21. Effetto Lucifero

"Paradossalmente è stato Dio a creare l'inferno come luogo dove tenere il male."
Philip Zimbardo 

«Ora puoi tornare indietro.»

La voce di Kilian la riporta brusca alla sua strana e grottesca esistenza fra quelle mura piene d'arte.

Ayar apre gli occhi piano, poi si ricorda di Edvin e tira su il busto, si alza in piedi senza aspettare il permesso di Kilian.

Comincia a guardarsi intorno. L'ipnologo è di fronte a lei, uguale a come l'ha lasciato. Lance è davanti al letto, le mani sono sospese a pochi millimetri dalla pelle lacerata di Edvin, che ha l'espressione sofferente e soffoca le urla mentre la sua epidermide si rimargina lenta, ogni frammento di lui torna a posto.

Ayar sorride nel vederlo vivo e supera Kilian per raggiungerlo, per entrare nel suo campo visivo e mostrargli che è lì, che lo stava aspettando, non l'ha abbandonato. Gli accarezza il viso, appoggia le labbra sulla sua fronte e vi lascia un bacio affettuoso; non le importa se intorno a loro ci sono altre persone, non le importa che non sia più un segreto – lo è mai stato?

I suoi occhi raggiungono Lance. Ha il volto bianco, è come se stesse guardando in faccia la morte in persona. È stremato, distrutto. Ha le occhiaie profonde e livide, gli zigomi scavati, le mani sporche di sangue che continuano a rimanere sospese sul corpo di Edvin e ne ripristinano i tessuti.

Edvin non pronuncia alcuna parola, continua a urlare mentre il dolore lo divora – e no, non è mai stato così forte, non è mai stato tanto intenso. Si sente profanato dalla lama del mietitore e rispedito sulla terra in un corpo rappezzato. Si sente come la creatura del dottor Frankenstein, appena venuto al mondo e catapultato in una vita orrenda, solo – seppur circondato da altri individui.

È morto ed è tornato indietro, ma ha perso una parte di sé.

Non è semplice descrivere ciò che prova, per questo continua a urlare, è l'unico modo con cui può esternare tutta la sofferenza che avverte. Ha il cervello distrutto, lacerato come lo sterno che fatica a ricomporsi. Si sente come se lo stessero scuoiando vivo, anche se l'intenzione è l'esatto opposto. Suturargli la pelle fino a far cessare ogni dolore.

Lance è stremato, le sue mani ricadono lungo i fianchi, il capo a penzoloni sorretto appena dalla schiena ricurva. Kilian si precipita a controllare che stia bene, poi raggiunge gli attrezzi vicino a Lance – Ayar neppure li aveva notati. Ago e filo, e così prende a suturare di fretta e senza emozione il petto di Edvin, ciò che rimane delle sue ferite.

«Aiuta Lance a tornare in camera. Dagli del sangue, starà meglio. E se lo merita.»

Ordina Kilian, e Ayar sobbalza a quella richiesta e "no", protesta la sua mente, vuole rimanere lì e stringere Edvin fra le sue braccia, non lasciarlo mai più.

Sta solo intralciando il lavoro di Kilian, quel confuso mettere a posto ciò che rimane dei tagli e degli squarci.

«Ayar, sbrigati, cazzo», continua, stavolta più infuriato, col tono meno pacato che in precedenza.

E allora Ayar, terrorizzata da un cambio nel tono di voce che non gli ha mai, mai sentito avere, lascia Edvin e raggiunge Lance per aiutarlo a tirarsi su. È difficile sorreggerlo, e da parte sua usa le poche forze che gli rimangono per non pesarle troppo addosso.

Il tragitto fino alla camera da letto di Lance sembra infinito e Ayar deve fermarsi diverse volte per riprendere fiato. Certo, è immortale, ma non ha la super-forza.

Si accorge di due fattori. Il primo: la sua camera da letto è molto più vicina rispetto a quella di Lance. Secondo: in camera di lui c'è quella bestia infernale e con il suo padrone in quello stato le salterà addosso per farla a pezzi.

Col cazzo che entra lì dentro.

Decide di farlo svoltare quindi nella sua stanza, anche se il letto si sporcherà di un odore che non è il suo, né quello di Edvin, e ciò le provoca un leggero fastidio, ma ci tiene a salvarsi la pelle.

E può sempre cambiare le lenzuola.

