25. Medius
Non appena Maia Egeon, Vannico e tutti gli altri si chiudono la porta alle spalle, lasciandomi sola con Tito e Anken, quest'ultimo si volta nella mia direzione e posso leggere tutta la rabbia che ha trattenuto finora sul suo viso.
«Che cosa ti passa per la testa?» mi chiede in un sibilo.
«La soluzione migliore: massimo del profitto, minimo del rischio» rispondo risoluta, incrociando le braccia e accorgendomi solo dopo averlo fatto di aver imitato la sua posizione.
Sono sempre state le Macchine a occuparsi della gestione dei mezzi di trasporto, ma a nessun umano è sfuggito che sono stati quelli della loro razza a programmarle. Poter sfruttare la mia natura da Medius è l'unica alternativa per recuperare i manuali di ingegneria e le conoscenze necessarie per rendere praticabile la loro fuga.
«Il rischio c'è eccome e te lo stai attirando addosso come una calamita: non credere che per te sarà facile, questo piano è pura follia!» Smette di rivolgersi a me, per osservare Tito: «Cosa avete intenzione di fare, vagare per lo spazio fino all'estinzione della specie?!»
«Certo che no, ragazzo» risponde con tranquillità Tito. L'uomo si siede di fronte a noi, prendendo il posto occupato poco prima da Maia. «C'è un pianeta, poco distante da qui, gemello della Terra: l'hanno chiamato Adamo, mentre la sua luna è stata rinominata Eva. Può accoglierci e permetterci di rinascere, mentre i Medius potranno imperare senza ostacoli qui.»
Ci sono diversi pianeti simili alla Terra nell'universo, ma pensare di poterne raggiungere uno e addirittura ripopolarlo non è un'opzione che non avevo mai considerato, forse perché non ho mai vissuto da reclusa. La voglia di libertà dei Ribelli deve essere così forte da spingerli ad atti disperati e non sarò certo io a impedire loro di realizzare qualsiasi sia il piano: mi renderò utile al fine di aiutarli nel miglior modo possibile, d'altronde non credo che il loro intento sia quello di portare alla morte ogni umano presente in questa comunità.
«È possibile raggiungerlo in breve tempo?» chiedo curiosa.
«Sì, ci vorrà qualche decennio, ma i nostri calcoli sono abbastanza precisi ed è da molto tempo che i nostri antenati studiano una simile soluzione.»
«Vi serve una vettura a propulsione luminosa, in modo che non ci sia bisogno di carburante per raggiungere la destinazione» lo avverto, pensando ad alta voce. «Sono quelle usate per il trasporto di materiale pesante, che non hanno la necessità di troppo rifornimento: potrebbero ospitare tre volte l'intera comunità.»
Anken assiste al nostro scambio di battute ormai rassegnato al mio coinvolgimento: potrò anche essere una Medius dall'aspetto umano, ma il mio cervello è adatto a memorizzare qualsiasi informazione io acquisisca e si dà il caso che ultimamente abbia avuto diverso tempo da dedicare alla lettura.
«Il problema principale è impostare la traiettoria corretta: sono le Macchine a gestire il tutto, così che non vi possa essere margine di errore, ma alcuni nostri tecnici potrebbero darti le informazioni necessarie» mi spiega Tito.
Annuisco risoluta, convinta di voler combattere questa battaglia e aiutare un popolo che ha scelto di non alterare la propria natura umana.
«Che cosa significa quello che ha detto il generale Egeon?» si intromette Anken, spostandosi i capelli dalla fronte.
Tito lo osserva in silenzio e io, che ho sommato tutti gli indizi con facilità, non posso impedire che Anken scopra la verità.
«Tito?» lo richiama Anken.
L'uomo sospira, per poi prendersi la testa tra le mani.
«Non pensavo che saresti stato tanto avanzato da avere una coscienza» confessa, suscitando l'interesse sia mio che del ragazzo. «Ivonik ci ha sempre parlato dei Vitae come macchine vuote, involucri all'interno dei quale inserire codici che sarebbero poi stati trasformati in ordini. Macchine con il corpo di un uomo, ma senza nulla al loro interno che potesse renderle nemmeno lontanamente simili a noi.»
«Non è quello che sono?» chiede Anken.
«No» nega con vigore Tito e io non posso che essere d'accordo. «Sei molto di più di un simulacro e molto di più di un uomo, Anken. Ma per arrivare a tanto, il sacrificio è stato enorme.»
«Dieci umani» comprende Anken, osservando le proprie mani. Il suo viso si contrae, non appena la consapevolezza delle parole di Tito lo colpiscono. «Dieci Ribelli, non è così? Ecco perché mi sembra di conoscere tutti, qui dentro. Com'è possibile?»
