2. L'arte di tagliarsi la gola

"Sogno di dipingere e poi dipingo il mio sogno."
Van Gogh


Quando la vettura si ferma, un tempo indefinito dopo, Ayar esala un sospiro più profondo degli altri e ringrazia di essere arrivata a destinazione. 

L'ansia non l'ha abbandonata nemmeno per un istante, ha continuato ad azzannarla dietro il collo, lì dove non può vederla, eppure prude e accresce la sua agitazione. 

Il bagagliaio dell'auto viene sollevato ed emette un leggero click metallico, Ayar balza fuori senza lasciare a Edvin neppure un momento per allontanarsi, tanto che quando alza lo sguardo se lo trova di fronte e rabbrividisce. 

Perché cazzo ha deciso di fare quella follia e non se n'è tornata a casa a piangere e aspettare l'alba?

È un po' troppo tardi per cambiare idea, perciò fa un passo indietro e si guarda intorno. Si trovano in una galleria buia e fa molto freddo, c'è troppa umidità laggiù.

Sono al di sotto del suolo e Ayar non ha idea di quanto sia lontana dalla sua abitazione, ma appena Edvin interrompe il suo campo visivo torna a persuaderla il desiderio di averne almeno qualche goccia.

«Siamo arrivati?», chiede quindi, anche se si aspettava un luogo più carino. È solo un tunnel buio.

«Quasi», risponde Edvin, e le dà le spalle mantenendo un rigido silenzio e spronandola a fare lo stesso.

Ayar prende un respiro e cammina al suo fianco per un po'. È abituata a non parlare in presenza di altre persone, le comunicazioni vanno ridotte al minimo, ma è davvero certa che laggiù nessuno possa vederla. È risaputo che è proprio sottoterra che si nascondono i veri peccatori, quelli che non si adattano al sistema e cercano una falla di cui abusare per avere ciò che vogliono, ciò che è illegale.

«Come ti chiami?», chiede, tanto per avere un nome da affibbiare a colui che per quella notte sarà il suo donatore – o forse la farà a pezzi e sarà l'unico a cibarsi di carne e rosso. Quella prospettiva le mette i brividi.

Corre con le dita a sfiorare il pugnale che porta sempre con sé grazie a un gancio legato ai pantaloni. Non esce mai senza una lama, è pericoloso.

In passato, avere con sé delle armi l'aiutava a procurarsi del cibo. Umani o animali non faceva molta differenza, purché avessero del sangue dentro al corpo. Ora, però, non ha più bisogno di uccidere, le viene dato ogni volta che ha fame, e va meglio. Sopravvive nella noia e si crogiola in un'esistenza vuota, in attesa che si scateni una rivoluzione.

«Edvin», nel frattempo scorrono secondi che appaiono infiniti. Ha riflettuto a lungo su quella domanda, chiedendosi se fosse giusto dirlo. Si stanno per cacciare in un bel casino, quindi forse è meglio che si presentino. «E tu?»

«Ayar», dice, poi distoglie lo sguardo per osservare di fronte a sé. Edvin si è fermato e ha spostato una botola, dopo aver utilizzato una chiave.

Può vedere degli scalini che conducono verso il basso e decide di scendere, attenta a non perdere l'equilibrio. Finché i suoi piedi non toccano terra e si trova di fronte a una porta metallica.

Edvin fa strisciare una tessera in uno stretto spazio a destra di essa, lampeggia intermittente una luce verde e poi un meccanismo consente loro l'ingresso.

Il cigolio alle sue spalle la fa sussultare, un brivido lugubre le sale lungo la spina dorsale. Fa fatica a respirare e si impone di calmarsi, prova a bloccare i tremori dei polsi. 

