8. Ribelle
Per un attimo mi sembra di scorgere una nuvola. Poi il momento passa e io mi accorgo che è un'illusione creata dai miei occhi. Li ho tenuti ostinatamente aperti e adesso fatico a mettere a fuoco il cielo artificiale sopra di me, che risulta poco nitido e striato di macchie biancastre. Strofino le palpebre con le dita e mi volto verso il timer, dove i numeri che scorrono – simboli rossi su uno sfondo chiaro – indicano quanto tempo devo stare ancora rinchiusa qua dentro. La mia fortuna è non soffrire di claustrofobia. Lo scorso anno il povero Marcus Linn ci è restato secco, nonostante il cielo artificiale e le illusioni ottiche che fanno sembrare la bara in cui sono infilata più grande.
I numeri arrivano allo zero, lampeggiando in modo fastidioso, ma io capisco di essere giunta alla fine grazie al suono metallico che annuncia l'apertura del coperchio. Finalmente, cazzo. Lo spalanco ed esco dalla cassa a raggi ultravioletti, dove tutti noi siamo costretti a passare alcune ore al mese per evitare che nell'organismo si verifichino carenze di vitamina D e di serotonina. Puttanate. Per me è sempre stata una scusa utilizzata dagli altri per evitare che stessi sotto i piedi in momenti inopportuni: quale soluzione migliore, se non rinchiudermi in un luogo angusto e fastidiosamente luminoso per alcune ore? Mi rivesto in fretta, protetta da un paravento in lamina sottile, per lasciare la bara della tortura al prossimo disgraziato. Infilo i pantaloni da allenamento e la maglietta che lascio scivolare sul torace, mentre quasi nello stesso tempo mi abbasso ad allacciare le stringhe degli scomodi scarponcini che quelli della Distribuzione Viveri mi hanno propinato. Ho distrutto le mie scarpe qualche settimana fa e l'unico paio disponibile sono questi odiosi e scomodi stivali con i lacci, provenienti probabilmente da un equipaggiamento dei Medius. Ma cos'hanno al posto dei piedi, zavorre? Lamentandomi ad alta voce, rinuncio ad annodare le stringhe e le inserisco noncurante all'interno del cuoio scuro. Finisco di sistemarmi la maglia ed esco in tutta fretta, dando un'involontaria spallata alla donna che aspetta paziente il suo turno. Mi guadagno un insulto poco signorile – allora non sono l'unica a conoscere quella parola! –, ma non ci faccio caso ed esco finalmente dalla stanza, dirigendomi verso il campo d'addestramento. Ho già perso fin troppo tempo e ho bisogno di qualcosa per sfogarmi. O, meglio, di qualcuno: non mi spiego il motivo, ma ho sempre trovato liberatorio più di ogni altra cosa prendere a pugni una persona reale. Forse perché le persone soffrono davvero, mentre le simulazioni si annullano semplicemente senza darmi alcuna soddisfazione.
Da quando ho fatto la mia visita di piacere nell'ufficio di Maia, ho tentato ben tre volte di raggiungere Cosmir, ma mia madre diceva sul serio nel minacciarmi di prendere provvedimenti. La prima volta ho beccato un richiamo. La seconda un pugno in viso: l'ho bloccato proprio quando la guardia credeva di avermi colpita. Illuso. La terza, però, sono stata sospesa. Sospesa. Per tre giorni, da ogni tipo di allenamento.
Oltre a essermi annoiata a morte, nel badare unicamente e costantemente a Keegan – che era diventato il mio unico impegno oltre alla punizione in mensa –, mi sono anche giocata la prima uscita mensile. Samir non ha voluto saperne e non mi ha permesso di prendere parte alla spedizione che, secondo i miei calcoli, dovrebbe essere di ritorno tra pochi giorni. C'è da dire che mio fratello è stato molto soddisfatto della decisione del mio Comandante, felice di avermi finalmente tutta per lui. Non ho dato di matto solo per non peggiorare la situazione e rischiare di essere sospesa a vita perché, per quanto voglia bene a Keegan, passare settantadue ore fianco a fianco con lui mi toglie il fiato. In più, mentre bighellonavo per i corridoi delle zone autorizzate, mi hanno anche avvisato che dovevo fare tappa nella bara delle torture per la mia razione mensile di sole in scatola. Come se un periodo fastidio al mese, per il mio corpo, non bastasse già di per sé.
In poco tempo raggiungo il campo, mi libero degli scarponi scomodi e inizio a fare alcuni giri di riscaldamento. Correre non è mai stato il mio forte, ma ammetto che da quando sono entrata a far parte dello Squadrone è un'attività che non mi pesa più di tanto. Solitamente Nathan corre con me, spronandomi e rallentando il passo per prendere in giro la mia lentezza. Lascio da parte i ricordi e mi concentro sul modulare il fiato e tenere un ritmo costante. Scavalcare i finti detriti ed evitare le buche a piedi scalzi non è il passatempo più felice del mondo, ma non posso nemmeno indossare quegli stivali, rischierei di prendere una storta o rompermi qualcosa.
