5. Ribelle

Cosmir ha ventinove anni e una gamba sola.

L'ho conosciuto tre anni fa, dopo aver sentito per caso un Prefetto parlare del "ragazzo senza gamba del terzo piano". Ero a conoscenza della sua storia dal momento che, pochi mesi prima, aveva iniziato a circolare la voce su un soldato valoroso che si era sacrificato per la propria squadra mettendo a rischio la sua sicurezza. Cazzate. Non ci avevo creduto nemmeno quando Nathan mi aveva assicurato che quel ragazzo era un modello per ognuno di noi: gli Uomini sono egoisti e autocelebrativi, nessuno si sarebbe sacrificato se non per se stesso. Credevo fosse solo una leggenda, una voce messa in giro per spronare i novizi a comportarsi nel modo migliore. Quando avevo sentito il Prefetto parlarne, però, il dubbio aveva iniziato a rodermi come un tarlo insistente: dove avevano cacciato un ragazzo monco reduce da una battaglia? Non bastava loro avergli reso la vita una merda mandandolo in missione – probabilmente nemmeno addestrato a dovere –, ma avevano anche avuto la faccia tosta di relegarlo al terzo piano, che già allora sapevo essere inaccessibile. Così avevo iniziato a passare il mio tempo libero alla ricerca del ragazzo senza gamba, già immaginandolo pieno di cicatrici e coccarde al valore, un uomo senza macchia e senza paura, esiliato per il bene della comunità ai lavori forzati come il trasformare l'acqua che ci circonda in ossigeno.

Quante stronzate.

Ero riuscita a raggiungere la sua postazione dopo diversi tentativi, nell'ultimo dei quali avevo temuto per la mia stessa vita: Cosmir mi aveva messa alla prova, dimostrando il suo macabro senso dell'umorismo e bloccandomi la strada mentre stavo attraversando un corridoio in cui non avrei dovuto essere. Pensavo fosse la via migliore per raggiungere il piano ad accesso limitato - ero riuscita a intrufolarmi nell'ascensore per la prima volta, unica via per arrivare al terzo livello - e, non appena le porte stagne si erano chiuse con un rumore sordo, il cuore mi era schizzato in gola. Vorrei evitare di essere schietta, ma mi sono cagata addosso. Le porte stagne significano solo una cosa: pericolo inondazione. È una di quelle informazioni che ti ripetono fino allo sfinimento e che diventano nauseabonde, perché sai che se le porte si chiudono sei fottuto in qualsiasi caso. A volte penso sia una gran bella merda vivere in una struttura vecchia decenni e infilata a forza sott'acqua: se eviti le porte stagne schiatti annegato, se ti salvi grazie a loro nessuno verrà mai a recuperati. L'ascensore si trovava pochi metri oltre la porta stagna alle mie spalle e raggiungere l'unico accesso per tornare ai piani inferiori sarebbe quindi stato impossibile. In ogni caso, con l'adrenalina addosso e un'imprecazione sulla punta della lingua, avevo trovato come via di fuga il condotto di areazione: una soluzione alquanto improbabile, ma preferivo morire con i polmoni pieni di acqua piuttosto che rimanere abbandonata in quella tomba.

Mi ha lasciata lì per un buon quarto d'ora, a pensare che sarei morta prima ancora di aver visto il mondo esterno. Un altoparlante aveva poi iniziato a gracchiare e, al posto della voce ormai troppo conosciuta dell'Ufficiale Ottawa o di quella esasperata di Samir, un tono divertito mi aveva raggiunta quando mi trovavo con già mezzo corpo nelle condutture dell'aria.

«Salve, Vultur, è un giubbino verde quello che vedo? Pensavo vi insegnassero a reagire in modo un po' più veloce alle situazioni improvvise come questa. Saresti già potuta morire in un milione di modi.»

Avevo lasciato le gambe a penzolare dal soffitto, appoggiando la guancia alla superficie fredda e polverosa delle tubature.

