GARCIN, INÈS, ESTELLE
Ancora.
Estelle si sfilò da lui, spenta, mentre Garcin singhiozzava tirando pugni al pavimento e strappandosi i riccioli neri.
"F-Faccio schifo, non riesco ad-ad amarti, v-vero? N-Non so sod... soddisfare le t-tue aspettative, è c-così?" frignò, coprendosi la faccia con i palmi. Le labbra di Estelle si mossero per un laconico "No, ti sbagli", ma si frenò appena in tempo, un cipiglio annoiato. Aveva finito già da molto le parole per consolare lo stupratore e ora si limitava a lasciarlo lamentarsi e poi ci riprovavano.
Infinitamente.
Invece Inès, davanti al quadro appeso al muro, aveva ancora recitato una delle battute di scherno per lui, la monotona "Non ti tira più? Sei ancora meno uomo di prima", che non dava un minimo d'effetto. Lei lo sapeva benissimo, ma cercava comunque di risvegliare la sua ira per farsi picchiare.
Voleva essere picchiata, lo voleva immensamente. Ma, assieme alla forza di scopare, Garcin aveva perso pure la forza di percuoterla. Di reagire. E ciò faceva diventare Inès fuori di testa: se all'inizio odiava ciecamente il brasiliano per averle messo le mani addosso, ora perché non lo faceva. Là, in quella stanza, non provavano che l'infinito; tutti e tre bramavano sentire almeno qualcosa di reale, e per lei e Garcin era il sesso. Per la mora il dolore fisico.
Estelle scoprì il viso del suo amante: piangeva così spesso che era diventato praticamente cieco, gli occhi gli si erano consumati tutti quanti e rischiavano quasi di uscirgli dalle orbite. Sgarbatamente, lo tirò a peso morto sopra di sé attendendo il movimento delle sue natiche. Stando lì, in quel posto, avvertiva delle sensazioni che non aveva mai provato in vita, delle dita scheletriche e vellutate che scalavano nel suo ventre con una lentezza esacerbante.
Una lentezza che la esasperava, ma mai troppo. La parigina dai capelli rossi era per la prima volta completamente indifesa e nuda di certezze. Non era più invincibile.
Ciò la seccava. Profondamente.
-
Inès sputò per terra.
Sputò rabbia, disgusto, odio, ferocia, sbalordimento, sprezzo. E saliva.
Quei due bastardi continuavano ad ammucchiarsi, o almeno, ci provavano.
"Sarai frigida ormai, Estelle" gracchiò, con tono teatrale e fintissimo.
La ragazza premeva le mani bianche e affusolate sulla pelle liscia dell'altro, costringendolo a compiere movimenti circolari dentro di lei; Garcin la lasciava fare con una naturalezza assonnata, completamente catatonico e incapace di intendere e volere.
Lacrime salate e calde scavavano il viso scarno di Inès che, in preda all'infinito, prese a darsi schiaffi e ad arpionarsi i fianchi come una furia: lingue di sangue le scivolarono lungo le gambe e la solleticarono.
Perché?
Perché nessuno le faceva del male fisicamente?
Lei era così perfida, così maligna e selvaggia e priva di scrupoli e stronza e puttana, perché non veniva punita come meritava?
Primrose!
Primrose, la creatura che lei stessa aveva creato e ucciso, perché non la facevano torturare da lei? Primrose era una ragazzina così gracile e innocente e piccola e buona e ingenua e lei l'aveva resa un mostro, ancora più selvaggia di lei; voleva indietro ogni sberla che aveva dato, non voleva l'infinito... voleva le fiamme, i diavoli, la pece, la realtà!
-
"Mio Dio! Guarda, Garcin, guarda! Inès si sta graffiando! Di nuovo!" berciò Estelle nel vedere l'odiosa lesbica che si accartocciava lungo la parete con le gambe vermiglie.
"È proprio cretina, non è vero? ...Garcin?".
La ragazza scoccò un'occhiata al compagno: egli balbettò un "Non mi piace... mi fa paura..." e sparì dietro al divano.
Sbirciò la donna e contemplò il compagno con odio: era sola.
Inès la detestava e la vigliaccheria di Garcin era prevalsa su tutte le sue poche qualità.
Era sola.
Le dita vellutate la solleticavano come non mai. La sodomita la fissava guardinga e allora le fece un sorriso petulante di sfida, ma ciò non la fece apparire più potente.
Il silenzio cadde esattamente come la sua piccola e meschina supremazia. Arricciò nervosamente con un dito una ciocca crespa della sua folta chioma.
"Estelle" la chiamò tranquillamente la compagna di stanza. "Estelle!".
"Che vuoi?".
Le si avvicinò.
"Raccontami ancora di tua figlia".
Il solletico di colpo aumentò, i polpastrelli la sfioravano appena, ma divenne tutto ancora più insopportabile; aveva la pelle d'oca e tremava e le caviglie sbattevano l'una contro l'altra affannosamente.
"Perché l'hai buttata in un lago?".
"Non lo so".
"Sì che lo sai, perché lo hai fatto?".
"Non lo so, ti dico".
Man mano che la conversazione andava avanti le domande di Inès diventavano sempre più incessanti e la sua tremarella più acuta e tremenda.
"Perché hai ucciso tua figlia, Estelle? Perché? Era una bambina appena nata, non si ammazzano i neonati, lo dico perfino io! Perché? Dillo!".
