23. Medius
Mi dispiace sempre vedere questa storia abbandonata, perché ci sono tanto legata, ma ho davvero poco tempo da dedicarle. Pubblico in un colpo tutti i capitoli che ho a disposizione, sono stanca di vederli qui a marcire nelle bozze, e spero che appena finita la sessione estiva possa scrivere gli ultimi sei (già scalettati, è solo questione di scriverli).
So che che i lettori di Eclipsis sono pochi, ma voglio ringraziare chi ha l'enorme pazienza di attendere i mesi che separano un aggiornamento dall'altro. Grazie davvero, grazie se siete arrivati fino a qui e grazie se avrete la pazienza di aspettare ancora.
Passano diciannove giorni, prima che possa lasciare la suite di Tito. Anken è venuto a trovarmi ogni volta che ha potuto e non sono mancate nemmeno le visite degli alti gradi dei Ribelli, sempre più interessati a usarmi come risorsa di informazioni. Nonostante abbia mostrato più volte completa trasparenza rispetto a tutto ciò che conosco, alcuni di loro paiono ancora diffidenti nei miei confronti, ma hanno deciso che è ora di rivelare la mia presenza anche al resto della comunità. Nel frattempo, la stanza in cui ho vissuto si è riempita di libri, l'unica altra fonte di compagnia permessami, e di alcuni vestiti che Anken ha procurato per me. Inizialmente aveva anche insistito affinché gli Squadroni di ricognizione si rifornissero di capsule alimentari adatte al mio nutrimento, ma gli ho spiegato che, essendo stata creata con l'intenzione di ingannare gli umani, posso nutrirmi nel loro stesso modo senza ripercussioni: continuo a trovare il tempo dedicato ai pasti uno spreco, ma non voglio che nessuno si metta in pericolo per me.
In questo tempo ho avuto modo di conoscere molto più a fondo Anken e la sua complessità. Nemmeno lui si rende conto della trasformazione che sta subendo, ma, se all'inizio non era altro che un ragazzo spaesato e alla ricerca di un'identità, ora se ne sta costruendo una pezzo dopo pezzo. Mi ha raccontato che a volte gli sembra di conoscere già le persone con cui parla, di sapere le loro abitudini, di indovinare i loro nomi, quasi facessero parte del suo passato. Inoltre, le sue capacità stanno crescendo in modo esponenziale, come se le esperienze vissute ogni giorno non siano altro che stimoli per potenziare ogni area del suo cervello. Riesce a fare calcoli rapidamente, trovare soluzioni logiche in poco tempo, trarre conclusioni a partire da minime congetture, stimare misure senza bisogno di alcun tipo di strumento: se non fosse evidente il contrario, si potrebbe pensare che sia esattamente come me. Ma io sono stata umana solo per una piccola parte della mia vita, mentre lui sta scoprendo come diventarlo a tutti gli effetti. Ho sempre più supposizioni su come Viktor sia arrivato alla creazione di Anken e del perché qui tutto gli paia così famigliare, ma ho deciso di non farne parola con il ragazzo fin quando non avrò più certezze.
«Sei pronta?» mi chiede Tito, che mi sta aspettando di fronte all'ingresso.
Lo fisso inespressiva, per poi annuire e iniziare a seguirlo.
Se Anken ha iniziato ad aprirsi con me, non posso dire che sia accaduto il contrario. Mi sono sentita spaventata dalla differenza sempre più evidente tra me e lui, mi sono sentita inferiore. Ciò che ho fatto è stato chiudermi nelle mie reazioni controllate, nella mia razionalità e nella mia assoluta mancanza di empatia. Mentre lui riscopre cosa significa essere umani, io mi sento sempre più inadeguata per il ruolo a cui mi ero destinata: non riuscirò mai a sorridere spontaneamente, a capire cosa si provi senza che l'abbiano prima sperimentato i miei interlocutori, ad agire seguendo l'istinto. Ogni volta che l'argomento ricade sulla mia persona, eludo le domande e fingo come ho sempre imparato a fare e come sto facendo ora. Mi atteggio come se fossi emozionata al pensiero di uscire, quando in realtà non provo altro che sollievo per la possibilità di lasciare quel rettangolo che nell'ultimo periodo ho potuto studiare in ogni suo particolare. Ho scovato due telecamere e alcuni microfoni, ma non ho mai fatto nulla per impedire agli umani di tenermi sotto controllo, se non evitare accuratamente discorsi che potessero mettermi in pericolo o far sospettare di me: deve aver funzionato, se ora la porta dell'appartamento è alle mie spalle.
«Faremo solo un giro in Refettorio, a quest'ora ci sono solo gli studenti per la loro pausa pranzo. Abbiamo anticipato la tua presenza e rassicurato ogni singolo membro della comunità, non devi temere nessun tipo di attacco» mi rassicura Tito.
Anken mi ha raccontato del giorno in cui è stata rivelata la mia persona. Quasi nessuno era dell'idea di permettermi di restare, ma a quanto pare i generali sono riusciti a ottenere clemenza per me, grazie anche al supporto del ragazzo che, nelle settimane, è diventato sempre più gradito. Anche i Ribelli devono essersi accorti delle sue potenzialità e di come possa essere loro d'aiuto.
