10. Pungersi con le spine
Knabe sprach: Ich breche dich,
Röslein auf der Heiden!
Röslein sprach: Ich steche dich,
Daß du ewig denkst an mich,
Und ich will's nicht leiden.
Il ragazzo disse: io ti colgo,
rosellina di brughiera.
La rosellina disse: io ti pungo,
così penserai a me sempre,
non sopporterò che tu mi colga.
Goethe - Rosellina del prato/Heidenröslein
♱
Ayar si sveglia quando Edvin smette di guardarla, ha la sensazione di sentirsi incompleta e depressa, giù di morale. Aspetta un po', in attesa che quella strana percezione della vita l'abbandoni in fretta, ma quando è trascorsa mezz'ora e sente dei passi in corridoio decide di alzarsi.
Apre la porta, cerca Edvin con lo sguardo. Ha le spalle tese, il collo invaso da disegni neri sul bianco abbassato, quasi senza forze. Cammina come un'anima in pena, una vittima tenuta in vita solo dal sadismo del suo carceriere.
«Edvin, vieni? Voglio parlare. Voglio sapere qualcosa dei tuoi ricordi, chi eri prima di arrivare qui.»
Edvin si irrigidisce a quella richiesta, sta per lasciarla sola senza fornire risposte, ma Ayar lo trattiene, le sue dita cercano la sua mano e lo tira all'interno della stanza, chiude la porta e appoggia la schiena contro il legno, quasi come se credesse di poterlo davvero trattenere lì con la sola presenza di quel corpo minuto e disarmato. Se Edvin volesse uscire lo farebbe, ma si trattiene.
«Tu ricordi chi eri prima di arrivare in questo posto?», chiede, perché non è sicura di questo. I ricordi vengono resettati, quando li perdi è tutto finito, e Ayar vuole sapere se l'ipnosi di Kilian funziona davvero e un giorno avrà ogni pezzo al posto giusto. Ha l'umore nero, quella notte, e non sa nemmeno perché.
«Sì, ricordo tutto.»
«Perché non ti hanno mai cancellato la memoria o perché hai ritrovato ogni istante?»
«Kilian può farlo davvero, Ayar. È questo che vuoi sapere?»
Ayar vorrebbe avere il suo talento nell'anticipare mosse, prevedere pensieri che non ha pronunciato ad alta voce. Annuisce, quasi meccanica. «Mi racconti la tua vita? Voglio sapere cosa ricordi del passato. Non sei molto più grande di me, se ricordi tutto vuol dire che sai anche com'è successo tutto questo casino. Ho ricordato un momento felice, con Kilian. Quando avevo una famiglia, quando non ero da sola.»
Edvin legge nelle sue ultime parole la malinconia di una vita grigia e silenziosa. La comprende, quelle parole lo feriscono proprio perché non può fare a meno di notare quanto siano simili e diversi al tempo stesso. Ha sentito quegli stessi pensieri pesare, ed è come parlare con una piccola parte di sé quando ha lei davanti. C'è empatia fra loro, ed è una sensazione nuova e strana. Non si è mai sentito simile a un altro essere umano. C'è stato un periodo in cui non era solo, anche se questo non bastava a renderlo felice. E sì, ricorda com'è cambiata la situazione, ma non crede che lei sia pronta ad ascoltare.
Edvin si siede sul bordo del letto, le pupille perse lontano, come se non la vedesse affatto.
«Il primo ricordo che ho riguarda mio padre», dice, più a se stesso che a lei. «Avevo tredici anni, credo. Lui e mia madre avevano litigato e c'era nell'aria l'odore di cibo bruciato. Era un tanfo nauseante, mi dava il voltastomaco. Papà era tornato da lavoro e si era arrabbiato con mia madre.»
Ayar abbandona la porta per sedersi al suo fianco. Piano, quasi con il terrore di risvegliarlo da quella calma che non gli appartiene.
«Quando si arrabbiava era un cazzo di casino», la voce gli si abbassa appena, diviene tremolante. Edvin sembra vulnerabile, fragile, ed è la prima volta che mostra quel lato ad Ayar.
Un Edvin con le sclere arrossate dalle lacrime e la lingua meno biforcuta e crudele.
