12. Dimenticare non è un male

Here we go again, motherfucker, oh
We're sick and tired of wondering
Praying to a god that you don't believe
We're searching for the truth in the lost and found
So the question I ask is
Oh, where the fuck is your god now?
Popular monster - Falling in reverse



Un po' di tempo dopo, quando la gabbia è pulita e le ragazze hanno smesso di singhiozzare da un po', cominciando a ignorare la presenza di Edvin e Ayar ancora laggiù, arriva il momento di portare il cadavere a casa.

Non possono lasciarlo lì perché andrebbe a male. Non c'è molto da fare, per farlo sparire la cosa migliore è cibarsene fino ad averlo consumato fino alle ossa. Poi, triturarle e magari gettarle in mare, ma è tutto da vedere.

Ayar tiene la donna dalle caviglie, Edvin dalle braccia, e riescono a portarla – facendo baccano e sporcando spesso il pavimento quando si fermano per prendere fiato – fino alla cucina inutilizzata. Ayar nota ora per la prima volta una piccola cella frigorifera, nascosta dietro una porta che non aveva mai visto prima. Quando ha esplorato quella casa non le è importato granché di quel luogo, perché a lei il cibo non serve. 

Ora, però, scopre che non è poi così male. Nella cella c'è un uomo, ha il busto squarciato, un solco profondo al centro del petto, come se qualcuno gli avesse strappato via la vita tirandogli il cuore, scollegandolo da ogni vena per tenerlo fra le mani, sentire un'esistenza scivolare letteralmente fra le dita. Si è appena aggiunto un secondo corpo, è quello della donna che Edvin ha ucciso.

Ayar si sente in colpa, ma cerca di scacciare quella sensazione e di aggrapparsi a una certezza: l'hanno liberata della tortura che avrebbe vissuto lì dentro.

«Come facciamo a dirlo a Kilian?», sospira Edvin, si passa le mani sporche di sangue sul viso e lo macchia di nuovo rosso.

«Dovevi pensarci prima di ammazzarla», non vuole avere anche quel problema.

«Dovevi pensarci prima di farmi incazzare», Edvin lascia la cella frigorifera, chiudendo la porta.

«Possiamo dirgli che è stato un incidente.»

«Ha la gola distrutta, quale cazzo di incidente la ridurrebbe in quelle condizioni?»

Ayar stringe i pugni. «Sto cercando di aiutarti a trovare una soluzione, se continui ad aggredirmi puoi anche andarci da solo da Kilian e prenderti tutta la responsabilità di quello che è successo, perché in fondo non è stata colpa mia. Avevo tutte le ragioni del mondo per arrabbiarmi con te.»

«Puoi anche andartene, non mi serve la tua protezione», Edvin le rivolge uno sguardo tagliente.

«No», sospira Ayar, «vengo con te, in due sarà più semplice.»

Kilian dà loro le spalle. L'aria indecifrabile, i dorsali in tensione s'intravedono appena sotto al tessuto della sua camicia. Non è per niente tranquillo, anche se cerca di non darlo a vedere e di mantenere una calma apparente. «Io vi ordino di rasare i capelli alle prigioniere e voi tornate e mi dite che ne avete ammazzata una.»

«Te l'abbiamo già spiegato, è stato un errore. Stava cercando di scappare, non potevamo permetterle di andarsene. Ci avrebbe messi tutti e tre nei guai», dice Edvin, hanno cercato di costruire una versione simile in poco tempo, per farlo sembrare un gesto meno impulsivo e più un qualcosa di davvero inevitabile. Pura sopravvivenza.

«Ripetimelo di nuovo», lo interrompe Kilian.

Edvin aggrotta le sopracciglia, lui e Ayar si scambiano uno sguardo confuso, forse si chiedono cosa lui stia tramando. «Perché?»

Kilian sorride, la sua espressione è pacata, ma Edvin lo conosce a sufficienza da sapere che dentro i demoni si aggrovigliano in oscure spirali di fumo. «Magari questa volta sarà quella giusta e mi direte la verità. È semplice comprendere quando qualcuno mente, basta cercare di individuare le sue micro espressioni. Ayar, da quando è qui dentro e sta parlando, continua a grattarsi il naso, agitata, e non riesce nemmeno a guardarmi negli occhi. Tu parli lentamente, non sei mai stato così tranquillo da quando ti conosco, e non sei propenso a raccontarmi la stessa menzogna due volte di fila, anche se te lo chiedo. Si tratta di psicologia spicciola, vi servono altre delucidazioni o volete dirmi perché avete ucciso quella povera donna?»

