18. Creatura
Il sangue ha sporcato interamente il lavandino e il tappeto, ma immagino che con un po' di detergente possa rimediare. Guardo i frammenti di vetro che riflettono un'infinità di volte la mia immagine, prima di decidermi a prendere una salvietta per fermare l'emorragia. Sul muro ci sono gli altri segni della mia irruenza e vederli lì, davanti a me, mi spaventa. Non posso permettermi di essere impulsivo o di non saper controllare le mie emozioni.
Ho seguito per due giorni le loro indicazioni, ho visitato con la stratega ogni anfratto di questo posto e ho anche evitato di uccidere quella miserabile parassita che mi ha sfregiato la faccia. Ma niente di quello che ho dato a questi uomini è stato ricambiato. Il prefetto Tito mi ha assicurato che Amanda non ha mai mostrato interesse nei miei confronti e, dunque, che non vede perché vorrei parlare con lei. Credo al fatto che non gli abbia chiesto di me, perché dovrebbe? Ma non comprendo perché non mi permetta di scambiare due parole con la Medius. Fisso la mano, che ormai ha intriso l'asciugamano di sangue, e sono quasi tentato di scagliare un altro pugno per la frustrazione quando una domanda arriva a stento alle mie orecchie. Mi fermo con la mano già sollevata a mezz'aria, pronta a lanciarsi con forza sull'intonaco.
Me lo sono immaginato, probabilmente il fruscio dei miei vestiti mi ha confuso. È un'illusione. Nessuno si preoccupa per me, men che meno nessuno, in questi otto giorni, mi ha chiesto se stessi bene. Scuoto la testa, fissando di nuovo l'asciugamano che si sta pian piano tingendo di rosso.
«Dannazione» sussurro, notando di aver aperto la ferita del dottor Conan. Cerco di fare pressione sul taglio, ma con i frammenti di vetro ho solo peggiorato la situazione. Da terra, ogni scheggia riflette la mia espressione afflitta. Oltre al naso rotto e ai lividi doloranti, mancava solo una mano inutilizzabile e le voci che mi chiedono come sto. Scuoto la testa contrariato. Sto impazzendo, qui dentro. E, a confermare i miei timori quella voce sussurra di nuovo. Questa volta, però, è il mio nome.
Rimango immobile, sicuro che non può essere stato il fruscio dei miei vestiti, dal momento che non mi sono mosso. La pronuncia del mio nome, poi, è diversa da quella con cui hanno preso a chiamarmi qui: tutte le nuove conoscenze marcano l'accento sulla seconda sillaba, mentre solo una persona concentra la pronuncia sulla prima. Alzo lo sguardo, per capire che cosa stia succedendo e, appena lo vedo, sgrano gli occhi: non sono pazzo. O, se lo sono, ho bisogno che quella voce mi parli di nuovo. Ho bisogno di sentirla, anche se è solo un'illusione creata dalla mia testa.
«Amanda?» chiedo in un sussurro, quasi avessi paura a pronunciare ad alta voce il suo nome.
Dal condotto dell'aria proviene un sussulto, poi un movimento e il silenzio. Sposto i frammenti di specchio da terra per evitare di ferirmi i piedi e salgo sul bordo della vasca da bagno, sporgendomi verso il condotto dell'aria. È lei. Non può non esserlo, l'ho sentita distintamente.
«Amanda» ripeto, questa volta a voce più alta, per quanto il groppo d'emozione che mi si è formato in gola me lo possa permettere. Non essere un'illusione, ti prego. Mi aggrappo alla griglia come se fosse la mia ultima speranza, fino a quando, finalmente, lei non mi dà la prova concreta che stavo aspettando.
«Spero non ti sia lacerato un'arteria, perché non posso uscire da questa stanza per chiamare aiuto.»
Scoppio a ridere, mentre gli occhi mi si inumidiscono e qualcosa di sconosciuto mi scalda il petto. «Dimmi che stai bene, ti prego, dimmi che non ti hanno fatto del male.»
«Sto bene, Anken» risponde pragmatica. «Tu... sei...» per la prima volta, la sento tentennare. Decido che è un buon segno e mi lascio andare a un'altra risata di sollievo.
«Sono qui. Riesci ad arrampicarti sulla vasca da bagno?» le chiedo, cercando un modo per togliere la griglia. Riesco a intravedere la tubatura e una luce dall'altra parte, probabilmente quella del suo bagno.
«No, è troppo lontana. Posso recuperare una sedia e qualche cuscino. Non ti muovere» mi ordina, mentre si allontana dal bagno.