«E io ero stanco. Stanco di sentirli urlare, stanco di quell'odore, stanco del dolore alle tempie e di sentirmi impotente. Sono entrato in cucina e ho trovato mia madre a terra con il labbro sanguinante. E l'ho colpito. Ho sentito solo la rabbia, era tutto nero. L'ho colpito più volte, fino a farlo cadere, fino a macchiarmi le mani di sangue. Poi mi sono fermato. Ho smesso solo perché me l'ha chiesto mia madre, lei lo amava nonostante tutto. Penso che non avrei dovuto, me ne pento ogni giorno. Ma non è più importante. Forse l'ho salvata quel giorno, ma non so com'è finita.»
Ayar si è immobilizzata. Le sembra di sentire il dolore dell'altro, di custodirlo nella sua memoria, di vedere quelle scene come di fronte a uno schermo, anche se sono solo raccontate a voce.
«Qui arriva la parte assurda. Mio padre si è calmato e mi ha detto che era fiero di me. Ricordo ancora il suo viso ricoperto di sangue, e quel sorriso... mi ha guardano negli occhi e ha detto che finalmente ero diventato un uomo. Era felice che l'avessi fatto. Era felice che avessi reagito, anche se questo comportava il suo volto livido e i denti macchiati di rosso.»
Edvin ricorda bene come si è sentito allora, quelle sensazioni sono marchiate a fuoco dentro di lui, dove nessuno può vederle e comprendere come sia stata modellata la sua psiche.
«Ho imparato che se vuoi sopravvivere in un mondo del genere devi essere un mostro come gli altri.»
Ayar ha un brivido freddo quando sente quella frase.
«Tu non sei un mostro», dice, e le viene automatico appoggiare le dita della mano sulla sua schiena, anche se è un contatto a cui non è abituata, eppure trascina le unghie in dei leggeri movimenti circolari, cerca il suo sguardo per convincerlo di quella verità. «La vita è difficile e spesso dobbiamo fare cose di cui non andiamo fieri.»
Edvin ha un sorriso amaro sul volto, un ghigno terrificante. «Non siamo costretti. Nessuno ti obbliga a essere crudele.»
Per Ayar, quella è una doccia ghiacciata. «Il virus sì.»
«La fame puoi controllarla. Puoi trattenerla fino a spegnerti e smettere di ferire gli altri.»
«È come morire», obietta Ayar.
«No, la morte sarebbe una salvezza. Quella a cui vai incontro se non ti nutri non è morte, è molto peggio. È l'eternità. Vivresti affamato in eterno, senza mai smettere di esistere. Senza mai smettere di convivere con te stesso. Da solo. Vedi tutti gli altri morire, ma rimani vivo. E debole.»
Ayar aggrotta le sopracciglia, confusa. «Noi non possiamo morire?»
«Certo che no, non puoi nemmeno invecchiare», Edvin lo dice con tranquillità, ma è una notizia che sconvolge l'altra.
La mano di Ayar si è fermata sulla sua schiena, sembra distratta e lontana, persa in chissà quali pensieri. Ha smarrito la realtà, non conosce più le leggi del suo corpo. Da quanto tempo è così?
«Per questo il mio corpo non cambia più», realizza. È intrappolata nel corpo di una sedicenne, eppure ha venti anni da un po'. Non ha mai creduto che potesse essere legato al virus. Non si sa molto a riguardo, all'inizio si teneva nascosto alla maggior parte della popolazione. «Da quanto tempo sei vivo?»
«A novembre saranno ventisei, non sono poi così vecchio», dice Edvin, e Ayar ha gli occhi spalancati. Edvin ha l'aspetto di un ragazzo più giovane, non gli ha mai dato più di diciotto o diciannove anni. Il suo viso non è segnato dall'età, rimane efebico, seppur spigoloso.
«E Kilian, invece?», chiede quindi, curiosa.
«Non ne ho idea», Edvin scrolla le spalle, «non ho ben chiaro nemmeno che cosa sia, sinceramente.»
«Lui non è come noi?»
Edvin scuote il capo. «No, certo che no.»
«Perché è diverso?», tenta allora Ayar. Sta ottenendo delle informazioni e non può farsi sfuggire quell'occasione. Parlare con Edvin è un miracolo, è stupita dalle sue risposte.
