22. La morte se n'è andata

"Ho guardato la morte e lo so davvero. E come è meglio morire nel periodo felice della giovinezza non ancora disillusa, andarsene in un bagliore di luce, che avere il corpo consunto e vecchio e le illusioni disperse."
Ernest Hemingway



L'essere umano non è pronto a rinascere, non è stato creato per durare in eterno.

Kilian non accetterà mai questa sporca legge e pensa a quanto sia crudele imporre la vita eterna a una creatura indifesa come quella che ha fra le braccia, un Edvin tremante e spaventato, col petto scosso dai tremori e il gorgoglio di un'agonia muta represso in fondo alla gola; piange fra il silenzio e i singhiozzi, gli dice che vuole tornare indietro e che quello non è il suo posto.

La morte è una tranquillità tanto confortevole che chi vi precipita non ha alcun desiderio di tornare indietro. Abbiamo sempre guardato la fine dalla prospettiva sbagliata. È la vita quella che dovrebbe spaventarci davvero, e Edvin lo comprende solo quando torna dal limbo per la prima volta.

Kilian gli accarezza il viso con dolcezza, tenta di calmarlo, di infondergli l'amore che una creatura appena risorta dovrebbe ricevere per scoprire di nuovo la bellezza brillante del mondo.

«Ora sei al sicuro, non devi più avere paura», lo rassicura Kilian con un tono ebbro d'amore. C'è miele nei suoi occhi freddi, c'è una pace difficile da riscontrare fra le ombre che ingrigiscono di fumo e nebbia il suo sguardo.

Edvin non riesce a pronunciare alcuna parola. È distrutto dalla certezza di aver visto la morte in faccia. Ha sentito la falce del mietitore strappargli la pelle – quella non era la lama di Ayar, era un coltello proveniente dagli inferi stessi. È precipitato nel vuoto, ha sentito la sua anima disintegrarsi in infiniti cocci, frammenti che si sono fusi con l'universo e hanno trovato il loro posto e che poi sono stati riacciuffati con cattiveria, perdendo polvere e pezzi, lasciandolo incompleto.

«Devi perdonarmi. Pensavo che ti avrebbe fatto bene avere qualcun altro oltre a me, credevo avessi bisogno di una creatura simile a te per stare bene, ma ho sbagliato e ti ho affiancato una psicopatica», mormora Kilian, nelle sue parole c'è angoscia e pentimento. Sta davvero rivalutando le sue decisioni perfette e sta mettendo in discussione tutto il suo piano solo per l'amore che prova per lui – è un sentimento che va oltre alla logica e al raziocinio. Non è spiegabile. La natura del loro rapporto è antica e dolce, conserva ancora la bellezza di chi ama e si prende cura dell'altro, fascia le sue ferite e l'aiuta a non ricascare nei tranelli della mente. «Mi libererò di Ayar. Sta solo facendo danni da quando è qui. Avevi ragione, dovevo fidarmi di te. Avevi detto che era ingestibile e inadatta al suo ruolo.»

Edvin, però, anche nella follia e fra il terrore ricorda che non può permettergli di fare del male ad Ayar. Lei non ha nessuna colpa.

Kilian sta cercando di addolcirlo, ma quei giorni senza di lui hanno aperto gli occhi ciechi di Edvin. Sta solo facendo ciò che è più conveniente: sbarazzarsi di Ayar e farla passare per una buona idea.

«No», riesce a rispondere, anche se i demoni non smettono di urlare e quei suoni gli destabilizzano i pensieri. «Non voglio che lei vada via. Non le farò fare altri errori.»

Anche appena tornato dal regno dei morti Edvin sa come comportarsi con Kilian.

Mentire e fingere. Non può fare nient'altro. Uccidere ogni forma di ribellione nei suoi confronti, almeno all'apparenza. Dentro è indecifrabile, è incomprensibile all'occhio umano quanto in realtà il suo io si discosti da ciò che fa il corpo.

«Penso che dovreste separarvi per un po', penso che dovremmo passare del tempo insieme. Io e te. Parlare, so che non è facile quello che stai passando, vorrei solo che tu ti aprissi con me.»

Edvin conosce quella recita, tanto che quasi sorride e manda al diavolo l'impassibilità. Quasi, si ferma un istante prima.

«D'accordo», ciò che dice va contro a ciò che vorrebbe dire davvero. «Però non farle del male. E non mandarla via. Ho bisogno di lei.»

Quelle parole feriscono Kilian. Gli fanno male, perché non è più abbastanza. Edvin ha bisogno di Ayar, non di lui.

Lui che l'ha reso speciale, che l'ha amato come ha amato ogni suo esperimento, ogni opera d'arte. E ora sfugge, si allontana, e non vuole lasciarlo andare.

È una parte di sé.

«Resterò qui solo se rimane anche lei, Kilian. Non voglio perderla.»

Ha bisogno di rettificarlo, anche se tempo prima non si sarebbe mai permesso di far valere così tanto i suoi sentimenti. Ha sempre accettato ogni scelta, si è lasciato scivolare addosso le morti degli altri – è abituato al sangue da troppo tempo, ha perso il conto degli scheletri che tornano ogni notte a graffiare le ante dell'armadio e farle cigolare stridule nel silenzio di un nottivago insonne.