Sembra una normalissima casa e ciò al principio delude le sue aspettative. Immaginava un posto segreto, nascosto, e in fondo sono sottoterra, sono al sicuro. Scendendo verso il basso hanno interrotto i segnali, quindi non possono localizzarli, trovarli, vederli. Nessuna mappa ne è a conoscenza, ed è una consapevolezza che la porta a chiedersi perché sia tutto così asettico. Scorrono corridoi grigi e tetri e le sembra di sentire dei lamenti lontani.

Finché Edvin non entra in quella che sembra una biblioteca e Ayar spalanca appena le palpebre con una nuova e leggera meraviglia. C'è una libreria in legno antico piena di tomi colorati, le pareti sono tappezzate di quadri dalle svariate forme ed è così incuriosita da quelle immagini che non sa su quale soffermarsi per prima, zampillando con le pupille da una parte all'altra della stanza.

Lì c'è tanta bellezza, una bellezza che nel mondo non esiste più, è stata cancellata. Sono stati aboliti i sogni e le speranze, le emozioni che rendono vivi e fanno battere il cuore. Gli umani sono quasi robot, macchine vuote che hanno azzerato ogni istinto considerandolo errato.

«Tu vivi qui», dice Ayar, una constatazione più che inutile.

«Carino, vero?», Edvin accende delle candele che illuminano l'ambiente buio. Non ci sono finestre, non puoi guardare il mondo fuori né il cielo, ma lì dentro è pieno di arte morta, salvata da chissà quali periodi storici.

«Come hai fatto a creare tutto questo da solo?», domanda Ayar, che è davvero curiosa di conoscere la risposta, tanto che quasi non pensa più al sangue. L'arte viene bruciata, allontanata, seppellita. L'arte illumina la speranza, stimola la bellezza, e spesso raffigura ciò che ora è proibito. 

Stringe appena gli occhi e si avvicina a un dipinto nello specifico.

È una donna dalla pelle bianca, tratteggiata con dolci pennellate dai toni chiari e dalle pallide ombre. Il corpo nudo è in netto contrasto con lo sfondo, tinto di un verde petrolio immerso nel buio; è sistemata fra cuscini ricamati e gonfi. La sua espressione è sorridente, ha le gote arrossate. Sembra felice, rilassata. Forse lieta di essere lì, immobile di fronte al pittore che l'ha ritratta, nuda e con ogni difetto esposto. Forse è felice di essere fragile e mostrarsi tale. Per Ayar è impensabile l'idea di spogliarsi per farsi ritrarre, non lo farebbe mai.

«Ti piace? Dovrebbe appartenere a un vecchio incisore spagnolo.»

Ayar quasi sobbalza quando avverte un'altra voce nella stanza. Non è quella di Edvin, anche se è altrettanto bassa. 

Edvin si volta in direzione di Kilian, lo guarda con indifferenza. «Ah, ogni tanto esci dalla tua stanza, allora. Pensavo fossi morto.»

Ayar squadra il ragazzo di fronte a sé. La mascella è pronunciata, gli zigomi tagliano il suo volto e gli regalano dei tratti particolari. Ha i capelli scuri e lunghi fino a quasi le clavicole. Gli occhi sono chiari, ma hanno un colore diverso da quello di Edvin, è il verde dell'arsenico. Ayar si chiede subito se fra i due possa correre una qualche forma di parentela, ma non saprebbe stabilirlo. In realtà non si assomigliano per niente, e anche il modo in cui si comportano è diverso, come l'abbigliamento. Il ragazzo appena arrivato indossa una camicia che ha i primi bottoni fuori dalle asole e lascia intravedere un petto ampio e bianco, tonico come i muscoli che s'intravedono sotto alle linee del tessuto che ricopre la sua pelle. Un'eleganza che in Edvin non si troverebbe neppure cercandola con una lente d'ingrandimento.

Ayar sente uno spillo pungerle dietro la pupilla, all'interno del cranio. Un ago rovente che si conficca nella carne e fa male. Guardandolo bene, ha quasi la sensazione di averlo già visto prima, anche se non sa dove né perché.