Tito scuote la testa.
«Non so nulla dei misteri della scienza. Ivonik ha detto che per la costruzione di un Vitae servono delle parti umane specifiche...»
«E voi avete acconsentito a uccidere pur di avere un'arma, pur di avere me?» lo interrompe Anken, ora rabbioso.
Resto interdetta dalla ferocia con cui pronuncia quelle parole, non aspettandomi che possa nascondere tanto rammarico e dolore.
«Si sono sacrificati e hanno scelto, Anken, nessuno è stato costretto. Lo hanno fatto per tutti noi e gliene saremo grati per sempre.»
Il ragazzo scuote la testa con forza, prendendola poi tra le mani come per aggrapparsi a qualcosa. Una stilla sottile mi punge il torace all'altezza del cuore, nel vederlo così sofferente, così umano.
«Sono un mostro» sussurra, la voce spezzata da una tremenda agonia.
Guardo Tito allarmata, incapace di agire per alleviare la sofferenza di Anken, perché non c'è alcun modo per farlo: è un mostro, proprio come me, una creazione artificiale nata con uno scopo ben preciso. Non ha un padre, né una madre, ma venti genitori a cui ha rubato dei figli, infiniti fratelli a cui ha sottratto protezione, mogli e mariti a cui ha tolto l'amore. È nato da dieci sacrifici che hanno dato origine a una creatura meravigliosa, completa, pensante; una nuova vita sorta dalle ceneri di chi ha preferito donare la propria esistenza agli altri. È frutto di atti eroici e altruistici, è originato da bontà e generosità, elementi che scorrono carichi nelle sue vene e che si sono sedimentati nelle sue ossa. Anken è un mostro, è vero, ma è anche un gesto di un amore puro e così profondo che nessuno, a questo mondo, è pronto a coglierlo e a comprenderlo, nemmeno lui stesso.
Scanso la sedia su cui sono appoggiata e mi inginocchio di fronte al ragazzo, togliendogli le mani dal viso per impedirgli di farsi male.
«Sei molto di più di quello che credi di essere, Anken, vorrei tanto che te ne rendessi conto» gli dico, in modo riduttivo rispetto ai miei pensieri.
Il ragazzo apre gli occhi, umidi e carichi di una consapevolezza così dolorosa che anche il mio cuore, per empatia, vorrebbe esternare lacrime di tristezza. Non credevo fosse possibile condividere una sofferenza tanto intima tramite uno scambio di sguardi, ma Anken è in grado di coinvolgermi in modo così travolgente che non posso fare altro che sostenerlo ed evitare che cada nel vortice delle sue emozioni.
È in questo momento che capisco cosa significhi essere umani. Ed è in questo momento che comprendo che non lo potrò mai più ritornare.
Sorrido mesta al ragazzo distrutto di fronte a me e gli accarezzo una guancia per eliminare ogni singola lacrima.
«Non posso farlo, non posso vivere con le persone che hanno perso tutto per me» sussurra contro il mio palmo.
«Sapete cos'è un'eclissi totale?» ci chiede Tito, introducendosi nella nostra bolla di dolore con una domanda sussurrata.
Mi volto verso l'uomo, annuendo piano.
«Quando un corpo celeste si frappone tra una fonte di luce e un altro corpo, si genera un cono di ombra. Per un attimo quella luce – nel nostro caso il Sole – viene oscurata e tutto cade nell'oscurità» spiega in poche parole, alzandosi e raggiungendo Anken. «Può sembrare un paradosso, ma, se prima la luce ci accecava, con l'occultamento è possibile vedere la verità e, spesso, questa è più dolorosa che avere il sole puntato dritto in mezzo agli occhi.»
Tito si avvicina ad Aken, mettendogli una mano sulla spalla con fare paterno. Le sue labbra si distendono in un sorriso mesto, quasi fosse dispiaciuto di dover caricare Aken di una responsabilità tanto gravosa.
«Tu sei quel corpo, Anken. Ti sei posto di fronte a una fonte luminosa ormai radicata in noi e ci hai aperto gli occhi.» Tito si ferma per osservarmi, rivolgendomi un'occhiata di quella che pare rassegnazione. «Non può esistere differenza tra noi e i Medius, né tra me e te. Siamo tutti ipocriti, bugiardi e, soprattutto, destinati a essere dei simulacri di quello che un tempo era l'essere umano. Permetteteci di rimediare agli errori commessi» ci implora, «permettici di ricominciare.»