«Kilian non ha bisogno di sangue, né di cibo. Lui... non si nutre di nulla. Beve solo acqua e passa tante ore a meditare, te l'ho già spiegato. Io non so come funziona.»
Sembra quasi che si stia riferendo a un robot, una macchina di cui non conoscono gli ingranaggi.
Ayar rimane in silenzio. La mente tenta di elaborare quelle informazioni, ma non trova nessun collegamento. Non sa il perché, non sa che cos'è, ma per quella notte le vanno bene quelle informazioni spicciole.
Edvin si rovista nelle tasche, porta una delle sigarette riposte in un pacchetto sgualcito alle labbra. «Ti ho rivalutata, sai? Non sei poi così male.»
Ayar sente le guance inviperirsi. «Che vuoi dire?»
Non è abituata ai complimenti, nessuno lo è.
«Sai ascoltare.»
«Tutti quelli che hanno l'udito possono farlo», sottolinea crudele.
«No. La maggior parte di loro quando ti ascolta sta solo aspettando il proprio turno per parlare.»
Una verità che ferisce, ma ineluttabile.
«Le storie degli altri sono preziose, vanno conservate», mormora Ayar.
Edvin rimane in silenzio per un po', sbuffa nuvolette di fumo che rimangono rafferme nell'aria in bolle amorfe. «È per questo che ti ha scelta, allora», sembra parlare solo con se stesso e non volerla rendere partecipe di quelle parole.
Si volta nella sua direzione. Sono vicini, così vicini che Edvin lo sente con tutto se stesso che non dovrebbero, che è proibito e sbagliato. Lo avverte quando le emozioni cominciano a vorticargli dentro, le viscere che si accartocciano tutte, il cuore che batte vivo. Le sue pupille si perdono nel volto dolce di lei, nelle iridi chiare come vetro, nelle guance arrossate sulla pelle pallida e che tingono e colorano quel viso altrimenti bianco. Kilian l'ha scelta perché è bella come le donne dei quadri, imperfetta con le sue efelidi sulle gote, puntini in disordine e costellazioni di sogni irrealizzati. L'ha scelta perché Ayar è arte, e a Edvin piace l'arte, Kilian ha fatto in modo che iniziasse a coinvolgerlo. Eppure per la prima volta gli sembra di voler rovinare quella bellezza, distruggerla per sentire di poterla avere. È quasi come se non avesse il controllo del corpo quando la punta del suo naso sfiora quella di lei, è una carezza gentile. Sente il respiro lento sulla pelle, le labbra sono vicine e invitanti, tanto che ha voglia di sperimentare ciò che ha visto solo nei film, ciò che ha letto nei libri, desiderando di provare quelle vecchie emozioni, vive e distanti dalla società attuale.
Non può farlo, anche se la sua mente lo supplica di lasciarsi tutto alle spalle, di non pensare al sistema e alle regole. Però Edvin non ci riesce, qualcosa lo ferma.
La paura di soffrire.
Si tira indietro, balza in piedi e le dà le spalle. «Devo andare.»
Ayar rimane immobile, i polpastrelli dell'indice e del medio appoggiati sulle labbra, quasi a sfiorare qualcosa che ha desiderato ma che non c'è stato, e ora quasi si sente in colpa. In colpa per averlo bramato, pur non avendo commesso quel peccato, e arrabbiata per non averlo avuto, per non aver insistito.
Edvin l'ha lasciata lì, sola con il suo vuoto, e non le piace.
Si sforza di addormentarsi di nuovo, ma non riesce più a prendere sonno.
♱
«Raccontami che cosa vedi, Ayar.»
La voce di Kilian la riporta alla triste realtà.
Ayar sospira e si sforza di fornire un quadro chiaro della situazione.
«Sono sempre io, ho la stessa età dell'altra volta. Mi sembra di aver di fronte la stessa scena che ho visto. Non è cambiato niente, ci sono io in giardino», dice, concentrata tuttavia a guardarsi intorno in quel mondo che è rimasto imprigionato nella sua mente. Un universo che non può raggiungere senza un traghettatore esperto che riesca a condurla nella profondità della sua mente. Kilian svolge quasi il ruolo di Caronte e navigano per acque torbide.