Lo fa sdraiare, gli sistema i cuscini sotto la testa. «Meglio?», chiede, con una premura inaspettata e le ciglia che sfarfallano. Le sembra di vederlo per davvero, come se prima la sua strana bellezza fosse stata celata da un incantesimo. Lance è magnetico, i disegni sulla sua pelle la intrigano, vuole scoprirli e conoscerne il significato, ma scuote il capo e cerca di riprendersi.

Lance emette un sospiro strozzato, è come se faticasse a respirare, come se dentro di lui ora si annidasse il male estirpato dalla morte.

Come può la morte essere ciò che lo rende vivo e che lo uccide al tempo stesso?

Quel pensiero è confuso, inaspettato. Ayar non sa da dove sia venuto fuori, ma le parole di Lance la riportano alla realtà.

«Avvicinati», le ordina in un sibilo quasi inudibile.

Ayar si rende conto di non potersi sottrarre a quella richiesta. C'è qualcosa di sbagliato in lui, di manipolativo e spregevole, di rancido e tossico – è solo dannato come tutti gli altri, ma Ayar non è ancora pronta a guardarsi davvero allo specchio, si nasconde sotto a un cumulo di sale che brucia le ferite.

Sa bene cosa intende fare e non intende negarglielo. Non ha smesso nemmeno per un momento di sentirsi in colpa per ciò che ha fatto.

Lance affonda le lame nella sottile e pallida pelle calda del collo. Sono le zanne di un lupo, affilate come potrebbero esserle quelle della bestia che tiene in camera. Fa male, fa un male devastante, c'è aggressività e rabbia nel modo in cui la morde, c'è fame e malessere. Pura disperazione. C'è fretta, non è come Edvin che la prosciuga lento e controllato. È destabilizzante, le fa tremare tutto il corpo per il terrore di vedersi mozzata via la testa dalla furia dei denti che sembrano strappare la carne. 

È una tortura dolorosa e destabilizzante, ma dura solo qualche attimo allungato dall'agonia.

 Ayar indietreggia, porta le dita sul collo quasi a voler chiudere le ferite, lo fa per controllare in che stato è la sua gola dopo quel morso e si spaventa quando il sangue le ricopre il palmo della mano.

Lance sbuffa, annoiato dal suo silente piagnisteo. Tira su la schiena – ormai sembra essersi ripreso quasi del tutto, forse è solo vittima della stanchezza, in effetti Ayar si domanda da quanto tempo lui non prenda sonno, le occhiaie sono livide, violacee come solo chi soffre d'insonnia può averle. «Bevi, ti passerà subito», le porge il polso appena tagliuzzato da uno dei suoi canini.

Ayar non ne ha molta voglia. È strano, perché il sangue le piace, quello di Lance l'ha già provato e sa di zucchero, ha un sapore che le dà alla testa. Eppure c'è qualcosa in lui che la turba, la zittisce – non ha pronunciato una sola parola da quando sono andati via dalla stanza con Edvin e Kilian, e lei è una che non sta mai zitta e fa troppo domande.

In ogni caso, decide di berlo solo per curarsi in maniera immediata la ferita che brucia e sanguina copiosa, inzuppandole i vestiti. Ne prende poco, non approfitta della sua gentilezza e sente subito la pelle risanarsi, l'icore smette di turbarle l'epidermide.

Sospira, un po' più calma, ormai lieta che sia tutto finito e che quel lungo incubo sia giunto al termine.

Lance, fermo di fronte a lei, si controlla l'orologio stretto al polso. «Cazzo, è tardi», dice, e sembra davvero infastidito.

 Ayar non lo conosce da molto tempo, ma non l'ha mai visto così irritato, quasi isterico, ebbro dei minuti che scorrono come se per degli esseri immortali il tempo potesse avere senso.

«Tardi? Tardi per cosa? Per caso tu puoi invecchiare?», le viene spontaneo chiedere, non le piace andare veloce. La vita è noiosa, e lei non si sta certo annoiando imbottigliata in quell'assurda serie di eventi. Anzi, tutto scorre talmente di fretta che non riesce più a seguire il filo.

«Io no, ma le prigioniere muoiono di fame», le risponde Lance. La supera per raggiungere la porta. «Dovresti venire con me, sto facendo il noioso lavoro di te e Edvin da troppo tempo ormai.»

Ayar ha un'espressione corrucciata e confusa. «Tu ci hai capito qualcosa di quello che dobbiamo fare? Perché io no. L'unica cosa che ho fatto è stata rasare i capelli a quelle ragazze. Non intendo torturarle in nessun modo.»