«Tu che cazzo avresti fatto, con una sola gamba?» avevo ribattuto io, sperando che mi sentisse. Non sapevo se fosse veramente lui, ma il mio intuito mi diceva che solo una persona annoiata come un monco segregato al terzo piano avrebbe potuto divertirsi a far morire di paura una ragazzina. Per tutta risposta lui si era messo a ridere, dicendomi di seguire il condotto fino alla prima diramazione e poi svoltare a destra. Mi avrebbe fatto trovare aperta la grata proprio sopra la sua stanza.

«Così ti mostro cosa faccio io» aveva concluso.

Ero passata a fatica tra le tubature e devo ringraziare il mio fisico minuto per essere riuscita a scivolare fino alla sua stanza. Una volta calatami nella sua tana, la prima cosa che avevo registrato era stato l'odore di polvere, un tanfo opprimente e fastidioso. La seconda fu la parete interamente ricoperta da schermi, su cui correvano immagini in movimento, decine di piccole finestre virtuali su ambienti reali: avevo riconosciuto la sala d'addestramento, il Simulatore, i Refettori, alcuni posti a me completamente sconosciuti e quello che, qualche anno dopo, avrei conosciuto come il mondo esterno.

Infine, quando mi ero decisa a staccare gli occhi da quello che stava succedendo sui monitor, avevo trovato lui: non era nemmeno lontanamente simile all'immagine che mi ero fatta. Sul suo volto non c'erano cicatrici, aveva una corporatura abbastanza esile rispetto ai soldati che ero abituata a vedere e, soprattutto, aveva entrambe le gambe. Niente più leggende, niente più storie di eroi coraggiosi: Cosmir era lì, in carne e ossa, e mi fissava con i suoi occhi incavati e dannatamente sexy, sorridendo nel vedermi confusa.

«Ti aspettavi altro?» mi aveva chiesto, squadrandomi da capo a piedi.

«Certo, non rendi giustizia alle voci che circolano su di te, monco, lo sapevo che era una stronzata la tua storia» avevo risposto sprezzante.

Non posso negare che, da quel momento, è diventato uno dei pochi – se non l'unico – esemplare interessante tra tutta la comunità dei Ribelli, né posso negare che entrambi, per un breve periodo, abbiamo trovato nella vicinanza reciproca dei nostri corpi una soluzione alla noia. Cosmir, però, è ancora troppo legato al pensiero di Claudia, la ragazza per cui ha rischiato la vita – inutilmente, visto che sarebbe morta anche senza che lui perdesse la gamba – e io, invece, sono troppo incapace di pensare ad altri se non a me stessa.

Per il fatto della gamba, ho scoperto solo più tardi che non gli mancano effettivamente il piede, lo stinco e il resto: anzi, è del tutto normale, l'arto gli è stato ricostruito dopo l'incidente e l'unico difetto è un leggero ondeggiare sulla sinistra quando cammina, anche se non mi ha mai voluto spiegare quali siano state le dinamiche effettive di ciò che è successo. E, insieme a ciò, ho scoperto anche qual è il suo lavoro: monitorare ogni cosa, relativa ai Ribelli e ai Medius, e fa tutto dalla stanza che gli è stata riservata al terzo piano. Dal momento che non sarebbe più stato in grado di servire la comunità dall'esterno, gli è stato proposto un lavoro dall'interno: Cosmir è gli occhi e le orecchie dei Ribelli e non c'è segreto che gli possa sfuggire.

«Ecco qui» mi avverte, riportandomi al presente. Sbatto le palpebre, per ritornare a concentrarmi sulla sua figura longilinea che si staglia perfettamente in controluce, illuminata dallo sfarfallio dei monitor. Ho fatto come sempre irruzione nella sua quotidianità senza chiedere il permesso, anche se sono consapevole che è lui stesso a permettermi di non trovare la sua porta chiusa: gli ci sono voluti dieci minuti per recuperare ciò che gli ho chiesto e, nel profondo, spero che il suo aiuto mi possa bastare. Spingo la sedia su cui mi sono stravaccata fino ad arrivare accanto a lui, poi mi focalizzo sul video che mi sta facendo vedere. «Non ho altro.»