«No, non è vero», si smentisce qualche istante dopo, «mi ha punto. La rosa che ho raccolto, le spine.»
La sua voce appare più confusa, un velo di terrore la plasma e fa scendere di qualche ottava.
«Sto sanguinando», dice, e Kilian può leggere la paura sul suo volto.
Sente le dita dell'ipnotista correre sulla sua fronte, carezzarla appena spostandole i capelli vermigli dal viso. «Non sei davvero ferita, è solo un ricordo. Respira, Ayar.»
Si sforza di eseguire quel comando, anche se è difficile controllare il corpo. È come se non fosse davvero lì. «Ora sto piangendo, mi fanno male i palmi, sono feriti», mormora, la voce che s'incrina in un previsione del sale che le bagna le ciglia e traccia percorsi sulle guance.
«Gli ho chiesto io di piantare le rose. Bianche e rosse. I roseti nel giardino sono pieni di petali e spine.»
«A chi lo hai chiesto?», domanda Kilian.
«A mio padre, li ha piantati per me. Lui... aveva tante terre piene di frutti e gli anfibi sempre sporchi di terra. Non riesco a vedere il suo viso, ma so che ha gli occhi scuri. Sono diversi da quelli miei e di mamma.»
«Che cosa provi quando lo vedi, Ayar?»
Ayar ammutolisce. Non sa descriverlo, ma è certa di sentire l'ansia che scorre in ogni vena e non si arresta. «Ho paura di lui.»
«Ti fa del male?»
«No», Ayar risponde in fretta, quasi senza pensarci. Se avesse il controllo del suo corpo scuoterebbe il capo. «Sono le spine che mi fanno male. Io... io voglio uscire.»
Quella è la prima volta che Ayar gli chiede di andare via, di svegliarsi. Ha già avuto paura lì dentro, ma è diverso. La sensazione è destabilizzante, se rimane lì per un altro minuto perderà se stessa.
«D'accordo», acconsente Kilian, «conterò fino a cinque, poi tornerai indietro.»
Ayar non risponde, ma è un chiaro cenno d'assenso, quindi i numeri cominciano a rincorrersi fino all'ultimo.
Apre gli occhi.
Odore di sangue. Lo sente chiaramente, da qualche parte. Non è in quella stanza, però, perciò si concentra su Kilian o presto cominceranno a dolerle le gengive. Si guarda le mani, convinta che provenga da lì, ma sono pulite, non ha alcuna ferita.
«Beh, abbiamo finito prima del previsto», dice, tirandosi su dalla sedia. «Ora però devo andare.»
Kilian la guarda immobile per un po', poi annuisce flebile, perciò Ayar si fionda fuori dalla stanza e si guarda intorno.
«Ayar, tu ed Edvin avete da fare, l'ho già avvisato, raggiungilo appena puoi.»
Lo sente appena, è troppo distratta.
Respira. Sì, c'è odore di sangue nell'aria.
Deve trovare Edvin e farlo subito.
No. Non può andare da lui, non può cercarlo di continuo. Ha bisogno di respirare e riprendersi, di stare da sola.
Raggiunge in fretta la sua camera, svolta in corridoio e poi si infila oltre la porta, richiudendosela alle spalle.
I suoi occhi saettano sul letto al centro della stanza.
Si avvicina, c'è una macchia rossa lì al centro. È una rosa, Ayar non fa fatica a comprenderlo. Petali sanguigni che sembrano appena sbocciati, un lungo stelo di un verde vivo e veleno assieme, qualche foglia sporadica che la decora. E poi le spine, le stesse spine che le pungono l'indice appena prende il fiore, le distruggono dita e palmi.
La sua pelle si ferisce e sanguina, Ayar lascia cadere la rosa sul pavimento e porta le mani davanti agli occhi, osservando i tagli che lacerano l'epidermide bianca, cancellano e sopprimono il bianco.
Chi ha lasciato lì quella rosa? Perché?
È come nei ricordi che ha riportato a galla. Quel fiore le fa male, ed è un dolore che brucia dentro e fuori.
