28. Medius
Con un nuovo pezzo di umanità addosso, seguo Anken attraverso i corridoi che ormai entrambi abbiamo imparato a conoscere. Non mi sono mai mossa da sola, c'è sempre qualcuno con me e sospetto che abbiano paura mi possa accadere qualcosa: dopotutto, Hayden Lightborn non è l'unica ad aver reagito male alla mia presenza.
Anche se mi risulta difficile ammetterlo, mi dispiace lasciare la sensazione di familiarità che questo luogo mi sta dando. Sento di poter considerare la stanza di Tito una casa più di quanto consideri mio l'appartamento nella Città. Qui è tranquillo, accogliente e bello, le persone – anche se non tutte – si interessano a me e mi sorridono, invece di passarmi al fianco come se non mi avessero vista. Mi sento considerata, non più una Medius invisibile obbligata a reprimere sensazioni, emozioni e affetti. Mi sento accolta.
Prima di entrare in Refettorio Anken mi prende la mano, in un gesto diventato così abituale che non mi fa più paura, ormai. Mi piace la sensazione della sua pelle leggermente ruvida contro la mia, della pressione che fa sulle mie dita e di come lascia scivolare il palmo lungo il mio braccio prima di catturarmi la mano. Mi ero dimenticata quando possa essere bella la percezione data dal contatto con un'altra persona o, forse, non l'ho nemmeno mai provata con due genitori già Medius.
Anken apre la porta e quel che mi ritrovo davanti non è la solita sala mezza vuota. Una quarantina di persone, tra adulti e bambini, sono in piedi di fronte a noi e mi rendo conto che tutti ci stanno fissando. Non sono minacciosi, però, e anzi sui loro volti si apre un sorriso non appena incrociano il mio sguardo, alcuni addirittura ridono apertamente. Probabilmente è la reazione scontata alla mia espressione basita e, confusa, mi volto verso Anken: anche lui sogghigna, complice della folla che ci stava attendendo.
«Che cosa succede?» chiedo a bassa voce.
Dalla ressa si fa largo la figura di Tito, che ci si avvicina con due bicchieri in mano.
«Dal momento che domani sarai in partenza, abbiamo pensato di dimostrarti che la specie umana non è poi tanto male» mi spiega l'uomo, allungando un bicchiere a me e l'altro ad Anken. Non so cosa contenga, ma per gentilezza lo accetto.
«Anche se non tutti sono aperti all'alterità, sappi che siamo grati della tua amicizia, Amanda Reedan» continua, scatenando un urlo di approvazione. «Ci hai aperto nuovi orizzonti e le tue conoscenze sono state fondamentali: te ne saremo grati per sempre.»
Tito mi posa una mano sulla spalla, per poi interrompere subito il contatto e, senza che lo possa controllare, un nodo mi stringe la gola, impedendomi di rispondere alle sue parole.
Mai, nella mia vita, avrei pensato di poter ricevere affetto da un gruppo di estranei. Mai avrei pensato di potermi sentire ancora una volta almeno un po' simile a chi non posso più essere. I Ribelli alzano un pugno in segno di assenso e io osservo ognuno di loro, per non scordarmi dei loro volti.
Una musica leggera pervade la stanza e la gente, esaltata dal clima festivo, prende a chiacchierare e ballare facendosi largo tra i tavoli del Refettorio. La sala è la solita area anonima, con le piastrelle bianche che riflettono le luci fredde e l'odore per niente invitante che arriva dalla cucina. Non ci sono le decorazioni fastose che i Medius ostentano ai loro ricevimenti, né tantomeno il clima adatto per festeggiare, ma la gioia che leggo nelle espressioni che mi circondano è così coinvolgente da farmi dimenticare dove mi trovo.
«Ci scusiamo se la tua permanenza, soprattutto all'inizio, non è stata delle migliori» si aggiunge Vannico, presentandosi vicino a Tito. «Ma come avrai capito avevamo i nostri motivi per sospettare di te.»
Annuisco comprensiva e vorrei rispondere che hanno rimediato in seguito, ma Anken mi toglie il bicchiere dalle mani prima che possa anche solo assaggiarne il contenuto e mi trascina in mezzo alla folla.
«Che stai facendo?» chiedo disperata, quando gli umani iniziano ad accalcarsi intorno a noi.