Quando mi ritengo soddisfatta, dopo aver eseguito il percorso per circa cinque volte, riprendo fiato e recupero un po' d'acqua. Non so se sia dovuto al fatto che siamo praticamente rinchiusi in un enorme contenitore stagno, ma qui sotto fa sempre fottutamente caldo. È questo uno dei motivi per cui adoro le missioni. Sono consapevole del fatto che mi allontanino dai miei fratelli e che potrei non tornare mai più, ma per me rappresentano gli unici momenti di libertà che mi posso permettere. Per settimane agogno la vera luce del sole, che scalda la pelle in modo lieve e non si limita ad accecare la retina. O il vento, che mi accarezza le parti lasciate scoperte dalla divisa. O ancora la terra, che scrocchia sotto il peso del mio corpo. Potrei sembrare fin troppo romantica, ma non ci si può accorgere delle cose essenziali se non quando queste mancano. Un po' invidio Keegan, che non conosce il mondo esterno: non potrà mai sapere quello che si perde, non sentirà il desiderio frustrante che ogni giorno mi spinge a dare il meglio solo per essere scelta per la missione. Non capirà mai l'agonia dell'attesa, mentre si contano i giorni che mancano per uscire.
È snervante stare chiusa qui sotto.
Mi dirigo alla teca delle armi e lascio vagare lo sguardo sulle opzioni offerte. Sorvolo sulle pistole e sulle altre armi da fuoco, inutili contro quelle lattine ambulanti, ma purtroppo nell'addestramento sul campo non ci è permesso usare armi elettriche, le uniche che sono davvero letali per loro: l'elettricità è un bene prezioso ed è meglio non usare inutilmente le cariche se possiamo farlo in simulazione senza sprechi. Faccio scorrere gli occhi su archi e balestre, indecisa se dare prova della mia bravura nella precisione. Passo oltre, scuotendo impercettibilmente la testa, e arrivo alla mia sezione preferita. Le armi da taglio. Con mano bramosa apro lo sportello e accarezzo i manici dei coltelli, indecisa su quale prendere. Sono disposti in orizzontale, uno di fianco all'altro, quattro o cinque per ogni tipologia. Machete, coltelli da caccia, a scatto o con lama fissa. Alla fine scelgo quelli da lancio, stringendone quattro per mano, e mi avvio verso la zona di tiro che si trova dietro la ricostruzione di un cinema. Una delle tre facciate visibili presenta degli indicatori neri e rossi, istruzioni su dove mirare. La muratura è costellata da piccoli segni, alcuni netti e altri più oblunghi, come graffi lasciati per sbaglio. Soppeso il primo coltello nella mano sinistra, tastandone il manico liscio e freddo che si adatta perfettamente al mio palmo. Con un movimento repentino, faccio scattare il braccio in modo deciso, staccando solo all'ultimo la presa dal metallo. Il coltello centra perfettamente la piccola x nera tracciata quasi all'estremità della parete. Lascio andare il fiato che avevo trattenuto, soddisfatta.
Un nuovo ricordo non può che colpirmi: è stato Nathan a insegnarmi a lanciare, quando ancora non ero autorizzata a mettere le mani su alcun tipo di arma. Non ho ancora la certezza che sia morto, ma il suo fantasma aleggia già in ogni dove, e questo rende la mia vita più merdosa di quello che già è. Arrabbiata, sbaglio il lancio successivo e quello dopo ancora, finché non mi ritrovo a scagliare alla rinfusa le lame, rischiando di fare del male unicamente a me stessa, più che ad altri, visto che nel campo d'addestramento sono sola. Tiro l'ultimo coltello, accompagnandolo con un urlo proveniente dal profondo del mio stomaco.
«Andate tutti a fanculo!» urlo al campo vuoto. Quello che mi risponde è un silenzio bianco e pesante, interrotto solo dal tintinnio della lama che, come per prendermi in giro, si stacca dal muro e cade al suolo. Sbuffo sonoramente e mi appresto di nuovo a recuperare i miei coltelli. Solo quando mi volto scopro di non essere effettivamente sola.
«Vedo che la pazzia è un fattore di famiglia, Lightborn. Tuo padre deve averti trasmesso qualche gene malsano» articolano le sue labbra sprezzanti. Nella mano destra tiene una delle mie lame, mentre la fa scivolare leggiadramente tra le dita. Mi irrigidisco. Trattengo il commento che vorrei fare e lascio che la rabbia causata dal suo riferimento a mio papà defluisca da me con un respiro.
«Fottiti, Diane» le rispondo. «Stai alla larga dalla mia zona di allenamento.»