«D'accordo», Kilian sospira, «la manderò con Lance a recuperare un quadro che voglio troppo nella mia collezione. Mi hanno telefonato chiedendomi se volessi dargli un'occhiata. Saranno via per qualche giorno, tu avrai il tempo di riprenderti e capire che cosa vuoi farne del vostro rapporto. Ti farà bene averla lontana per qualche giorno.»

«Solo per qualche giorno», ci tiene a sottolineare Edvin.

«Solo per qualche giorno», annuisce Kilian.

Kilian lascia Edvin da solo perché insiste, dice di voler fare un bagno e togliersi tutto quel sangue raddensato di dosso. Gli raccomanda di raggiungerlo nel suo studio una volta finito, mentre lui si occupa di avvertire Lance e Ayar della loro missione.

Edvin si lascia scivolare l'acqua bollente sul corpo. Si è rannicchiato in un angolo sul pavimento, spaventato e tremolante – sebbene non faccia freddo lì, il vapore comincia a riempire tutto di un fumo innocuo.

Il dolore che sente è difficile da spiegare. È come se infiniti aghi gli trapassassero il corpo da una parte all'altra, è come venire maciullati, gettati nel tritarifiuti e sputati in poltiglia.

Ha bisogno di farlo smettere. Si copre le orecchie, ma non basta, e allora affonda i palmi contro i padiglioni e spera che finiscano di urlargli nella testa, striduli rimbombi nella scatola cranica. "Lasciatemi in pace", vorrebbe urlare, ma loro sibilano in una lingua sconosciuta e antica, incomprensibile. Sembrano codici, robot, meccanismi frammentari. Un suono tellurico proveniente dagli abissi, dagli inferi.

Edvin si precipita fuori dalla doccia. Si strofina un asciugamano contro i capelli di fretta, si veste con i primi indumenti che trova nell'armadio. Il suo letto è inzuppato di sangue, come buona parte del pavimento, e l'idea di sporcarsi ancora di rosso non gli piace affatto. Intorno a lui tutto è caotico e disordinato. Il rosso tinge tutto, perfino il lampadario appeso al soffitto, e rende quella stanza il set perfetto per un film dell'orrore.

Edvin quasi barcolla fino al comodino, apre il primo cassetto. È pieno di coltelli, bisturi e lame, accendini e candele non ancora del tutto consumate. Anche lì dentro gli oggetti sono ordinati alla rinfusa, un po' lo specchio del suo disordine interiore, eppure quando vede le lame ci vede anche la salvezza. Un respiro profondo in un mondo che dà l'affanno. Un sorriso rilassato su un volto sempre turbato dall'agonia.

Vorrebbe che durasse per sempre l'attimo in cui si incide in modo superficiale la pelle dei polsi e vede il sangue scorrere. Sta attento a non inzuppare i vestiti puliti e lo lascia colare lungo il braccio, amaranto che gli tinge il bianco della pelle sormontata da cicatrici e disegni. C'è qualcosa di magico e incantevole nel dolore, ha la dolcezza di un carillon dalle note morbide. C'è qualcosa di speciale in chi se lo procura da solo, si sente all'istante più forte, più carico, più capace di controllarsi. È come spalmare il miele sui tagli che sono stati affogati nel sale e nel whisky. Caramello che si scioglie in bocca dopo un sorso di veleno. Disegna costellazioni di dolore sulle braccia che ne hanno viste tante – forse troppe. E spesso si è sentito difettoso nel mancare così di rispetto al suo corpo, alla vita preziosa che gli è stata concessa, ma non c'è niente che possa compensare la sofferenza fisica che zittisce ogni cosa.

È di nuovo da solo con il dolore e i tagli che pulsano e tirano, la pelle che urla e stride per rimarginarsi. E ha talmente tanta paura che c'è pace nel modo in cui si taglia la pelle – ed è proprio quello che gli piace: l'idea di incidere, distruggere, scavare sotto l'epidermide per guardarsi le vene e tranciarle come se avesse di fronte le erbe alte e le sterpaglie di un giardino da curare. Con lame e cesoie si pugnala sui polsi e il sangue esplode in fiumi che gli tingono di nuovo la cute fino ai gomiti, distruggono tutto il lavoro che ha fatto per lavarsi e ripulirsi dal rosso. 

È un ciclo continuo, i suoi vestiti si sporcheranno sempre di sangue, le sue braccia non cancelleranno mai l'alone disperato delle cicatrici urlanti. E nella gola ci sarà per sempre il sapore rancido e amaro del dolore, che sa un po' di veleno e un po' di buonumore.

E infatti Edvin sorride appena, respira nella salvezza del male che gli incendia il corpo, porto sicuro in cui approdare quando il mondo comincia a perdere colore. 

Le voci smettono di strillargli nelle orecchie e trafiggergli l'udito, la testa è più leggera e nessun rumore turba il ticchettio grigio dell'orologio. 

Il peggio è passato, anche la morte se n'è andata e l'ha lasciato solo. 

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