TALTIBIO
"Neottolemo vuole vendicare il padre".
"E come?" aveva chiesto tremante Taltibio.
"La testa della figlia più giovane di Priamo, la principessa Polissena. Vuole vedere il sangue della fanciulla scorrere sulla terra dove quel bastardo di Paride ha ucciso Achille".
Taltibio aveva pianto. Lui piangeva spesso. La virilità non era mai stata una delle sue qualità, non era una persona dominante: sua moglie, Orizia, lo disprezzava; i suoi figli lo detestavano. Solo i codardi erano araldi. Era risaputo.
"Ma è una giovinetta! Del tutto innocente! Non è stata colpa sua se il Pelide..." aveva inutilmente protestato.
"Anche Ifigenia, la figlia di Agamennone e Clitennestra, era una giovinetta, molto più piccola di Polissena. Quanti anni ha? Quindici? Sedici? Ifigenia ne aveva undici quando il re di Micene la uccise brutalmente nel nome di Artemide". La risposta del rappresentante dei re greci avevano definitivamente zittito il messo, che s'era dunque affrettato a malincuore a riferire le loro ultime decisioni alla sventurata regina di Troia, Ecuba, evitando però di annunciare l'orrendo destino di Polissena.
Dolce, graziosa, Polissena.
Lei era con la madre al tempio di Apollo Timbreo, territorio estraneo al conflitto, quando il Pelide Achille l'aveva vista e l'aveva bramata, tanto da dimenticare il suo amore perduto, il giovane Patroclo. L'innocente principessa era stata all'oscuro di tutto, ma il vecchio re Priamo aveva saputo volgere la situazione a suo vantaggio.
Un matrimonio, tra sua figlia minore e tra il grande guerriero dei Mirmidoni. Una cerimonia segreta. Lo sposo era stato ucciso dal principe Paride sulla porta del tempio, luogo dello sposalizio. Priamo e Paride avevano pagato per il loro inganno, ma Polissena? Una pedina inconsapevole. I greci la odiavano comunque.
"Ecuba, sarò chiaro con te".
L'araldo era in piedi, sudante come un maiale; la madre di Ettore era seduta su un masso, intenta a intrecciare ghirlande di erbacce. "Riguardo a cosa?" domandò lei, fredda.
"Alla tua figlia più piccola".
La ghirlanda cadde dalle mani stanche della donna, ma lei non alzò gli occhi dal terreno.
"So già cosa devi dirmi. Polissena non vivrà, vero? È così?". C'era tremore nella sua voce, ma non una sfumatura di debolezza.
"Così ci disse Agamennone, nel nostro primo giorno di prigionia: 'Ora non siete troiane, siete schiave o cadaveri'". Polissena non avrà padrone, perché morirà".
"Sì, mia regina". Taltibio non s'era mai sentito così male. "Neottolemo, l'erede di Achille, domanda il suo sacrificio sulla terra dove il padre è caduto per mano di tuo figlio Paride".
Ecuba, questa volta, non fu dura con lui. Si alzò e gli sorrise debolmente, accarezzando il suo braccio villoso.
"Grazie. Adesso so che sei mio amico". Ad uno sguardo incredulo di lui, spiegò: "Hai voluto prepararmi ad un destino orribile. Il tuo re di Micene, o il figlio di Achille, me l'avrebbero presa senza neanche darmi la possibilità di salutarla un'ultima volta. Qual'è il tuo nome, messo?" chiese poi. "Taltibio, mia nobile signora".
La osservò andarsene, fiera, alta, con i capelli bruni e le vesti arancioni svolazzanti; si toccò il punto dove lei lo aveva amorevolmente toccato. Ammirava la regina di Troia, la trovava forte e gloriosa nei suoi dolori. Da solo, pieno di rispetto, s'inchinò, toccando la polvere con il capo.
Quella notte, pregò gli dei per Ecuba e le sue figlie. Pregò fino all'alba, fino allo sfinimento. Ma sapeva ch'era tutto inutile. Gli Dei non ascoltavano le preghiere dei piccoli. Non toccò cibo, bevve solo una coppa di vino: Orizia lo criticava sempre per la sua ingordigia. La fame gli era passata totalmente all'apparire del senso di colpa e dell'angoscia.
Lui non voleva la guerra, poiché sapeva che cose del genere capitavano sempre dopo un assedio. Anni prima, non aveva voluto andarci. Aveva rifiutato, ma sua moglie gli aveva detto: "Vai, o sarai sempre un codardo, nel cuore mio ed in quello dei tuoi figli!". L'aveva osservato con biasimo, aveva osservato la folta peluria canuta sulle braccia e sul viso, la pelata luccicante, gli occhi grandi e timidi, la pancia gonfia ed enorme. Tutto fuorché un uomo. La sua bocca si era contratta in una smorfia di disgusto.
"Sempre che tu non lo sia già, un codardo. Io ti odio, Taltibio" aveva commentato poi, velenosa, ritornando a tessere nel gineceo con le altre ancelle. Orizia era tutto l'opposto di Ecuba, era arrogante e irrispettosa, ma non aveva torto.
Un qualsiasi uomo avrebbe picchiato duramente una consorte del genere, ma lui era incapace di fare del male a qualsiasi essere vivente. Le sue mani erano candide, la sua bocca pura da ogni insulto. Orizia voleva un uomo cattivo, che la dominasse, per questo lo stuzzicava, tentando di tirare fuori la sua parte peggiore. Invano. E per questo, lo detestava, nonostante lui l'amasse.
Taltibio aveva il corpo di uomo temibile, ma la mente di donna indifesa.
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