Le volto le spalle, ritornando in posizione e recuperando la mia fermezza. Chiudo gli occhi, inspirando per concentrarmi virtualmente sul bersaglio. Quando li riapro lascio che sia il mio braccio a guidarmi e per ben sette volte centro l'obiettivo. L'ottavo coltello è ancora nelle mani della bionda. Rassegnata le rivolgo un'occhiata sprezzante, nella muta richiesta che spero i suoi pochi neuroni le permettano di cogliere. Rivoglio l'ottavo coltello per dimostrarle che, sul campo di battaglia, non perdo mai il controllo.
Diane si dà una spinta con la spalla, fino a ora appoggiata alla parete di un edificio – dovrebbe essere la ricostruzione di un supermercato, ma non me ne sono mai curata – e mi raggiunge in pochi passi. Senza mai staccare lo sguardo da me si posiziona alla mia stessa altezza, poi lancia il coltello. Bel tiro, penso.
«Rosso» le faccio notare, riferendomi al segnale a cui il suo lancio si è avvicinato. Sulla parete ora ci sono otto coltelli, conficcati per metà lama nell'intonaco: sette sono esattamente sui segnali neri, ma uno dista qualche centimetro da una x rossa. I colori contraddistinguono la difficoltà del lancio e il più scuro indica gli obiettivi meno semplici. Quella che è riuscita a centrarli tutti sono, ovviamente, io.
«Se fosse stato il tuo cuore, quello, ti avrei uccisa comunque» si giustifica, con un'alzata di spalle.
«Se fosse stato il tuo, invece, non l'avrei scalfito minimamente, nemmeno con uno dei miei lanci» replico io. Una dannata senza cuore, ecco cos'è. Senza aspettare che comprenda la mia risposta, recupero le lame.
«Così mi lusinghi, piccolo prodigio. Attenta, potresti anche entrare nelle mie grazie» mi dice mentre sto per prendere l'ultimo coltello.
«Non ci tengo particolarmente, a essere sincera.» Riesco, con un piccolo balzo, ad afferrare il manico e staccare la lama dal muro. Sposto con il piede, sempre senza scarpe, un pezzo di intonaco che è caduto a terra durante uno dei lanci precedenti e poi rivolgo ancora la mia attenzione alla ragazza. «Cosa ci fai, qui, Gruseling? Perché non sei in missione?» le chiedo, realmente incuriosita. Lei alza le sopracciglia e la bocca si stende in un sorriso derisorio.
«Potrei farti la stessa domanda.» Roteo gli occhi. Davvero? Tutti sanno perché non sono partita in missione. Qui dentro le voci girano tanto più veloci che al circolo degli strateghi in pensione. Quando si è costretti a vivere per mesi nello stesso posto, il primo pettegolezzo reperibile diventa pane per la bocca di ogni singolo individuo. Per intere settimane. Quindi dubito seriamente che non sappia il perché della mia sospensione.
«Te l'ho chiesto prima io, quindi vedi di fare la persona educata e rispondermi» brutta stronza impertinente, vorrei aggiungere. La vedo tentennare, ma è solo un attimo. Alza le spalle e mi guarda con quel suo modo di fare, come se fosse migliore del resto del mondo. Il fatto che mi superi di una decina di centimetri non le dà il diritto di trattarmi con superiorità, anche perché non è un evento raro che io sia più bassa di molte delle persone con cui ho a che fare ogni fottuto giorno. E, per la cronaca, io sono nettamente migliore di tutti gli altri.
«Indisposizione» si giustifica. E la accetterei, come motivazione, se non avessi notato il troppo tempo che ci ha messo per trovare una scusa attendibile. Lascio correre, non sono affari miei e, per quanto mi riguarda, i suoi sporchi segreti può portarseli con sé nella tomba.
«Bene, allora non rendere indisposta anche me e gira al largo, amica» le intimo, voltandole le spalle. La sento sussurrare a fior di labbra qualcosa che assomiglia molto a pazza idiota e, sebbene ci sia un'alta probabilità che sia stata la mia immaginazione a produrre quel commento, mi volto repentina slanciando il braccio sinistro. Diane spalanca leggermente gli occhi, sussultando, quando la lama le sfiora la tempia e i capelli, per poi andarsi a conficcare nel muro alle sue spalle.
«Non nominare mai più mio padre» la avviso, riferendomi al commento con cui si è presentata poco tempo fa. Non avrò colpito alcuna croce nera, ma questo tiro vale più di cento punti.
NdM. Torno con una breve parentesi al Rifugio perché Den era gelosa che i prossimi capitoli saranno incentrati sugli #Amanken.
Comunque, come state passando l'estate?
Io mi prenderò una mini pausa da studio e lavoro a partire da domani, per godermi la Toscana che sarà la mia unica meta estiva *-*
E voi, invece, ferie, studio o lavoro?
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