«Io ti conosco», pronuncia in un soffio, quasi con timore, «ti ho già visto.»

«Non penso proprio. Non esce mai da qui. Probabilmente l'ultima volta che ha visto il sole è stata qualche anno fa», le risponde Edvin, sebbene nessuno l'abbia interpellato.

Ayar inclina il capo. «Voi vivete insieme?»

Non è legale, non si vive con altre persone. Le case sono piccole, in superficie, e bastano per un solo individuo.

«Sì», le risponde Edvin, che ha raggiunto un baule all'angolo della stanza e ci sta rovistando dentro in cerca di qualcosa.

«Voi state insieme?», chiede quindi, crede di aver capito tutto. La situazione è troppo strana, quindi l'unica spiegazione fattibile è che si nascondano laggiù per evitare il sistema e non essere divisi. Ayar pensa a questa probabilità e un brivido freddo le percorre la spina dorsale. Pensare alle relazioni umane le mette i brividi.

Edvin sembra innervosirsi a quelle parole, può vedere la linea delle sue spalle irrigidirsi e le rivolge uno sguardo tagliente. 

Tuttavia, è l'altro a prendere la parola, con addosso una calma glaciale. «No, non stiamo insieme, ma viviamo qui perché è casa di entrambi, l'abbiamo costruita insieme.»

«Impossibile», commenta Ayar, cinica, «non potete scavare un tunnel sottoterra e costruire una casa in due.»

Edvin alza gli occhi al cielo, infastidito dalla sua parlantina improvvisa e da tutte quelle domande, tuttavia Kilian gli impedisce di parlare. «Non letteralmente, non potevamo farlo in due, molti anni fa sono state pagate delle persone per svolgere il lavoro. Non era così quando i miei genitori me l'hanno lasciata e non hanno più fatto ritorno. Ma le opere le abbiamo trovate tutte noi, ogni pezzo dell'arredamento è stato scelto con cura e conservato qui per formare un'opera d'arte più grande.»

Ayar inclina il capo, pensierosa. «A che scopo?»

Kilian sospira, anche lui sta iniziando a non poterne più di tutte quelle domande. «Abbiamo creato una casa diversa da tutte le altre in superficie. È al sicuro, è piena di svago e di bellezza. Conserviamo ciò che il sistema cerca di cancellare e far scomparire.»

«Adesso, se non ti dispiace, io vorrei il mio sangue. Non ti ho portata qui per fare conversazione», aggiunge Edvin tagliente. Ha tirato fuori un pugnale dal baule e ora l'argento vivo gli brilla fra le dita.

Ayar si impone di rimanere calma. Ha ragione, in fondo è per quello che sono andati fino a lì.

Kilian interviene per liquidarsi. «Vi lascio divertire, allora. È stato un piacere conoscerti, Ayar.»

Quelle parole turbano appena Ayar, ma non comprende subito il perché. È un pensiero che rimane sottopelle, non riesce a emergere, non subito. 

Kilian esce dalla stanza e possono sentire i suoi passi allontanarsi.

Edvin la distrae dai suoi pensieri, sente la sua presenza alle spalle e il cuore sembra battere un po' più veloce per un piccolo attimo.

Non ha mai dato il suo sangue a nessuno, neppure una goccia, e ora che si trova sul punto di farlo avverte un leggero timore. Un respiro le accarezza la pelle sulla nuca e si stringe il labbro inferiore fra i denti per non scostarsi terrorizzata, ma fallisce e avanza di qualche passo per voltarsi e averlo di fronte a sé. «Puoi sforzarti di renderlo meno inquietante? Mi fai paura.»

Edvin ha l'aria seccata e, quasi stanco, prende posto su una delle poltrone al centro della stanza. «Non ti credevo così fifona», incrocia le braccia, «preferisci iniziare tu?»