Ayar s'inumidisce le labbra. L'odore che sente non è quello del suo sangue, ne è sicura. Ha bisogno di vederci chiaro.
Esce dalla sua stanza e si precipita in quella di Edvin. Sente che è da lì che proviene e non può permettere che del cibo venga sprecato mentre lei sta morendo di fame.
Bussa con le nocche sul legno, anche se può prevedere la risposta dall'altro lato.
«Ayar, sparisci da lì. Non voglio parlarti.»
Il suo mento potrebbe toccare terra per l'espressione che le si dipinge sul viso.
Abbassa la maniglia ed entra comunque, lieta di constatare che non ha chiuso a chiave – anche perché non ci sono chiavi da nessuna parte, in casa.
Edvin è seduto sul suo letto sfatto, l'odore del sangue è troppo intenso per essere ignorato. Ha i capelli scompigliati e indossa una felpa nera e troppo grande. La punta delle sue dita brilla d'icore e ad Ayar luccicano gli occhi. Si passa la lingua sul labbro inferiore, i canini che spingono contro le gengive.
«Perché lo stai sprecando quando io muoio di fame?», dice, il tono acido e offeso. Si avvicina a lui, ma lo fa lentamente, ha quasi il terrore che possa fermarla. «Preferisco qualcuno che mi regali il suo sangue, non delle rose che pungono.»
Edvin la congela con gli occhi, gli basta sollevarli sulla sua figura per immobilizzarla e farle sentire troppo freddo, un gelo che danza fra le ossa e le stritola. «Chi ti ha detto che volevo farti un regalo? Dei fiori, poi? Dove dovrei prenderli?», chiede, e Ayar si rende conto che la sua recita è ben fatta, perché non pare stia mentendo.
Eppure Ayar sa che qualcuno deve aver posizionato quella rosa sul suo letto e programmato che si ferisse. Non può essere stato Kilian, era con lei.
E Edvin ha le dita ferite, gocciolano sangue. Lo sente nell'aria, è un odore dolce e invitante, la invita a perdersi, a smarrirsi nella fame. È come il miele quando si ha mal di gola.
«Okay, non sei stato tu, non importa. Perché sanguini?», chiede allora, insistendo, e si sblocca per raggiungerlo. Non le importa che Edvin non voglia averla vicina, perché lei vuole interrompere le distanze eccome, è troppo attirata da quel profumo per fermarsi oltre e stare buona. I canini distruggono la carne. «Non mi interessa davvero, però dammene un po', ti prego», aggiunge in un mormorio flebile, quasi inudibile, e lo guarda con pupille che luccicano di fame e desiderio, le labbra umide di saliva e rosse come fragole. Ayar si è spinta fino a intrappolarsi da sola fra le sue gambe. Si rinchiude in una gabbia, ma sa anche di essere la vittima che raggiunge la tana del lupo. Ha comunque lei il potere.
Edvin solleva l'indice ferito, c'è un piccolo taglietto che gli incide in verticale la prima falange. Lo spinge fra le sue labbra solo perché sembrano morbide e invitanti, solo per accontentarla e farla tacere, spegnerla per un po'.
Ayar insegue la goccia di sangue con la lingua e poi gli mordicchia appena la pelle, non vuole causargli altre ferite, anche se scegliere di non morderlo è difficile. Una delle cose più complicate che abbia mai fatto nella sua vita. E allora si accontenta di sentirne appena il sapore, di lasciarlo scivolare in piccole gocce lungo la gola.
Lo sente sospirare, e allora si ferma, apre le labbra e si libera del suo indice, anche se non le dispiacerebbe averne ancora. «Perché sei così triste?», chiede, e Edvin quasi sorride nel vederla tanto preoccupata e curiosa, ma c'è qualcosa che lo turba e per tanto non riesce a esibire più di una smorfia.
«Non importa», dice con tono abulico, «però ti do il permesso di farmi male», aggiunge in un soffio, sposta le dita sulla sua nuca per spingersela nell'incavo del collo, certa che possa sentire il battito del cuore, sicuro che non possa resistere alle pulsazioni incessanti della giugulare. Quasi tamburi ritmici e festosi, una melodia che fa attorcigliare lo stomaco.
