JOANNA

"Sei veramente bella. Deliziosa...".

Joanna, che fissava il soffitto ammuffito del Sonderbauten, non osava respirare. Le mani unte e grasse del Kapo la schifavano, per non parlare dell'alito puzzolente e dell'odore della divisa.
"Come ti chiami, biondina?" le chiese.
"Il...il mio nome?".
"No, puttanella polacca, il tuo numero! Non me ne frega un cazzo del tuo nome!". 
Lo disse, secca, senza togliere lo sguardo dal merdoso soffitto. "Beh, la prossima volta mi ricorderò di te" esclamò, imitando in modo beffardo il suo accento polacco. Andandosene, tirò una pacca sulle sue natiche e uscì dalla stanza ridacchiando.

"Ancora con quel cazzo di gesso, Joanna? Non ti stanchi mai?" la beccò sottovoce Elzbieta. Avevano corrotto Liwia e Tanja con le loro razioni di zuppa, in modo da poter parlare indisturbate. Le altre ragazze... non erano un problema. Joanna era così furiosa che riuscì a frantumare il gessetto in tante piccole briciole, per poi bestemmiare con voce appena udibile.
"Non incazzarti, tanto era praticamente finito" disse l'altra, accarezzandole i capelli color del sole.
"Non ho scritto l'ultimo! Ole Böhm! Ole Böhm!" sibilò, picchiando i pugni sul pavimento.
"Un Kapo?" domandò Elzbieta, e Joanna annuì. 

Il mattino dopo era ancora lì a ripetere infinitamente 'Ole Böhm' per non dimenticarselo, mentre cercava di aggiustare la divisa bucata di qualche ufficiale. Era un disastro con ago e filo; da bambina, nella fattoria dove abitava con la sua famiglia, sua madre aveva da sempre cercato di insegnarle a ricamare, ma lei non era mai riuscita a combinare nulla di buono. Spesso Elzbieta terminava il suo lavoro, altrimenti sarebbero state tutte affamate a morte. 

"Come va con quella roba?".
"Sono riuscita a infilare il filo nell'ago". Mentre parlava, il nome 'Ole Böhm' continuava a riempirle la testa. La Blokowa Ewe, una rincoglionita delle SS loro guardiana, era fuori a fumare; avrebbero potuto scambiarsi qualche parola di nascosto.
"Quindi, ieri mi stavi dicendo che scrivi i nomi di tutti quelli che ti picchiano e ti fottono?". La loro conversazione era stata quella, miseramente terminata a causa di Ewe, che aveva ordinato loro di tacere, pena correre nude nel gelo della notte con dei cani alle calcagna.
"Sì".
"Ma... perché?". Elzbieta la guardava come si guarda un folle.
"Per salvarmi. Per darmi una ragione di vita".
"Una...una che?".

Joanna poggiò le mani sulle sue ossute ginocchia. "Una ragione di vita, come la vuoi chiamare! Niente ha più senso qui, e nessuno vuole lottare, darsi uno scopo! È come se tutti fossero già morti, lavorano, cercano di non crepare di fame e di sete e... basta!".
Era immersa in una furia eroica, una cosa che Elzbieta non vedeva da molto tempo. "Io scrivo i numeri dei nostri aguzzini, per ricordare! I nomi degli ufficiali, dei Kapo, chiunque mi abbia fatto del male! Io uscirò da qui quando la guerra finirà, Elzbieta, è una promessa. Perché la guerra finirà!" s'interruppe, deglutendo. "Queste persone hanno moglie, figli, una casa, un cane, un giardino. Io li ritroverò tutti, nessuno escluso, e a tutti i figli e le mogli consegnerò i nomi, i numeri, mostrerò le mie cicatrici!".

Quella notte, Joanna stranamente dormì. Dormì veramente, non si limitò a tenere gli occhi chiusi come faceva lei, come facevano tutti. Sognò sua madre, piccola, bionda, con il grembiule a fiori, ritta sulla porta della fattoria; accanto a lei il cagnolino con il quale giocava quand'era piccola, e dietro di lei suo padre e i suoi fratelli, biondi e magri.

Lacrime le scivolarono lungo le guance. Strinse le briciole di gesso.

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