canini.

«Che cosa diavolo sei, tu?», chiede con sincera curiosità mentre si avvicina al corpo che ha cominciato a tirarsi su, e lo fa lentamente, con le ossa che scricchiolano con suoni orrendi, la pelle raggrinzita che si tira, si distende. 

Il cranio è spoglio, sormontato da vene violacee che si ramificano in direzioni disparate. Solleva le mani e ha lunghi artigli gialli, l'epidermide sporca e nuda, una carne sottile, spolpata fino alle vertebre, tanto che la sua spina dorsale è deforme e incurvata in avanti. La testa che pende oltre le spalle sembra essere inconsistente e flaccida, quasi amorfa.

Ayar indietreggia quando sente l'odore dolciastro e fetido della sua pelle. Sa di rifiuti, di vermi che hanno divorato tutto quello che c'era da mangiare, larve che si sono cibate dei rimasugli del suo corpo e hanno ingoiato i liquidi corporei di quello che forse – forse – un tempo era umano. E ora è solo un mostro, e soffre.

Soffre tanto quanto lei, e Ayar lo sente.

Gli occhi le si riempiono di lacrime, mentre le guance della creatura informe vengono tracciate da linee rosso sangue. Piange anche lui, intrappolato in un corpo orrendo, mostruoso, sembra fuoriuscito chissà da quale antro oscuro, vittima di perversi esperimenti.

La creatura apre la bocca, sembra voler dire qualcosa, ma i suoni si spengono in rantoli e gorgoglii, poi si accartoccia su se stessa e un fiotto vermiglio gli vomita fuori dal buco nero, affoga nel suo stesso cruore.

Perfino la sua anima sta sanguinando, tanto che dai pori della pelle fuoriescono gocce amaranto.

«U-cci-di-mi», strilla, i versi interrotti da sibili grotteschi, quasi la lingua biforcuta di un serpente che tenta di comunicare.

Eppure Ayar riesce a comprendere le sue parole.

Le mani scheletriche le raggiungono la caviglia, l'afferrano e stringono con una forza che la graffia e che è al tempo stesso debole.

Appoggia le dita sulla sua testa in una carezza gentile, l'altro braccio si fionda senza alcuna emozione a recidergli la pelle della nuca, tagliarla via mentre il sangue sgorga in ogni direzione e ha un colore torbido e denso, tendente al nero e al marcio. Affonda con più forza la lama nella carne, sente le ossa fragili sgretolarsi mentre la pelle si lacera con estrema facilità. Con un ultimo scatto riesce a mozzargli la testa, che le rimane premuta fra i polpastrelli dell'altra.

La solleva davanti al viso, la guarda con orrore. Ora gli occhi sono spenti, lo sguardo è vitreo. Sono umani, ma vecchi, mollicci, flaccidi. Disgustosi, quasi si stanno liquefacendo sulle guance, scivolando fuori dai bulbi fra le lacrime di sangue. È un cranio rivestito da una sottile membrana di pelle tirata e coriacea, solcato da vene dello stesso colore del vino.

Abbandona la sua testa, rotola al suolo e sparge il suo lerciume sul legno intaccato dalla muffa.

E arrivano le sue lacrime. Trasparenti, salate, umide.

Piange e si sente in colpa, divorata dai suoi stessi peccati. Si ripete che in fondo la creatura voleva che lei lo uccidesse, ma è proprio sapere cosa ha passato prima di arrivare a tanto a sconvolgerla e farle lacrimare una stilla di rimpianti. Vorrebbe sapere chi lo ha ridotto in quel modo e perché sono andati lì.

Kilian.

La paura paralizza il suo corpo. Potrebbe fare questo a qualcuno? Potrebbe ridurre un essere umano in quello stato?

Pensa alle prigioniere. Non ha mai voluto salvare il mondo, né desidera la gloria di un'impresa tanto ardua. Ha solo piani sadici in mente e più scava in quella storia, più il punto d'arrivo la terrorizza.

«Stai ancora sbagliando strada, Ayar.»

I suoi occhi si spostano su Lance. Ha un quadro fra le braccia e non le lascia vedere l'immagine, può vedere solo la tela e il legno.

«Che vuoi dire?»

«Sei stata brava, dubitavo fossi davvero capace di ucciderlo», Lance cammina in direzione della porta da cui sono entrati, la scosta per aprirla. «Spero che la tizia del motel stia dormendo, le verrebbe un colpo se ti vedesse entrare in casa ricoperta di sangue.» 


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