Ayar annuisce. Sì, preferisce essere la prima a bere, così può essere sicura che non cercherà di imbrogliarla e non darle in seguito il suo sangue. «Sì. Prima le signore, no?»

«D'accordo», Edvin solleva la lama del coltello fino all'incavo fra la mascella e il collo, incide in modo superficiale la pelle senza mostrare sul viso alcun segno di fastidio, sembra quasi abituato al dolore tanto da non essere in grado di sentirlo. Una goccia d'icore percorre il collo, disegna sull'epidermide già tratteggiata d'inchiostro. La guarda, immobile di fronte a sé, ed è come se volesse dirle qualcosa che rischierebbe di cambiare tutto, ma si ferma un istante prima di cedere, s'inumidisce le labbra e Ayar non riesce a distogliere le pupille dalle sue né a muovere un muscolo. 

Si sente privata di tutte le sicurezze che credeva di avere. Bloccata all'idea di non conservare il ricordo di aver mai sfiorato un altro umano. Edvin non ha alcun bicchiere in mano, non ha un contenitore per raccogliere il sangue, quindi dovrà prenderselo dalla sua pelle.

Lo fa soltanto con i cadaveri. Questo è molto diverso.

Si avvicina, il corpo che trema appena; si sforza di fermarlo, di respirare piano dal naso e rilassarsi. Deve solo nutrirsi, e lo ricorda quando si siede al suo fianco e il rosso della ferita le brilla davanti agli occhi. Sente l'odore dolce del suo sangue, una caramella colorata in un mondo che ha sempre un sapore amaro, e non può fare a meno di avvertire i denti cominciare a fare male, martoriarle incessanti le gengive, forzarle per scivolare più all'esterno, per essere più appuntiti, per pugnalare e strappare meglio la carne. Percorre la linea vermiglia che è scivolata verso il basso con la lingua, la insegue per non perderla, chiude gli occhi e le sembra di assaporare tutta la vita dell'altro, tutto il suo dolore. Il corpo sembra essere investito da una scarica elettrica che la distrugge e risana. 

Non beve solo perché le sembra di saziare la fame perversa. Beve per ristabilire le forze, per ricaricarsi, per stare meglio. Ayar è affetta da un brutto virus e il cibo comune non le piace, non le riempie lo stomaco. 

Ne ha bisogno per sopravvivere.

E in fondo anche perché il sangue è arte.

Affonda i canini nella carne, la pelle morbida si piega sotto agli incisivi appuntiti come lame. Può sentire Edvin sussultare appena. È solo un istante in cui le dà l'illusione di avergli scatenato una reazione, poi torna impassibile. Sente il suo respiro calmo e controllato e allora ingoia l'antidoto al disordine con le palpebre abbassate, le ciglia che gettano ombre sinistre sulle guance e distruggono il suo volto in un ghigno animale.

Poi sente le dita di Edvin afferrarle la gola e allontanarla da lui. 

Ayar protesta, si dimena con i canini che luccicano di saliva vermiglia e quasi ringhia, non riesce a frenare la bestia che è diventata, il mostro che le spacca la pelle in pezzi e le fa attraversare ogni fase della follia.

«Sta' buona, non posso dartene ancora, ne hai bevuto già troppo», la rimprovera Edvin, e per Ayar quelle parole sono un bagno nei cubetti di ghiaccio.

Si calma, sente il dolore alle gengive affievolirsi e i denti ritrarsi nella carne dilaniata. Ha lo stomaco ancora serrato in una morsa mentre sente l'energia fluire dentro il corpo. Si sente piena di vita come tutte le altre volte, ma c'è qualcosa di diverso.

Un languore che è rimasto lì, annidato dentro di lei. Ha trovato un vuoto che non sapeva di avere.

Trascina un polso alle labbra e si ripulisce il mento con la manica.

Le lacrime invadono gli occhi, sgorgano all'improvviso e sono fiumi salati inspiegabili, immotivati. Viene travolta dal senso di colpa e si sente piccola e schiacciata da un demone che la graffia dall'interno e distrugge tutto ciò che tocca. 