Sullo schermo alcuni soldati dello Squadrone di Ricognizione, i Falchi, stanno uscendo dal lago e si dirigono, presumibilmente, verso la città. Non li riconosco singolarmente, ma indossano il nero e tra loro ci deve essere Nathan, dal momento che la data della registrazione risale a quella della loro ultima uscita: sette giugno. Mi avvicino allo schermo, cercando la pelle scura di mio fratello, ma tutti indossano le maschere antigas e mi risulta difficile individuarlo. Se ne vanno e la scena rimane vuota, un bel paesaggio lacustre con l'acqua verdognola smossa leggermente dal vento. Mi giro verso Cosmir, che si è allontanato sulla propria sedia.

«Oh, avanti, non sono riuscita nemmeno a capire se ci fosse Nathan, lì dentro! Fammi vedere cosa accade in città, o chi è entrato e uscito nell'ultimo mese» lo supplico. Lui scuote il capo.

«Anche se volessi, queste sono informazioni riservate. Ti garantisco che non è successo niente di strano e che né tuo fratello né gli altri della sua squadra sono rientrati. Quindi è tutto nella norma.»

Dovrei credergli, Cosmir non ha alcun problema a infrangere la legge e darmi le informazioni che gli chiedo. Mi alzo, rassegnata: se non vuole parlare, non lo farà. Se lo avesse voluto, tre anni fa avrebbe potuto continuare a farmi vagare invano per i corridoi, senza farsi trovare. Cosmir è bravo a mantenere i segreti, non per niente gli hanno affidato un incarico tanto importante: quelli dei piani alti sanno che si possono fidare di lui.

Ma c'è qualcosa, un piccolo particolare fuori posto, che conferma i miei sospetti. Lo noto solo quando ormai sto lasciando la stanza, un dettaglio che il mio sguardo registra poco prima che la porta si chiuda occludendomi la visuale.
Lo schermo collegato alle televisioni dei Medius è spento.

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Quando Keegan mi raggiunge, sono seduta sulla fontana della Piazza. Ci possiamo permettere anche una cazzo di fontana, qui sotto, nonostante sia solo una decorazione che orna uno spazio circolare di alcuni metri, lasciato libero al centro del sedicesimo piano e perimetrato da un sacco di stanze importanti: le aule delle lezioni, la biblioteca, l'aula delle assemblee e il refettorio principale. Mio fratello esce dalla porta sopra la quale è segnato il numero della sua classe – 6B – e, appena mi vede, mi raggiunge di corsa.

«Le hai parlato? Nathan sta tornando?»

Mi alzo svogliatamente, controllando con occhio vigile anche gli altri bambini che stanno uscendo dall'aula e che si riversano nella Piazza, per poi disperdersi verso le scale o le altre porte.

«Non ho carpito informazioni, soldato, ma riproverò più tardi. Ti accompagno a pranzo.»

Keegan abbandona un po' del suo entusiasmo e mi si affianca mentre ci dirigiamo al refettorio. Solitamente non pranzo a questo piano, preferisco quello dove abitiamo e mi addestro, ma volevo vedere Keegan e passare del tempo con lui prima che mi spediscano di nuovo là fuori.

Mi piace andare in missione e procurare il necessario per la mia gente, ma mi piace anche che Keegan non rimanga completamente solo nel caso qualcosa dovesse andare male. Quindi, ogni volta sono combattuta tra l'adrenalina scatenata dall'imminente partenza e l'affetto che provo verso mio fratello. Soprattutto nell'ultimo mese.

«Den» mi richiama, usando il soprannome che solo lui e Nathan hanno il coraggio di pronunciare, «qui fanno delle polpette di patate davvero buone, dovresti assaggiarle» ci tiene a informarmi, mentre afferra due vassoi blu – colore relativo agli studenti e a questo piano – e me ne passa uno. «Per fortuna ci sei tu che procuri le polpette, altrimenti non so che cosa sognerei durante le lezioni.»