«Non mi muovo» rispondo, conscio che non mi possa già più sentire. «Resto qui.»
Dopo pochi minuti la sento tornare con una sedia, ma nonostante i cuscini è comunque troppo bassa e mi dice che arriva al condotto giusto con il naso. Cerco nuovamente di eliminare la griglia di ventilazione, fino a che non riesco a staccarla dal muro e la lascio cadere nella vasca. Oltre a un lungo condotto metallico, che soffia aria calda contro la mia faccia, c'è Amanda. Non riesco a vederla, se non per il movimento della sua testa, ma sapere che è a pochi centimetri da me mi consola più di ogni cosa accaduta in questa settimana.
«Dove ti tenevano?» chiedo, mentre insieme proviamo a far cadere anche la sua griglia.
«In una stanza completamente bianca. Mi sono annoiata a morte» mi fa sapere. «Aspetta, ho capito come fare, devo cercare una penna.»
Aspetto che ritorni, prima di farle altre domande. «Hanno voluto qualcosa? Ti hanno chiesto informazioni?»
«No» mi risponde senza inclinazione. «Ordinaria routine, presumo. Hanno voluto sapere chi fossi, in che rapporto fossi con mio padre e che cosa studio. Niente domande scomode o difficili, in realtà. Ce l'ho quasi fatta.»
«E perché ti hanno spostata?»
«Tito ha detto che non cambia niente: sono sempre rinchiusa, ma magari qui è più comodo.»
«Molto umano da parte loro» sussurro sprezzante. Amanda non è una macchina, ma una Medius: forse finalmente hanno capito la differenza.
Sto per chiederle se è ferita, ma prima che possa parlare sento la griglia cedere e per un attimo ho una perfetta visuale sulla parete bianca del suo bagno. Poi, metà testa di Amanda copre la mia visuale.
«Ciao» dico incredulo, fissando i suoi occhi e notando che li sta sgranando con orrore.
«Che ti è successo» sussurra atterrita, non utilizzando un tono interrogativo. Mi ricordo solo ora che Den mi ha distrutto la faccia: non deve certo essere un bello spettacolo.
«Sto bene, davvero, è acqua passata» cerco di tranquillizzarla.
«Anken, loro ti-»
«No, no» la fermo subito. «Non mi hanno fatto del male, ma una ragazzina ha... perso la testa. Credeva fossi un Medius e che la mia presenza qui fosse una trappola» le spiego sbrigativamente, tralasciando il fatto che mi sembra di conoscere quella ragazza meglio di me stesso.
«E ti ha ridotto così?» chiede senza muovere le sopracciglia, anche se riesco a percepire lo scetticismo nel suo tono.
«Sì, ma lei non è messa meglio» taglio corto io, ripensando allo zigomo spaccato e al taglio sulle labbra di Hayden.
«Fammi vedere la mano» mi ordina Amanda. In un primo momento non capisco, poi scosto l'asciugamano ormai rosso e sollevo la mano in modo che la possa vedere. «E quello cos'è?» mi chiede, indicando il taglio e il filo nero dei punti spaccato a metà.
«Mi hanno messo un localizzatore, quello che serve ad aprire le porte e il resto. Ma credo di aver rovinato il lavoro del Dottor Conan» sussurro alla fine.
«Sì, decisamente» ridacchia Amanda. Sorrido nel sentirla ridere e riavvolgo l'asciugamano intorno alle nocche, sperando che il sangue si fermi.
«Non mi piace che ti tengano rinchiusa» le dico.
«Nemmeno a me, ma capisco: la gente mi ucciderebbe se sapesse che sono qui.»
Guardo la porzione di viso che riesco a scorgere al di là del canale dell'aria. «Sapevi che non ti avrebbero accettata» constato: era consapevole di cosa la attendeva e, nonostante ciò, ha voluto comunque seguirmi. «Mi dispiace di averti trascinata fino a qui, volevo dirtelo prima, ma non mi permettevano di parlarti» le rivelo.
Amanda chiude per un attimo gli occhi. «A me dispiace che una ragazzina ti abbia picchiato.» Sorrido, storcendo la bocca per la fitta provocata dal naso.
«Parlerò con Tito, gli chiederò di poterti vedere. Non è giusto che tu debba stare lì, da sola.»
Amanda sorride e lo capisco nonostante non possa vedere le sue labbra. «Grazie, Anken. Ero stanca di contare» mi risponde, senza che riesca a capire che cosa intenda.
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