«Mordimi. Sono io che te lo sto chiedendo», insiste quando vede che lei si è bloccata, il suo respiro gli fa il solletico, ma i denti non lacerano la carne.
E solo dopo quell'ordine esplicito Ayar decide di accontentarlo. E lo fa solo per la fame, perché lui non lo chiederà un'altra volta – forse non lo farà mai più – e perché è un'occasione unica, rara. E in fondo le piace affondare i canini oltre la pelle, sentire le vene che si tagliano e strappano, tirare via l'icore per vivere più a lungo, per essere più forti. Edvin ha un sapore che non è paragonabile a quello degli umani, e le piace.
E forse non sarà mai più in grado di bere altro liquido in sacche asettiche, perché ora che ha provato la sua pelle non può farne a meno, ora che è diventata abile a trovare le sue vene e che può farlo a occhi chiusi, certa di aver affondato le punte acuminate delle zanne nel posto giusto.
Le dita di Edvin sono sulla sua schiena, appoggiate quasi come se fosse morto, incapace di muoversi. Non la tocca, anche se la tiene vicina. Non c'è amore, solo terrore di sfiorarla, e al tempo stesso non può farne a meno. Quel calore così umano quando violano gli spazi, i battiti rapsodici del cuore che continuano a suonare con dolcezza e creano una melodia che solo loro possono ascoltare.
I canini di Ayar si ritraggono ed Edvin si sente vuoto. La sua gelida assenza, quando si tira su, gli fa avvertire freddo. Senza di lei fa troppo freddo.
Cerca i suoi occhi in quel mare d'angoscia e sensi di colpa, cerca il cielo anche se sono sotto il suolo e non c'è traccia di luce, perché lei illumina il buio che ha dentro, sembra essere in grado di accarezzare i suoi demoni e giocarci, farli sentire parte di lui, e non difetti inadatti e da rimuovere. Lei che lo capisce, che ha sempre lo sguardo dolce e imperlato di lacrime, che soffre per i sensi di colpa e si sente un mostro, quando non ha colpe, come in quel momento. Il sale oltre le ciglia che traccia linee sulle guance, i pensieri la distruggono.
Le ginocchia di Ayar sono ora ai lati del suo bacino ed Edvin non vorrebbe sentirsi in quel modo, vorrebbe poter controllare e governare le emozioni e le sensazioni, ma è un sogno irrealizzabile. Respira, si sforza di farlo con il collo che sanguina rosso e imbratta il cuscino bianco, ma non importa perché ha lei di fronte e una disperata voglia di assaggiare la sua pelle, non necessariamente per conficcarci i denti all'interno e tirarle via un po' di vita. Gli basterebbe sfiorarla con la lingua, percorrerla e scoprire se è dolce come il suo sangue, morderla piano, abbastanza per arrossarle e illividirle la pelle, ma non a sufficienza da far scorrere l'icore in fiumi scarlatti.
È una guerra di sguardi, un maremoto di emozioni, lo scoppiettio dei fuochi d'artificio fra le costole, farfalle che volano nella gabbia toracica. È paura del peccato, bisogno di toccarsi e spogliarsi dei vestiti che comprimono il corpo e sembrano essersi fatti all'improvviso stretti e scomodi.
Le dita di Edvin corrono sulla gola di Ayar, la spinge sotto di sé perché non riesce ad averla addosso e sentirsi vittima. Vuole avere il controllo, vuole sentirla gemere, vuole che lo supplichi di essere toccata anche se non conosce nemmeno le parole adatte per chiederlo, anche se forse non sa neppure che cosa vuole – ed Edvin questo lo comprende, perché in fondo a nessuno è dato sapere che il sesso esiste, che è piacevole e bizzarro, che è come unirsi e sentire le stesse sensazioni.
Che in fondo è anche arte, e come l'arte è proibito.
In fondo è anche amore, e come l'amore è proibito.