Lance la guarda con un ghigno ironico sul volto, una palese e malcelata presa in giro. «No, non torturate le prigioniere, preferite ammazzarle. Kilian me lo ha raccontato.»

Per Lance è davvero difficile non ridere mentre le risponde, trova che sia davvero una situazione divertente.

Ayar ammutolisce per un momento. «Non voglio essere responsabile del loro dolore, ho già troppe vittime sulla coscienza. Ho già detto e ripetuto a Kilian che non intendo fare loro del male.»

«Ma hai almeno idea delle tue mansioni qui dentro? E poi che razza di vampiro sei? Uccidere è nella tua natura, e sono d'accordo, dovresti controllarlo, ma non è ciò che devi fare. Avete ucciso una ragazza senza che nessuno ve lo ordinasse, sbaglio?»

Ayar lo guarda. «No, non ho idea di quali siano le mie mansioni qui dentro. Kilian ha cominciato a darmi missioni a caso e non mi ha spiegato granché. A quanto pare siete tutti più informati di me. Edvin sapeva sempre cosa dovevamo fare, in ogni caso. Eseguivo i suoi ordini, ma non sapevo cosa sarebbe venuto dopo. Perciò, tu che lo sai, dimmelo. Cosa volete fare a quelle ragazze? Kilian parlava di salvare il mondo, diceva che era un esperimento importante e che dovevo fidarmi di lui...»

Ayar ha i brividi quando quel ricordo viene a galla. Non è lontano nel tempo, è vicino. Lui e quel maledetto orologio enigmatico, ammaliante, quell'oscillare costante e vuoto aveva accompagnato le parole che ora sta ripetendo.

Sentiva di fidarsi di lui, in quel momento, perché in fondo si fida sempre di Kilian quando usa quell'orologio.

Lance le strappa via quei pensieri. «Sai cos'è l'effetto Lucifero

Ayar scuote il capo in un cenno di negazione. Un brivido le percorre la spina dorsale. Lance è l'unico che finora sembra predisposto a fornire delle risposte ai suoi dubbi, non deve farsi scappare l'occasione di sapere.

Però ha la mano sporca di sangue e la maglietta inzuppata, è sporca fino alle gambe. Ne è ancora ricoperta, e buona parte di quello che ha rappreso addosso è di Edvin. «Facciamo una cosa», lo interrompe un attimo prima che si decida a parlare, scegliendo volutamente di allontanarsi per un momento – uno solo – dal punto a cui è arrivata la loro conversazione. «Devo cambiarmi e farmi una doccia, non posso scendere giù dalle ragazze in queste condizioni.»

Lance guarda l'orologio. «Siamo in ritardo.»

«No, non è mai tardi per quelli come noi», sottolinea Ayar.

«Vampiri», le ripete Lance, e allora Ayar deve fossilizzarsi su quella sola parola e chiedersi cosa significa. Non lo sa.

«Che vuol dire?»

Lance sospira, già esasperato. «Senti, ti spiegherò quello che vuoi sapere, ma devi muoverti perché dobbiamo andare dalle prigioniere, non ho tutta la notte.»

Mentre Lance aspetta e si lamenta di continuo per l'ora tarda, Ayar si chiude in bagno per una doccia veloce e si cambia i vestiti, indossando dei pantaloni neri e una maglietta del medesimo colore. Rimane sul minimalista e semplice, non ha nessuna voglia di pensare a cosa mettersi. 

Lance sbuffa e impreca quando ripete dall'altro lato della porta che non è ancora pronta, deve asciugarsi i capelli. Ci impiega diversi minuti, si nasconde dietro al suono che riempie la stanza e cerca di spazzolarli in fretta per non farlo attendere oltre. 

Non era per le vittime che non voleva farsi vedere sporca in quel modo. Ayar ha paura. Terrore del guaio in cui si è cacciata, certa che dietro all'effetto Lucifero non ci sia niente di positivo. Quelle due parole la fanno rabbrividire. Si interroga sul loro significato, realizzando di scoprirle ormai non più tanto lontane all'udito, forse le ha perfino già sentite prima di quel giorno. Forse sapeva, ma non ricorda più. 

Lance potrebbe velocizzare il processo, e Ayar sa che non dovrebbe, Kilian è stato chiaro. Però non le importa. Sospira, guarda il suo riflesso nello specchio. Si dice che può sopportarlo, che può uscire da quella storia.

È ancora convinta che sia giusto provare speranza in quel mondo marcio.