Anken si fa spazio con i gomiti, fino ad arrivare al centro della sala, e si posiziona esattamente di fronte a me. La vicinanza fisica di tutte queste persone mi mette a disagio, per quanto sia grata dell'affetto che mi stanno dimostrando con la loro presenza qui, ma la sensazione sparisce quando il ragazzo mi prende le mani, sorridendomi.
«Ti faccio sentire di nuovo umana, così che tu possa ricordarti cosa significhi» risponde placido, avvicinando il suo corpo al mio, prima di coinvolgermi con lui in un ballo a ritmo di musica.
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Dopo la festa improvvisata, in cui sono stata richiesta come dama a quasi ogni ballo da persone diverse – uomini, donne e anche bambini, tra cui un tristissimo Keegan, addolorato per la mia partenza – ho salutato ognuno di loro con la consapevolezza che, probabilmente, non li rivedrò più.
Non so se essere felice del dono che mi hanno fatto o triste per il fatto che sia a tutti gli effetti un addio. In realtà molti sono sicuri che, una volta attuato il piano, ci ritroveremo tutti sulla stessa astronave. Vorrei crederlo anche io, sperare in un futuro insieme a loro, ma c'è qualcosa che mi trattiene dal riporre tanta speranza in quello che pare essere un sogno. Non so se, una volta fuori di qui, il mio destino sia quello che loro hanno in serbo per me e questa, tra tutte le sfide che dovrò affrontare, è la verità che mi fa più paura.
«A cosa pensi?» mi chiede Anken, seduto di fronte a me.
Siamo nella mia camera, è ormai notte fonda e mancano poche ore prima della mia partenza. Ci siamo seduti ai due lati della finestra oscurata, su una rientranza decorata da morbidi cuscini che sembra fatta apposta per fermarsi e riflettere. Lascio scorrere i polpastrelli sul vetro nero e ruvido: in questi giorni mi sono ritrovata spesso a chiedermi cosa ci sia al di là della finestra, ma non ho mai osato domandare il permesso di poter osservare il panorama. Ora, vorrei solo rivedere le stelle. Ripenso a Orione, che adesso giace in una sua replica stilizzata sul mio petto, e ricordo che è stato proprio Anken a illustrarmene la costellazione. Mi sembrano passati decenni, da quel momento, quando tutto mi sembrava ancora ostile e oscuro.
«Al destino» rispondo mesta. «Non ci ho mai creduto» mi correggo, spostando lo sguardo dalla finestra per osservare Anken. «Ma a volte mi domando se siamo noi a decidere della nostra vita o siano altri a effettuare scelte per noi.»
«Parli della tua Venuta?» insiste, con genuina curiosità.
«Anche» rispondo. È stato mio padre a impormi di diventare Medius, è stato Viktor a coinvolgermi in tutto ciò e Anken mi ha spinta ad andare con lui, quando mi ha minacciata di fronte alle guardie. Ora, invece, sono io la causa scatenante che potrebbe cambiare per sempre non solo la mia vita, ma anche quella di tutta l'umanità. Non so se sono pronta a prendere in mano un destino che non mi appartiene.
«L'unica cosa su cui possiamo avere il controllo sono le nostre scelte. Cosa ti preoccupa?» mi domanda Anken, notando il mio silenzio.
Di fare la scelta sbagliata. Andandomene ricoprirò una parte importante nel loro piano di fuga, ma non posso essere certa che, per me, tutto andrà per il meglio. Non l'ho mai detto ad Anken, né a nessun altro, ma ho terribilmente paura di non essere abbastanza coraggiosa per l'incarico che mi è stato affidato e, soprattutto, ho paura del mio egoismo. Sono davvero disposta a rischiare la mia vita per delle persone che mi hanno sempre insegnato a odiare? Sono davvero sicura che andrò fino in fondo?
«Ehi» mi richiama Anken. Non si avvicina, ma allunga le gambe per sfiorare le mie. «Se non te la senti possiamo sempre rimandare. Puoi restare altro tempo qui.»
Scuoto la testa: non c'è più tempo, per loro. Hanno già sacrificato troppo per la loro sopravvivenza, non voglio che ci siano inconvenienti a causa della mia codardia.