«Marmocchio, dovresti stare attento, non sognare. E, per inciso, io procuro a volte qualche bulbo, che viene riprodotto nell'orto sintetico, sono i cuochi che fanno le polpette. Che cosa vi insegnano a scuola, che le polpette di patate crescono sugli alberi?»

Dalla sua muta risposta comprendo che è rimasto basito dalla mia rivelazione. Lascio cadere l'argomento e gli chiedo che cosa ha fatto durante la mattinata, chiacchierando del più e del meno prima che lui debba ritornare a scuola e io all'addestramento.

«Mi prometti che scopri quando torna Nathan? Non mi va più di aspettare» mi chiede, in un ultimo tentativo prima di rientrare in classe. Lo fisso osservando i suoi lineamenti, sempre più affilati e sempre più simili a quelli di nostro fratello: condividiamo tutti e tre gli stessi occhi castani, anche se quelli di Keegan sono più tendenti al nocciola, come quelli di papà. Alla fine annuisco, senza dire altro, e so che c'è solo un'ultima soluzione, l'unica che avrei voluto evitare: la Senatrice Egeon.

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Maia Egeon non è altri che una donna di bassa statura, con le ossa troppo sottili per aver resistito a tanti anni di carriera e lo sguardo che, una volta incrociato, ti fa poi comprendere come abbia potuto far tacere tutti coloro che abbiano avuto dei dubbi sul suo conto. È esattamente la mia copia, per quanto poco possa compiacermene. D'altronde, tra madri e figlie non sempre i rapporti vanno a gonfie vele, soprattutto quando la propria genitrice preferisce la carriera alla famiglia.

Quando entro nel suo ufficio mi aspetta già in piedi, le braccia rigidamente composte dietro la schiena e le gambe leggermente divaricate. Nonostante da tempo non abbia più vent'anni, i capelli cortissimi – di qualche centimetro più lunghi dei miei, che tengo rasati per essere più comoda negli allenamenti – continuano a mantenere una tonalità scura e luminosa, mentre il fisico non pare essere vittima di alcun tipo di cedimento. Osservandola più attentamente, solo ora noto qualche accenno di ruga ai lati degli occhi che, in modo molto poco rassicurante, mi stanno scrutando con insistenza.

«Hayden» pronuncia, in maniera controllato. Non so se il suo sia un saluto o l'inizio di un rimprovero. In entrambi i casi, non riuscirebbe ad avere subito la mia attenzione: senza risponderle mi accomodo sulla sedia che sta dietro alla scrivania, posto che solitamente dovrebbe essere riservato a lei. La stanza è piccola e leggermente oblunga, una parete è occupata interamente da una vetrata che affaccia sul piano sottostante – come molti degli appartamenti nella struttura – e il colore predominante è il rosso scuro. È vomitevole, come quelli ai piani alti tengano a ribadire la loro appartenenza al livello di comando. Inizio a girare su me stessa dandomi lo slancio con un piede, mentre mia madre entra ed esce dal mio campo visivo senza alcuna intenzione di intervenire: ho chiesto io di avere un appuntamento con lei, ma mi piace irritarla facendole perdere più tempo di quel che servirebbe. Alla fine, proprio quando mia madre sta allungando una mano sullo schienale dopo essersi mossa dalla sua rigida posizione, poggio il piede a terra, così da fermarmi esattamente di fronte a lei. Occhi negli occhi.

«Maia Egeon» la saluto, usando il suo stesso tono. Lei rimane in silenzio, aspettando delle spiegazioni per la mia presenza lì, ma prima che io apra la bocca mi precede.

«Il comandante Milziad mi ha riferito le tue bravate sul Campo.»

Lascio che la mascella cada leggermente. Brutto cazzone. Andare addirittura a spifferare tutto a mia madre, dopo avermi dato anche una punizione assurda.

«Samir è solo un emerito-»

«Il comandante Milziad, Hayden» mi ferma Maia, prima che possa dar voce ai miei pensieri. Figlio di puttana. Sbuffo, distogliendo da lei lo sguardo.