Abbandona il bagno, Lance è sdraiato sul suo letto, le mani dietro la testa e gli occhi rivolti al soffitto.

Si alza all'istante, controlla ancora l'orologio. «Cinque minuti. Avevi detto che ci mettevi cinque minuti.»

È piuttosto arrabbiato, e Ayar ha di nuovo paura di lui. Si sente piccola, bassa e indifesa. Ha una bestia di fronte senza guinzaglio – lui non è diverso dal suo cucciolo infernale. Per niente.

«Ne sono trascorsi ventidue», continua, mostrandole il quadrante tondo, le lancette si muovono lente.

«Che sarà mai», Ayar alza le spalle, «andiamo, sei tu che mi stai facendo fare tardi.»

Lance si blocca dietro di lei, che ha abbassato la maniglia ed è scivolata fuori dalla stanza.

Un sorriso gli taglia il viso. Il suo atteggiamento lo diverte, dissipa la sua fretta perenne. Gli fa prendere un respiro.

Scendono al piano inferiore e Ayar nota che niente è cambiato da quando è andata via, lì sotto. In fondo lei e Edvin non sono neppure stati lontani per molto tempo, anche se sembrava trascorrerne di più.

«Quindi», Ayar prende coraggio, «che cos'è l'effetto Lucifero?»

Continua a camminare, lui l'affianca con calma, i loro passi risuonano insieme alle lontane urla perse delle vittime mute intrappolate in quel limbo terreno.

«La risposta è semplice, Ayar, e dovresti già intuirla da sola. È un controverso esperimento carcerario.»

Ha senso, in effetti. Hanno imprigionato delle persone, e Edvin ha parlato dei ruoli di guardie e prigionieri. Non erano metafore, era la verità.

«E io che c'entro?», chiede, quindi, curiosa di sapere se lui abbia anche una risposta a quella domanda.

«Tu sei una guardia. Kilian mi ha spiegato che sei interessante da studiare, è curioso di vedere come ti comporti con le prigioniere. Spesso mi sono trovato in disaccordo con le sue idee, ma non sono nessuno per prendere una vera posizione. Siamo tutti sue creazioni, in fondo. Non riuscire ad arrivare al nostro Creatore è assolutamente normale.»

Ayar si sente turbata da quelle informazioni. Lui la sta studiando, le fa vivere quelle crudeltà solo per trarne qualcosa in cambio.

Si è venduto al sistema.

Il panico la investe come un treno in corsa. Non ha mai calcolato quella possibilità, non ha mai pensato che qualcuno di tanto affezionato e legato all'arte e alla cultura potesse nascondere tanta falsità.

Edvin lo sapeva?

Le hanno sempre nascosto di essere delle macchine, dei burattini. 

Non può crederci, la rabbia che sente è un fuoco che le divampa dentro, la divora fino a renderla cenere, sono fiamme che sciolgono la neve e il ghiaccio. 

Non ne può più delle emozioni. Sono intense, terribili, destabilizzanti. Non provare niente le manca.

«Tutto bene?», la chiama Lance. Si sono fermati uno davanti all'altro, a un passo dallo svoltare nel corridoio decisivo, l'ultimo prima di arrivare alle vittime.

«Lui è con il sistema, non ci avevo mai pensato», mormora Ayar, ancora confusa. Non è possibile, non può essere vero. Ha tradotto male le parole di Lance, deve essersi sbagliata. Quella consapevolezza non è reale, è finzione.

«Non esattamente», dice Lance, e questo è miele sui nuovi tagli che le ha inciso sull'anima. «Kilian fa degli esperimenti per il sistema, lavora per loro, e in cambio viene lasciato in pace e tutta l'arte rimasta gli appartiene. Lui... è una mente geniale, è un pezzo importante per il sistema stesso. Senza di lui tutta l'umanità non sarebbe così remissiva e soggiogata. Senza Kilian gli umani sarebbero impazziti ormai da troppo tempo. Vedi, Ayar, è una storia davvero lunga e complicata. Una volta la morte non era così inarrivabile come al giorno d'oggi, il nostro tempo era prezioso. Una vittima non poteva tornare in vita, e il dolore delle perdite era devastante, orribile. Troppe malattie, troppe morti, troppa tristezza. Per secoli gli umani hanno cercato di trovare l'antidoto alla morte... poi è arrivato Kilian. Lui e le sue strambe idee, teorie talmente scientifiche e particolari che non saprei spiegarti neppure come c'è arrivato. Credo che nessuno l'abbia compreso, in realtà. Aveva creato un antidoto alla morte, e subito la notizia aveva cominciato a circolare nel pianeta. Non era da solo, non era un lavoro fattibile da una sola mente. Servirono specialisti di ogni ambito, dalla biologia alla chimica. Vennero qui, proprio qui, persone da tutto il mondo, volenterose di essere fra le prime a farsi iniettare l'antidoto, volenterose di essere cavie e divenire immortali.»