Non c'è dolcezza nel modo in cui cerca le sue labbra e vi trova il sapore del suo sangue mescolato allo zucchero. Una miscela dolce e amara, tanto che Ayar sembra in grado di accendere i colori, di farli brillare. Vuole scoprire la sua pelle bianca, privarla dei vestiti, conoscere i posti di lei che non ha mai visto, imparare a ricordare ogni neo e cicatrice, ogni strana imperfezione per imparare ad apprezzarla. Venera il suo corpo come potrebbe venerare quello di un dio, perché in fondo è quello che sono. Immortali, forti, condannati a un'eternità lunga e grigia, eppure nelle loro vene scorre vita sempiterna e ineluttabile. La respinge e la chiama, la vuole e rinnega di volerlo perché non può sentirsi così debole, fragile, esposto ai sentimenti che il mondo rinnega e sopprime, cancella.
Non vuole dimenticarla, vuole ricordarla per sempre, custodire quel segreto e cristallizzare nella memoria il sapore delle sue labbra, il profumo della pelle quando scende a scoprirle l'addome e le sfila via la camicia, sbottonandola di fretta, con le dita lunghe e scosse dai fremiti le fa saltare alcuni bottoni. La morde, ma senza lacerarle la pelle. La marchia, le lascia ematomi appena la sfiora, ha la pelle così sensibile e pallida che ogni rossore è un lampone o una mora che nasce sul bianco e ha perfino lo stesso dolce sapore.
Ayar ha le palpebre abbassate e gli occhi chiusi, non protesta, non fa domande e non si sottrae – forse le piace perfino, Edvin vuole credere di non essere l'unico sbagliato. L'unico che ama il dolore, l'unico a volerne sentire di più e ancora in un ciclo infinito.
Le sue dita sono arrivate all'altezza dei pantaloni quando è costretto a fermarsi. A un passo dall'averla, quando ogni paranoia è stata annientata e prevale solo il bisogno di amarsi, è quello l'istante in cui il rumore di un bussare fastidioso alla porta li rigetta bruschi nel mondo reale.
Dove ciò che stavano per fare è vietato, proibito, peccaminoso.
Un gesto da annientare, qualcosa che merita una punizione estrema, tanto da creare traumi impossibili da risanare e lenire.
Ayar si tira su di scatto, si abbottona in fretta la camicia e la infila dentro i pantaloni, si alza dal letto. Sono saltati alcuni bottoni, perciò rimane comunque un po' aperta e la mette a disagio.
Kilian capirà tutto.
Edvin ha il collo sporco di sangue, la ferita fresca che ancora gocciola, ma per sua fortuna ha anche tutti i vestiti addosso, quindi può alzarsi e afferrare la maniglia, aspettare che Ayar si ricomponga in fretta prima di aprire, sebbene sappia che ciò che hanno fatto – quasi – sia già venuto a galla.
Dall'altro lato c'è Kilian, un'espressione indecifrabile sul volto – forse perfino più del solito – e le braccia incrociate, in attesa di essere aperto. «Sono andato a controllare le ragazze. Non mi pare che abbiate fatto ciò che vi avevo chiesto.»
Edvin sospira, e Ayar si domanda che cosa intenda dire e non è in grado di darsi una risposta. Non aveva nulla da fare, dopo l'ipnosi. Ed è troppo scossa per pensare a qualsiasi cosa e connettere il cervello.
«Stavamo per andare», dice Edvin, «non mi avevi dato un orario preciso», prosegue poi, scrollando le spalle con noncuranza.
Ayar può vedere un baluginio oscuro negli occhi di Kilian, l'ombra di un demone che non è ancora pronto a mostrarsi, a venire allo scoperto. Darebbe di tutto per poter oltrepassare le sue barriere e comprendere cosa nasconda nella sua mente. Per solo un momento le sembra di capire il suo sguardo, captarne illusoria lussuria quando scivola con gli occhi sulla linea morbida del seno che non può coprire a causa dei bottoni scuciti.
Edvin esce dalla sua stanza e invita Ayar a fare lo stesso.
Il primo pensiero che ha lei, tuttavia, è che deve cambiarsi. «Prima passo in camera, ti raggiungo giù», dice, e scivola via da quella situazione ansiogena.
Quando Ayar torna fra le sue mura sicure, e lo fa anche e soprattutto per prendere un respiro profondo e rilassarsi cinque minuti prima di raggiungere le vittime, si rende conto che non c'è nessuna rosa sul letto, non ci sono spine.
E le sue mani non sono ferite, ora che le osserva bene.
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