Il suo passato è pieno di scheletri. Umani diventati cenere e polvere d'ossa, dissanguati fino all'ultima goccia, talvolta fino a cercare di aprire più vene possibili.

Edvin ha un'espressione confusa sul volto. Avvicina il viso al suo e le ruba una lacrima con la punta delle dita. «Lo fai anche tu», c'è stupore nel suo tono, una bizzarra meraviglia, «perché?»

Ayar cerca di rispondere, ma le esce solo un singhiozzo strozzato. Ormai si è lasciata andare al pianto e non riesce a fermarlo, anche se vorrebbe tanto interromperlo. «Mi dispiace di averti fatto male», sbiascica alla fine, rinchiudendo il suo senso di colpa in delle parole. «Io non so controllarlo», lo ammette con facilità, è molto dura con se stessa. Quando la fame prende il sopravvento è difficile fermarla. Lei non vorrebbe uccidere – non sempre. A volte è soltanto bisogno di cibo, un'ossessione intensa e che divampa, non si estingue.

A Edvin sembra quasi di avere di fronte una bambina, una creatura piccola e insolita. È quasi ironico come in lei convivano una bestia e un angelo, un essere che mai farebbe del male a qualcuno. È un paradosso fatto di carne, è umana quanto lui e mostro sotto agli strati di pelle e sogni infranti.

«Ti basta darmi il tuo sangue per farti perdonare», lo dice tanto per farla tacere, si avvicina a lei per stringerle i capelli sulla nuca e affondare i denti nella carne, tirandola nella sua direzione con avidità e sadismo, stringendola a sé un po' più forte quando sente quell'esile corpo contrarsi e tremare per il dolore, soffocarlo in silenzio. Non si aspettava che rimanesse buona e che lo lasciasse fare, ed è grato al mondo di poter essere lì, di poterlo assaggiare dalle sue vene. Lo sente caldo e dolce, non asettico come quello infilato in buste dall'aria sgradevole e vecchia.

Edvin non ha bisogno che sia Ayar a chiedergli di smettere. Vorrebbe berne ancora, non si è mai davvero sazi e il vuoto lo pervade e ferisce, ma sa controllare la sete e sa quando è ora di smettere. 

Si guardano negli occhi e comprendono che qualcosa è cambiato, anche se a parole non sono in grado di definire che cosa. È come se del filo spinato li costringesse vicini all'improvviso. E loro sembrano esserci abituati, sembrano quasi non voler riacquisire le distanze necessarie. Persi uno nell'abisso dell'altro mentre il mondo circostante sembra sparire. C'è qualcosa che li unisce, adesso. Il sangue che scorre in entrambi e che li rende vivi.

Hanno le gole squarciate dai canini, fori circolari che sanguinano ancora e non si arrestano, ma le ferite vere bruciano all'interno, dove gli sguardi non possono arrivare.

Edvin solleva le dita per sfiorarle una guancia. È sporca di lentiggini, piccole imperfezioni che le ombreggiano il viso dai tratti morbidi, opera di uno scultore attento a ogni dettaglio. «Tu sei così dolce, è davvero un peccato che io debba farti questo», le sussurra piano, quasi un segreto da imprigionare fra le mura frammentate di quadri e occhi di tempera e acrilico che li osservano.

«Che cosa?», chiede Ayar, non lo comprende, ma prima che arrivi una qualsiasi risposta Edvin le torce il collo con uno scatto, le sue ossa scricchiolano e il suo sguardo si spegne. 






NdA: L'opera che vede Ayar è la maja desnuda di Goya. 

Sì, in ogni capitolo c'è un piccolo riferimento a un'opera, un film (in quello precedente era il silenzio degli innocenti) o una canzone. Il titolo dei capitoli a volte potrebbe aiutarvi a identificarlo, quando è possibile.

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