Ayar ha appoggiato la schiena contro la parete, si è fermata ad ascoltarlo, immobile come una statua, ebbra della conoscenza che le sta fornendo, consentendole di mettere alcuni pezzi a posto. «E poi?», chiede, non vuole che smetta di parlare. È come un cerotto che viene strappato in fretta da una ferita ancora aperta. Ha bisogno di sapere tutto e subito, senza inutile gentilezza.

«L'immortalità ha un sapore dolce sulle labbra di chi è abituato a credere che alla fine della vita ci sia un punto senza ritorno. Era davvero demoralizzante questa idea per le persone; lottare con i denti, lavorare, sudarsi ogni mobile dell'arredamento per la casa per poi morire comunque e finire racchiusi in delle casse di legno. E così hanno creato il virus e le sue varianti, hanno infettato la popolazione convinti che senza iniettarlo ad altri individui non si sarebbe diffuso. Hanno sbagliato, ha cominciato a diffondersi sempre più in fretta, e ha cominciato a mutare. Il corpo non aveva bisogno di sangue, all'inizio. Quando ha iniziato a cambiare da umano a umano hanno perso il controllo. Io ero fra coloro che decisero di prestarsi all'esperimento. Non avevo niente da perdere e mi stuzzicava l'idea di essere uno fra i primi a divenire immortale, aveva il sapore di chi riceve la proposta di prendere il posto di Dio. Inoltre, le continue ricerche su un antidoto alla morte mi avevano provato. Se l'umanità avesse smesso di morire, avrei perso il mio lavoro. Firmando quel contratto loro mi assicurarono che sarei rimasto a lavorare per loro, che sarei stato pagato e trattato bene dal sistema. È stato così solo al principio... poi è arrivata la fame.»

«E cos'è successo?», Ayar lo sprona a continuare. Ora sa come tutto è iniziato.

Sa che è colpa di Kilian se è diventata un mostro e se è condannata a quell'esistenza.

Vorrebbe farlo a pezzi. Dietro alla sua aria da angelo si nasconde il mietitore che ha disintegrato la sua parte umana.

È colpa di Kilian se l'umanità è giunta a quel punto, in parte.

Una buona percentuale di colpa.

«Hanno cercato di addomesticarmi come se fossi un anima persa, un criminale da rimettere in riga», continua Lance, «ero più forte di loro, ma non avevano idea di ciò che ero in grado di fare. Sono scappato, ho dissanguato tutto il personale presente quella sera e sono fuggito via, fu un gesto impulsivo, una notte disperata. Ho dovuto imparare da solo a controllare la mia maledizione, da quel momento in poi. Non sapevo cosa mi avevano fatto, non capivo più come funzionava il mio corpo.»

Parlare di quelle cose gli costa fatica. È dura, perciò cerca di riassumere. Ayar solleva le dita per raggiungere il suo viso e accarezzarlo con dolcezza, rapita dalla disperazione che legge nei suoi occhi d'ossidiana.

Lance le blocca le dita, i polpastrelli si stringono intorno al suo polso gracile. Ha le mani gelide. 