«Dopodiché, sei stata invitata a una riunione: vogliamo farti una proposta e spiegarti come intendiamo agire» continua, voltandosi verso di me quando nota che non ho proferito parola.
Tito è l'umano che più pare apprezzare la mia diversità. È sempre interessato a ciò che ho da dire e nei suoi occhi non leggo mai biasimo, né repulsione, ma solo una genuina curiosità. In cuor mio, spero che anche gli altri possano condividere il suo approccio al diverso.
Annuisco, facendogli intendere di aver capito le sue parole. Tito sorride e poi spalanca una porta a doppio battente: se fino a ora non abbiamo incontrato nessuno, appena mettiamo piede nel refettorio ogni attività si ferma e il silenzio sostituisce il vociare dei giovani umani. Ne conto trentacinque, principalmente tra i nove e i quindici anni, di entrambi i sessi. Sono disposti su venti tavolate che occupano interamente una stanza oblunga, mentre sul fondo posso individuare un reparto adibito alla cucina.
Trattengo il fiato mentre seguo Tito, che pare ignorare il silenzio artificiale rotto da ogni nostro passo. Mi sforzo di essere più come Anken e meno come me stessa, indossando una maschera di cortesia che possa sostituire la mia espressione seria. Non pare funzionare, perché nemmeno uno degli studenti presenti mi toglie gli occhi di dosso.
«Purtroppo la scelta non è ampia, per la maggior parte dei giorni il piatto che regna sovrano è la famosa zuppa di mais» mi illustra Tito, interrompendo i miei timori e passandomi un piatto fondo con all'interno una sostanza collosa. L'ho già assaggiata, ma il cibo mi è indifferente.
«Andrà più che bene, mi piace» mento, notando che una donna di bassa statura mi sta osservando senza ritegno. È completamente vestita di blu e le sue palpebre, contornate da una moltitudine di rughe, sono decorate dalla stessa tonalità. Sorrido, ma non ottengo nessuna risposta.
«Con me non attacca» mi dice tra i denti, servendo anche Tito e poi voltandoci le spalle.
«Blue è distaccata per natura, non farci caso. Piuttosto, andiamo a sederci.»
Non appena le sue parole giungono agli studenti, tutti abbassano lo sguardo all'unisono, come se d'un tratto i loro piatti fossero diventati interessanti. Una pressione alla base dello sterno inizia a risalirmi lungo la gola, ma scaccio ogni sensazione a me estranea e cerco di modulare l'espressione su quella di Tito, sempre serena. Lo seguo verso il tavolo più vicino, dove ci sono due posti liberi e, non appena ci sediamo, i quattro ragazzi seduti si alzano per uscire dalla stanza.
Tito non fa in tempo a parlare, perché nuovi mormorii si levano tra i giovani. Non posso non notare come, se io sono stata accolta dal silenzio, al nuovo arrivato spettino solo sorrisi. Per quanto anche io voglia distendere le labbra, qualcosa me lo impedisce. Delusione? Gelosia?
Anken saluta alcuni ragazzi, accarezzando i capelli dei bambini più piccoli e battendo una pacca sulle spalle degli studenti più grandi. Sembra aver riscosso parecchio successo, tra loro, e spesso mi parla di come durante le pause vada a tenere alcune lezioni di autodifesa nelle singole classi, così da preparare chi in futuro vorrà fare parte degli Squadroni.
«Si respira meglio, qui fuori?» mi chiede, non appena riesce ad avvicinarsi a noi.
Il peso opprimente pare farsi più leggero, quando sento la sua presenza famigliare al mio fianco. Anken mi dedica un sorriso, per poi prendere posto e posare un braccio sullo schienale della mia sedia.
«Nessuno ha ancora cercato di uccidermi» rispondo sottovoce, così da non farmi sentire.
Tutti gli sguardi sono ancora su di noi, ma questa volta non trovo ostilità negli occhi degli studenti: pare siano incuriositi dal fatto che Anken sia tanto a suo agio vicino a me.
«Sono solo sorpresi, sei alquanto diversa da come immaginano un Medius» cerca di spiegarmi Tito. «Lo siamo tutti.»
«Ti dimostro una cosa» interviene Anken, per poi voltarsi verso il tavolo più vicino al nostro. «Ehi, Keegan, vieni qui!»
Un bambino, molto più piccolo rispetto a quelli seduti con lui, fissa Anken fino a quando questi non gli fa cenno di avvicinarsi. Lancia un'occhiata ai suoi compagni, ma poi si alza e ubbidisce al ragazzo.
Adesso il bimbo è proprio di fronte a me: riesco a osservare ammirata la sua pelle color caramello e gli occhi scuri illuminati dalle luci artificiali, ma noto che li tiene distanti dai miei, quasi avesse timore.
«Sai chi è lei?» chiede Anken, indicandomi con un cenno del capo.