A quel punto è Ayar a prendere la parola, anche se il tono della sua voce è instabile, tremolante. «Abbiamo litigato, mentre eravamo giù. Abbiamo cominciato ad accusarci a vicenda, io rinfacciavo a lui i suoi peccati, lui rinfacciava a me i miei. E poi... boh, l'ho provocato, dicendogli che quella donna avrebbe sofferto meno da morta, e quindi Edvin l'ha uccisa. E io penso che sia stata la cosa giusta da fare, non dovevamo tenerla qui. Soffriva un sacco.»

Decide di omettere un dettaglio, e cioè che aspettava un bambino. Ayar lo sapeva, l'ha sempre saputo.

Kilian, dall'altro lato della scrivania, preme i polpastrelli contro il legno e sembra essere impegnato a trattenere la rabbia che gli brucia dentro. «Sono vittime, certo che soffrono. È quello che devono fare.»

La freddezza di quelle parole è una pugnalata fra le costole, una lama che le tagliuzza le interiora.

«Io non so nemmeno che cosa diavolo ci faccio qui!», la rabbia comincia a invaderla, il mostro che ha dentro lotta per liberarsi. «Mi stai costringendo a fare delle cose che non voglio fare, mi hai ingannata portandomi qui, mi hai tolto la libertà, hai detto che mi avresti aiutata a ricordare e invece mi stai solo incasinando il cervello!»

«Ayar, calmati», cerca di fermarla Edvin, ma lei scaccia via le sue dita che cercano di tenerla al suo posto e lo graffia con le unghie.

«Fottiti», ormai fermarla è impossibile, «tu sei un mostro e io non voglio collaborare a questa follia, non voglio farlo. Voglio andarmene da qui, cazzo. Cancellatemi pure i ricordi, non me ne frega niente di ricordarmi di voi, anzi, sarei felice di scacciarvi via dalla mia testa. Non resterò un secondo di più qui dentro. Tu sei pazzo», conclude, ormai ha raggiunto la scrivania ed è arrivata a sfiorare il petto di Kilian con la punta dell'indice, quasi a calcare quell'accusa ustionante.

Kilian le sorride, ha quasi l'aria di un angelo, un'espressione talmente dolce e rassicurante sul volto che Ayar si domanda come possa essere tanto mostro e tanto affascinante al tempo stesso, lui che ha gli occhi pieni di miele e di male, anche se forse del miele sono rimaste solo le punture delle api che bruciano e s'infettano. 

Poi le dita corrono sul suo viso, il secondo in cui le rompe l'osso del collo è scandito da un sonoro suono di vertebre spezzate e il respiro di Edvin che si blocca. Uno schiocco che rimbomba nel silenzio disilluso, un cuore che smette di battere per qualche istante. 

«Te l'avevo detto. Ayar non è adatta a questo ruolo.»

Quello che Ayar comprende solo in quel momento è che non importa se si è a destra o a sinistra delle sbarre. Non è questo a definire il ruolo di guardia e di prigioniero.

Entrambi, che siano da un lato o dall'altro, sono vittime.

La vera guardia è colui che ha in mano la chiave.

Ora che Ayar non ha più le chiavi, non ha nemmeno il potere. È sempre stata in gabbia.

Ha la sensazione di soffocare. Le dita corrono intorno al collo, dove trova uno spesso collare di metallo agganciato a una catena. La strattona tentando di liberarsi, ma è attaccata da qualche parte nel buio assoluto. Non vede niente intorno a sé, non c'è alcuna fonte di luce a illuminarla. Il pavimento è duro e freddo, si sposta con le braccia alzate cercando di capire dove si trova, ma scorge solo ruvide mura di pietra.

Questa volta è stato Kilian a ucciderla. Ricorda bene quel momento, il rumore delle ossa in pezzi, i suoi occhi carichi di livore e fallimento.

Urla, chiama i nomi di entrambi, ma senza ottenere risposta. Strilla finché non sente la bocca asciutta, la gola dolorante e secca, le tempie che pulsano di dolore sordo. Ha una strana sensazione di déjà-vù, come se avesse già vissuto una situazione simile in precedenza. Non può esserne certa perché il sistema ruba i loro ricordi, eppure forse, da qualche parte, quelle memorie sono conservate ancora nella scatola cranica. 

Kilian non è poi tanto diverso dal sistema, anche se lo disprezza e rinnega. Le sue vittime sono comunque sottoposte a delle torture, al tormento lungo, forse perfino eterno.

L'idea di rimanere in gabbia per sempre la pietrifica. Per sempre immersa nel buio, vittima delle fame e dei pochi sporchi ricordi che ha conservato.

Forse dimenticare non è poi così male.

Forse rimuovere il passato è meglio di conservarlo. 

E forse è stata precipitosa e affrettata, si è solo cacciata nei guai. Credeva di poter essere libera, di avere un potere decisionale e di potersi ribellare per cambiare le cose. 

Non è così. 

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