«Samir mi ha già dato una punizione. E comunque so badare a me stessa, non c'è bisogno che mi chiami qui solo per sgridarmi.»

«Sei stata tu a chiedere appuntamento» mi fa notare, alzando scocciata le sopracciglia. Già, è vero. Probabilmente sono troppo abituata a fare visita a questo ufficio solo quando devo essere rimproverata.
Mi alzo dalla sedia, pronta ad andarmene senza subire inutili umiliazioni e decisa a deludere Keegan piuttosto che chiederle altro, ma mia madre mi preme una mano sullo sterno, costringendomi a rimanere seduta. Straordinario, addirittura del contatto fisico!

Guardo fuori dalla vetrata, con l'intenzione di evitare di incrociare lo sguardo con il suo.

«Hayden, cosa stai facendo?» mi chiede, leggermente innervosita, ma comunque emblema della compostezza. Resto ancora un attimo a fissare fuori, prima di rivolgerle uno sguardo tagliente.

So che la sua domanda si riferisce al mio essere più indisciplinata del solito, ma glisso la sua finta preoccupazione per rigirare il dito nella piaga. «Aspetto la fine del mondo: mi hai davvero toccata? Anche se è la cosa più lontano da un abbraccio, ormai non ci speravo più» rispondo acida, incrociando le braccia e abbandonandomi nella poltrona.

Senza preavviso Maia posiziona entrambe le mani sui braccioli della sedia, sporgendosi pericolosamente vicino al mio viso.

«Non scherzare con me, Hayden. Non mi provocare» sibila. Aspetto che noti la mia espressione infastidita, prima di avvicinare a mia volta il busto al suo.

«Non sto giocando, mamma. Ti sto solo sbattendo in faccia la realtà.» Mantengo il mio sguardo fisso nel suo, due occhi scuri che intimoriscono persino me. Ma non abbastanza. «Fa male, forse?»

Maia non accenna a muoversi e la situazione si fa tesa. La nostra è una lotta di sguardi, una tacita sfida. La prima a dimostrare maturità – o debolezza – è lei. Si allontana lentamente, voltandosi per darmi le spalle.

«Ti hanno individuata a frequentare zone non permesse. Per la quinta volta, questo mese.»

Stringo per un attimo gli occhi, cercando di capire a quale delle tante zone non permesse si stia riferendo, perché non voglio tradirmi da sola. Ricomincio a girare sulla sedia, calcolando velocemente le volte in cui sono stata nella dispensa e quelle in cui ho fatto un salto nel reparto di aviazione, ma ultimamente non mi sono messa troppo a rischio. Poi comprendo: Cosmir. Abbandono la testa sullo schienale fissando un punto fermo nel soffitto lastricato.

«Cosmir mi permette di frequentare la sua zona non permessa tutte le volte che voglio» mi giustifico, stanca di ripeterlo.

«Il signor Leddax ha avuto un avvertimento, che prevede il divieto di far entrare nella zona di sorveglianza qualunque non addetto. E tu, da quel che so, non sei autorizzata.»

Alzo le spalle, consapevole che non mi possa vedere. Quando mi fermo, la stanza inizia leggermente a girare, ma mi impegno per mantenere la concentrazione sulle spalle di mia madre.

«Da quel che sai, io potrei essere anche morta.» Aspetto che si volti, prima di continuare. «Così come Nathan» concludo, fredda. Non mi aspettavo di vederla sobbalzare leggermente, gli occhi appena più aperti e la bocca irrigidita.

«Non osare mai più dire una cosa simile» mi ammonisce. Mi alzo in piedi, un po' malferma a causa della testa che non ha ancora smesso di girare.

«Perché, non ho forse ragione? Non è forse per questo che ci stanno dando razioni extra?» chiedo, spazientita. A volte vorrei avere lo stesso autocontrollo di mia madre. Invece sono solo Hayden, una ragazzina ancora troppo giovane per conoscere la vera disciplina. Oppure troppo testarda per apprenderla.