Rimango immobile, insicura su quello che stia facendo.
«La nuova arrivata» bisbiglia il bambino, lanciandomi uno sguardo troppo veloce perché ne possa cogliere l'espressione.
Sento il mio battito cardiaco accelerare senza motivo e, spinta da un'abitudine ormai incontrollabile, analizzo i parametri del ragazzino. Capisco che la sua statura è inferiore a quella dei compagni perché gli mancano alcuni elementi importanti, come il calcio e il ferro: forse i genitori dovrebbero saperlo e provvedere con una dieta migliore.
«E sai come si chiama?» continua Anken. Keegan scuote la testa. «Perché non glielo chiedi?»
Vedo gli occhi scuri del bambino sgranarsi e sento qualche esclamazione provenire dai tavoli intorno al nostro, ma non ho il coraggio di sollevare lo sguardo. Il peso che prima mi gravava sullo sterno ora mi stringe la gola, ma lo ignoro, come ignoro la consapevolezza di avere paura. Non sono mai stata in mezzo a così tanti umani e non temo certo che i bambini mi possano fare del male. Quello che mi spaventa, realizzo, è il rifiuto.
Il bambino si tortura le mani, ma poi pare prendere coraggio e incrocia i miei occhi. Incredibilmente, noto che gli stessi miei timori sono riflessi sul suo volto. Ha paura di me? Rimaniamo in silenzio a fissarci, io sorpresa della sua espressione, lui probabilmente confuso dal fatto che la mia sia illeggibile.
Anken si schiarisce la gola e il bambino si riprende.
«Come ti chiami?» chiede alla fine, quando pensavo che sarebbe scappato a gambe levate.
Cerco di modulare la voce, così che possa trasmettere sicurezza e non spaventarlo ulteriormente.
«Amanda» rispondo, senza porgli la stessa domanda, dal momento che conosco già il suo nome.
«Io Keegan» mi risponde comunque, più spavaldo. «Vieni da fuori?»
Annuisco, senza sapere cosa altro dire. Ricordo di essere stata anche io bambina, ma sembra che ogni singola sensazione provata in quella fase della mia vita sia stata seppellita dall'apatia che ha accompagnato i miei anni da Medius.
«È vero che le crocchette di patate non crescono sugli alberi?» mi chiede poi, tutto d'un fiato. Mi acciglio, guardandolo senza capire, e vedo Anken e Tito sorridere. «Mia sorella dice di no, ma lei non lo può sapere» mi spiega.
«Io... presumo di no» dico, non sapendo effettivamente che cosa siano, ma intuendo che probabilmente sono fatte con le patate. Faccio una rapida ricerca, assicurandomi di chiudere gli occhi così che il bambino non sia spaventato da quello che potrebbe scorgere nelle mie iridi. «Servono patate, pane e uova liofilizzate, per farle» rispondo alla fine.
«Le hai mai fatte?»
«No» ammetto, evitando di spiegargli che cucinare è solo una perdita di tempo.
«E come lo sai?» continua a indagare, stringendo gli occhi.
«L'ho letto.»
Ora è il turno di Keegan di accigliarsi, quasi sorpreso che la semplice azione di leggere possa dare risposte a ogni domanda.
«Me lo scrivi di cosa sono fatte?» chiede alla fine, sgranando gli occhi come per implorarmi di accettare.
Annuisco brevemente e lui subito corre al suo posto per recuperare nello zaino una tavoletta elettronica. Quando me la porge, già aperta su un foglio digitale, scrivo velocemente gli ingredienti e le quantità necessarie, per poi restituirgliela. Non appena il mio sguardo incrocia il suo, per poco non sussulto. Tra tutti i doni che mi sono stati fatti, ciò che mi sta regalando il bambino è sicuramente il migliore: il suo intero volto è illuminato da un sorriso che mette in mostra i denti mancanti e addirittura gli occhi ne sono così coinvolti che sembrano quasi brillare. Mi lascio scivolare un respiro sorpreso dalle labbra, incapace di calcolare la modalità migliore per agire.
«Grazie, Amanda!» esclama il bambino, per poi tornare al suo posto e raccontare agli amici che "so un sacco di cose".
Sbatto le palpebre, come per accertarmi di trovarmi realmente qui, e noto che anche Tito e Anken stanno sorridendo sotto i baffi.
«Abbiamo voluto iniziare dai bambini perché sono i più facili da convincere» mi sussurra Tito, attento a non farsi sentire dagli studenti che, ora, paiono positivamente interessati a me.
Annuisco, fissando la zuppa di mais ormai fredda.
«Non pensavo potesse essere così...»
«Facile?» interviene in mio soccorso Tito.
«Intenso» sussurro, lanciando uno sguardo a Keegan e ai suoi compagni che ora sembrano aver abbandonato ogni segno di tensione.
È bastato poco per conquistare un bambino, ma sarà così semplice anche con il resto della gente? La reazione contrariata di Blue, dietro il banco della cucina, mi dà la risposta: no, evidentemente d'ora in poi troverò solo ostacoli sul mio percorso.
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