«Hayden voleva uccidermi, la prima volta che ci siamo incontrate» confesso, decisa a cambiare discorso.
Anken ridacchia, lasciando scivolare la testa sulla parete alle sue spalle. «Tipica reazione da testa calda, è successo lo stesso con me. Non c'era, questa sera, e nemmeno sua madre: Keegan deve essere sfuggito al controllo imperiale della sorella» constata, con un'inclinazione che riconosco come affetto.
«Sembra che tu li conosca bene» noto, forse con un po' di risentimento.
«Non di persona» si limita a dire, lo sguardo perso sulla finestra oscurata. «Avresti saputo difenderti?» mi chiede poi.
«Da chi?»
«Hayden, o chiunque altro» chiarisce.
Scuoto la testa in segno di diniego. In Città non esiste violenza e, a meno che non si sia nel settore specifico, a noi Medius non viene insegnato a combattere.
«Credevo che mi avrebbe ridotto la faccia come la tua» continuo, ridacchiando al pensiero di tornare da mio padre con il naso storto e uno zigomo tumefatto, anche se non credo sia realmente possibile per un umano farmi del male a mani nude.
Anken si alza senza preavviso, offrendomi le braccia per aiutarmi. Afferro le sue mani e mi sollevo con decisione, curiosa di capire cosa gli passi per la testa.
«Ti insegno una cosa» mi avverte, lasciando le mie braccia a mezz'aria, proprio davanti al viso.
«Non penso che un pugno possa effettivamente scalfirmi, anche se non mi difendo» lo avverto, muovendo le braccia per fargli capire che non serve avere un riparo, quando sei un Medius.
«Non voglio insegnarti a difenderti, ma ad attaccare» specifica. «Avanti, colpiscimi.»
Sollevo le sopracciglia e scuoto la testa, dichiarando con quel gesto che non ho intenzione di colpirlo. Anken sembra prenderla sul personale, non solo perché è abituato che gli altri, durante i suoi addestramenti, obbediscano ai suoi comandi, ma anche perchè ha capito che temo di fargli del male.
«Pensi che, solo perché sei più forte, io abbia paura?» mi chiede infatti.
«No, ma non avrò bisogno di saper picchiare nessuno, una volta tornata in Città» gli spiego, alzando le spalle.
Non ho mai approvato l'uso della violenza, nemmeno quella insegnata ai reparti speciali. Ogni situazione dovrebbe essere risolta con diplomazia e razionalità.
Anken alza le spalle, noncurante.
«Allora imparalo per divertimento, creati un nuovo hobby.»
Sorrido per la serietà con cui mi ha fatto la proposta, ma poi accetto di provare a colpirlo.
«Non il naso» mi avverte, chiudendo gli occhi di scatto, prima che il mio pugno collida delicatamente con la sua spalla.
«Non giocare» mi rimprovera serioso, riportando su di me uno sguardo ammonitore. «E tieni il pollice fuori dal pugno, altrimenti ti puoi far male.»
Sollevo gli occhi al cielo e ci riprovo, imitando i movimenti che mi ha mostrato: ruoto i fianchi e la spalla mentre sposto il peso sul piede destro. Anken riesce a stento a fermare la mia mano, quando ormai si trova a pochi centimetri dal suo viso, e mi rivolge un'espressione sbalordita, sorpreso che io ci abbia messo sul serio forza e precisione.
«Visto?» chiedo retorica, soddisfatta di essere riuscita a mettere in atto i suoi insegnamenti elementari.
Anken mi sorride con tenerezza, portandosi le mie nocche alle labbra per depositarvi sopra un bacio leggero, e solo dopo mi restituisce il controllo della mano.
«Ora sei davvero pronta per partire. Sarà il tuo pugno fortunato, usalo solo in caso di emergenza.»
Gli sorrido, grata per tutto quello che è successo da quando ci siamo incontrati. Nonostante le differenze e le paure, Anken non mi ha mai abbandonata e, ora, continuerà a rimanere con me, stretto nella mia mano destra e adagiato sopra al mio cuore.
NdM. Mancano sei capitoli prima della fine. Gli eventi sono già ben delineati, mi manca il tempo per trasformarli in narrazione ^^" Giuro che, nonostante i tempi dilatati, non sono intenzionata ad abbandonare la storia e, prima o poi, potrete leggere il finale.
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