«Dimmelo, che è fottuto, ammazzato da quelle mezze latte che ci sono là fuori. Dillo a Keegan, se ne hai il coraggio. Ormai non è più un bambino.» Sorrido, amareggiata. «Ma tu questo come cazzo potresti saperlo: non ti degni di vederlo da anni, mentre te ne stai qui a-»

Prima che riesca a finire la frase, un sonoro schiaffo mi costringe a voltare il viso verso la porta d'entrata. Rimango in quella posizione fino a che ho assorbito il duro colpo, poi lotto con tutte le mie forze per non portarmi una mano alla guancia per cercare di lenire il dolore. Non so se a bruciare sia più la mia pelle o il mio animo. Per quanto Maia Egeon possa essere severa, mai si è permessa di usare la violenza su uno dei suoi figli. La sfido nuovamente con lo sguardo, rimanendo zitta ma dimostrando che non può riuscire a sottomettermi.

«Sto solo facendo il mio lavoro, Hayden. Una carica a cui non puoi minimamente aspirare, la mia.» Mi sorpassa, dirigendosi alla sua scrivania e recuperando un foglio restato sul piano di legno scuro. «Le sorti di Nathan non ti riguardano. Da soldato e uomo quale è, ha accettato consapevolmente il suo compito, conscio di ciò a cui stava andando incontro.» Fissa la pagina fittamente scritta che tiene in mano, poi la ripone sulla scrivania, quasi rassegnata. Si rivolge nuovamente a me, guardandomi dritta negli occhi.

«Non ho potuto fare niente nemmeno io. Nathan aveva già deciso e il Codice prevede che nessuno abbia un potere superiore a quello decisionale, se il soggetto dimostra facoltà di intendere e di volere.»

Non sto capendo appieno tutto ciò che mi dice, ma non proferisco parola, carpendo ogni informazione possibile e cercando di metabolizzarla. Che cosa hai accettato di fare, Nathan?

«Non farti più trovare dal signor Leddax, Hayden, o non potrò impedirmi di prendere seri provvedimenti. Torna ai tuoi allenamenti.»

Confusa, cerco di capire cosa chiederle per saperne di più. Lei sa? Ha le risposte che mi servono?

«Nathan-»

«Nathan non è il problema principale, ora. Non perdere tempo ad arrovellarti su ciò di cui non puoi avere il controllo.»

Stringo le labbra tra i denti, per impedire a parole forti e fuori luogo di uscire dalla mia bocca. Non sono triste, o disperata, ma non accetto che mia madre mi tratti come se fossi un cadetto comune. Non accetto che mi non mi dica esplicitamente che mio fratello, suo figlio, sia morto. Perché tanti giri di parole? Che cosa c'è di tanto complicato, nell'ammettere di aver perso Nathan?

«Non hai nemmeno il coraggio di addolorarti per lui. Né per noi» sussurro alla fine.

«Di coraggio ne ho da vendere, ragazzina. Non immagini minimamente quello che ci vuole per stare qui» dice, battendo un piede sul pavimento rosso scuro, come a rimarcare la sua posizione. «Non mancare di rispetto a tua madre» conclude.

«Certo, vedo il coraggio che hai, se osi definirti mia madre» sono le mie ultime parole. Poi mi volto, senza il coraggio di osservare la sua reazione, ed esco dall'ufficio sbattendo la porta. Maia Egeon ha dimostrato ancora una volta che, tra i Ribelli, si deve sopravvivere da soli. E io sono molto brava, in questo.

NdM. Penso sia uno degli ultimi capitoli infiniti, perché dal prossimo la storia entra nel vivo e quindi i pov si fanno più dinamici (e più corti). 

Quanto vi è simpatica Maia? E quanto la mela cade lontana dall'albero? Penso che Den odi così tanto sua mamma perché sono una lo specchio dell'altra. 

(Ah, scusate, quanto è figo Cosmir? So che non mi ci sono soffermata troppo, ma dai, Ryan Gosling parla da sé).

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