«Finché gli infetti non hanno cominciato a essere troppi. Ne ho conosciuti alcuni, mi hanno accolto fra di loro. Mi hanno spiegato ciò che sapevano. Avevano dei vecchi libri di narrativa. Quello che ricordo meglio era un antico romanzo epistolare chiamato "Dracula", nel passato si narrava di esseri come noi. Lì non venivamo chiamati "infetti", ma "vampiri". Ed è questo che siamo. Non è un virus, è più una maledizione eterna. La scienza, però, ha continuato a infiltrarsi nella magia per trovare risposte e smontarla, scoprendo che i miti che tanto reputavano falsi e illusori erano in realtà leggende vere. Io credo che Kilian sia riuscito a fare ciò che ha fatto non perché è un esperto di chissà quali strane discipline piene di numeri e calcoli. Io penso che il suo segreto sia la sua profonda connessione con l'oscuro, i misteri della vita, gli angoli bui dei secoli lontani nel tempo. Lui ha letto tanto, ha scoperto e ha vissuto, il suo vero segreto temo non lo conosceremo mai. Però è un genio e ha la mia stima, so che è inutile ribellarsi alle sue decisioni. Se Kilian decide che sei parte del suo progetto, se lui scopre che sei l'arte che gli nutre l'anima, non ti lascerà mai andare. Potrai allontanarti, potrà trascorrere il tempo, ma lui tornerà a prenderti. Lo ha fatto con me, lo ha fatto con te. È tornato dopo averti creata e abbandonata da sola in questo mondo ostile, e ora sei di nuovo in gabbia. Non puoi scappare da lui, Ayar. L'unica cosa che puoi fare, se vuoi smettere di soffrire, è eseguire i suoi ordini, stare al gioco e non fare domande. E so che l'ultima in particolare non ti riesce molto bene», con quell'ultima frase demolisce la tensione creata, retrocede di un passo per sfuggire a quel contatto fisico fin troppo piacevole.

Non condivide il suo dolore con gli altri, non vuole che qualcuno gli lecchi le ferite, non vuole che provino pena per la sua anima satura di cicatrici. Però le chiarisce ciò che sa, perché Lance è consapevole che perdere i propri ricordi è semplice, in quel mondo, e assemblare i pezzi fa schifo ed è difficile. Si apre con lei e le racconta quella storia, che poi è anche la sua se solo vi si apportassero alcune modifiche – è certo che lei abbia vissuto nella stessa cieca oscurità di chi da un giorno all'altro non vuole più toccare una fetta di pizza e nella mente ha solo il costante bisogno di sangue e di carne, di umani da prosciugare, di individui da far soffrire dentro e fuori per ricaricare le proprie pile. Di assorbire la vita e l'energia altrui, perché c'è un prezzo per ogni morte rubata alla falce del mietitore.

«C'è ancora una cosa che non riesco a capire», dice Ayar. «Che cosa stiamo facendo alle vittime?»

«Studiamo il loro comportamento. Kilian trova che la prigionia sia affascinante.»

Sta mentendo. Ayar lo nota, è la prima volta che distoglie lo sguardo. Prima non le ha detto niente di falso, ma adesso sì.

E allora comprende da sola cos'è che fa Kilian.

Dà le spalle a Lance per svoltare in corridoio e raggiungere le ragazze. Fra quelle mura c'è il tanfo della morte, eppure sente i loro cuori che battono ancora. 

Sono immobili, rannicchiate e sole, divise nelle loro gabbie grigie. Si danno conforto stringendosi le ginocchia al petto. 

Una di loro continua a dondolare sul pavimento. Avanti e indietro, avanti e indietro. E ancora, avanti e indietro.

Ayar distoglie lo sguardo. Lei è stonata, non è uguale alle altre.

E loro non sono uguali a come quando le ha lasciate lì.

Sono spente. Hanno gli occhi vitrei, persi nella follia. Le hanno uccise all'interno.

Le ha uccise all'interno.

Ayar è certa che sia colpa di Kilian.

Vuole renderle immobili burattini. Quasi cadaveri, a uno stadio prima dell'incoscienza totale.

Vuole fare loro ciò che ha fatto a lei per prima. Stuprare i loro corpi immobili e morti, ingabbiati nella clessidra. E loro non sono infette, perciò non tornerebbero in vita se le uccidesse per abusarne.

Forse gli piace e basta vederle in quello stato. Gli occhi aperti, brillanti ancora di una misera e ridicola fiamma di speranza.

Ayar smette di respirare.

Non può permettere che lui faccia questo a delle persone innocenti.

Sentieri di lacrime percorrono le sue guance, crolla sulle ginocchia, quasi svuotata di ogni energia, della forza che anima la vita stessa. Quasi agonizzante come loro.

«Vedi, Ayar? È per questo che sei interessante. Tu sai ancora piangere, sai provare il senso di colpa, sai fermarti davanti a tutto questo. Kilian, io e Edvin abbiamo perso questo lato da molto tempo. Per questo sei arte, per lui. Tu sei buona, brilli.»

Quelle parole accrescono il suo stato di totale abulia. Non ha più voglia di fare niente. Non può cercare di imbrogliare Kilian né di distoglierlo dai suoi piani sadici. Può solo accettare quella situazione, mantenersi passiva e negare al suo mostro di uscire e divorare i sentimenti, e dunque soffrire.

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