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Nei giorni successivi, grazie al supporto di Tito, Anken e anche degli studenti più giovani, ho iniziato a farmi vedere più spesso al Refettorio e in biblioteca. Tito non mi lascia mai da sola e, anche se non me lo ha mai detto, penso che tra gli esseri umani siano più coloro che mi vogliono morta rispetto a chi invece mi guarda con curiosità.
Molti bambini, accompagnati da Keegan, mi si sono avvicinati per farmi domande di ogni genere e molti studenti sembrano essere propensi ad accettare lezioni da me: in gruppi da cinque o sei mi chiedono informazioni su argomenti specifici, o di parlare loro della vita nella Città e io sono sempre lieta di poter condividere le mie conoscenze con loro.
Durante il pranzo Anken mi raggiunge sempre, spesso con nuovi tagli o lividi sul corpo, e, nonostante siano passati ormai parecchi giorni dalla scoperta su chi è veramente, continuo a notare un velo di colpevolezza a oscurargli il viso. Le occhiaie si fanno di giorno in giorno più profonde e spesso, quando la sera viene a scambiare due chiacchiere nell'appartamento che ormai considero mio, si addormenta senza accorgersene. Ogni tanto mi perdo a osservarlo, mentre dorme, invidiosa che a lui sia ancora concesso sognare: a casa spesso usavo l'Origina Sogni, una tecnologia capace di proiettare storie brevi o lunghe atte a sostituire un'azione di cui, una volta Medius, non si è più in grado. Ne ho un intero scompartimento, nella mia camera da letto, scatole su scatole di sogni preconfezionati. Ma Anken non è un Medius, così, quando le palpebre si abbassano, stremate dall'intera giornata di lavoro, i suoi occhi si aprono su un mondo totalmente incontaminato.
La punta di gelosia per i sogni che gli sono concessi si dissipa ogniqualvolta sono costretta a svegliarlo per via degli incubi, come in questo momento.
«Ehi» lo scuoto piano, posandogli una mano sulla spalla. Anken apre gli occhi e gli ci vuole un attimo per capire di trovarsi sul divano della mia stanza. Poso a terra il libro che stavo leggendo, accertandomi che stia bene. «Cos'era, questa volta?»
«Stavo litigando... con una ragazza.»
«La conosci?» gli chiedo.
Parlare dei ricordi inconsci che si trasformano incubi lo aiuta: spesso riconosce alcune persone e il giorno successivo si accerta che stiano bene. Quando mi sposto insieme a lui tra i corridoi, noto che ha sempre un occhio di riguardo per coloro che conosce grazie alla vita di qualcun altro.
«Sì, è nello Squadrone con cui mi alleno» mi spiega. «Un litigio stupido, ma è stata l'ultima volta in cui si sono parlate. La amava davvero.»
Annuisco comprensiva, abbassando lo sguardo. Anken può provare le emozioni di chi gli ha dato questo corpo con una tale intensità da sentirle sue e non mi resta che consigliargli di andare a parlare con la ragazza.
«Non penso voglia sapere che parte di colei che ama vive dentro di me. Potrebbe essere ancora peggio di pensarla scomparsa.»
«Devi trovare un modo, allora, non lasciare che viva con questo rimpianto.»
Anken mi sorride, prima di alzarsi per tornare nella sua stanza, e mi sfiora la testa con una carezza.
«Lo farò, rimedierò a tutto quello che queste persone non possono più» mi promette.
Lo saluto con un cenno della mano, pronta ad abbandonarmi alla solitudine che subentra ogni volta che se ne va.
Anken, già sulla porta, si volta verso di me.
«Non me l'hai mai detto» asserisce, per aggiungere poi: «Il perché hai scelto di darmi questo nome».
Lo fisso forse più del dovuto, scorgendo la meravigliosa coscienza che si è evoluta in lui. Poi mi alzo, dirigendomi verso la libreria. Non avrei mai pensato che un testo tanto antico potesse essere conservato qui, nascosto tra informazioni scientifiche e numeri al limite del comprensibile. Eppure, in un giorno particolarmente solitario, la copertina damascata e le lettere dorate del titolo hanno fatto capolino tra i tomi pieni di grandi parole.
Sfilo il libro dallo scaffale e glielo porgo.
«Il principio della tua storia coincide con quello descritto qui, anche se il tuo destino se ne discosta. Spero ti possa tenere compagnia» gli auguro, prima di chiudere la porta.
Anken è ancora intento a osservare la copertina, con il nome dell'autrice che riflette le luci soffuse del corridoio. Mary Shelley pare avere previsto molto del nostro futuro.
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