Il suo tono di accusa risuonava come una campana alle sue orecchie; quel viso da rettile era vicinissimo al suo, quella smorfia squadrata accarezzava orribilmente il suo lobo destro.
Perché l'aveva affogata in un lago?
"Perché ero invidiosa".
"Eri invidiosa?".
"Voleva portarmi tutto quanto via".
Rise sprezzante.
"Tu non avevi nulla Estelle, non ha mai avuto nulla, eccetto un visino grazioso e un corpo divino!" sibilò, dandole un buffetto sulla spalla.
"Appunto! Sarei diventata brutta e vecchia per... per colpa sua!".
Inès la studiò ben bene per qualche minuto, per poi commentare: "Che stupida".
Stupida?
Stupida?!
Come osava, lei, quella donna così orrenda, a darle della stupida?!
Sentì l'ira che iniziava a tirarle i capelli e a darle pizzicotti nel rispondere: "...Cosa?! Io...".
Venne allora interrotta: "Non sei stata una brava bambina, zuccherino".
Alle parole 'brava bambina' l'ira lasciò il posto allo sgomento e, successivamente, alla tristezza.
Mamma.
La mamma non le aveva mai detto così. Nessuno le aveva mai detto così, nemmeno il papà quando lei si era rifiutata la prima volta di sposarsi.
La mamma. Come le mancava.
Mamma, mamma, oh mamma, l'amava così tanto e bevevano il tè assieme e dipingevano paesaggi e case davanti alla finestra e preparavano i biscotti e lei le spazzolava i capelli e diceva che erano belli, che lei era bella e che era il suo angioletto; oh mamma, mamma, vieni qua, voglio la mamma, dov'è la mamma?
Pianse.
"Ora comprendi perché non verranno a prenderti? Che starai qui perché sei stata cattiva?".
La voce della compagna le arrivava come le mani di papà sulle sue guance, quando gli aveva detto che non sarebbe mai stata la moglie di quel vecchio.
Pianse ancora più forte.
E infine: "Non sei in fondo così carina. Sei brutta quando piangi".
Strillò, ma non fece alcuna nota.
-
Un fastidioso acuto morse le orecchie di Garcin, in posizione fetale dietro il sofà. Che avevano da fare tutto quel baccano?
Sognava, ad occhi aperti.
Sognava sua moglie, Violet.
Lei, i suoi capelli biondo grano, il suo lungo abito bianco, il suo cappello coi garofani, i ricami... lei. "Non ho mai smesso di amarti" aveva detto sulla soglia della porta, ago e filo in mano, il tono inespressivo di sempre, mentre Garcin veniva portato via.
Lei.
Perché? Perché la tormentava? Perché era sadico. Perché era sadico? Perché si ubriacava. Perché si ubriacava? Perché era frustrato. Perché era frustrato? Chissà.
Nascose ancora di più la testa tra le ginocchia.
Gli vennero in mente quei primi anni di matrimonio: lei sedeva sulla poltrona e lui le poggiava il capo in grembo per farsi accarezzare la fronte e sentirla leggere ad alta voce quei bei romanzi di Dickens o di Victor Hugo. Oppure solo per ascoltare i piccoli suoni dei lavori di cucito, l'ago che andava su e giù esplorando fazzoletti e panni immacolati; come si divertiva a far correre il dito sui risultati finali, sentire i piccoli fili tutti uniti assieme per creare fiori e uccellini colorati.
Quei giardinetti attraversati con Violet, quei prati dall'erba altissima mossa dal vento dove mangiavano baguettes e bevevano limonata.
"Violet..." sussurrò.
"...Violet, Violet... Violet... Violet". La sua voce era sempre meno flebile, mentre assaporava la pronuncia di quel nome: appoggiare i denti sul labbro inferiore, aprire la bocca, richiuderla lentamente facendo vibrare la lingua, stringere le labbra, tenere la lingua sul palato, allungare e stendere ed infine richiudere i denti con un colpo secco.
Violet.
La rivoleva, e stavolta sarebbe stato buono con lei, sì, sì, l'avrebbe amata e coccolata e riascoltata leggere e cucire e mai più molestata o insultata, però doveva riaverla tra le braccia; sua moglie doveva entrare nella stanza e portarlo via per non voltarsi mai più indietro e tornare alla loro casa e volersi bene e stare insieme per sempre e dimenticare, dimenticare cosa significhi soffrire.
"Garcin! Garcin". Estelle apparve per tirarlo fuori dal suo nascondiglio: era chinata sopra di lui, e i capelli rossi le davano un'aureola infernale, come lingue di fuoco. Era inviperita. "Finiscila di strisciare e vieni qui... subito!". Lo afferrò per il polso e lo fece rotolare davanti ad Inès come fosse spazzatura, per poi farlo alzare in piedi. Con un dito tremante di collera indicò l'altra donna e ringhiò: "Se ci tieni a me, se vuoi darmi piacere, come dici sempre di voler fare... uccidila. Uccidila, Garcin, uccidila per me! Riempila di pugni, calci, sfondale il petto e lo stomaco, strappale gli occhi dalle orbite, fracassale la testa... uccidila!".
Discorsi così vuoti.
L'ascoltò e quando ebbe finito si limitò a ritornare sul tappeto, cadendo come una bambola di pezza; pareva aver perso la capacità di camminare. Inès abbaiò con la sua risata canina e lei lo fissò incredula. "Mi hai sentito?" sibilò, raggiungendolo di colpo e torcendogli il braccio. Non avvertì alcun dolore, troppo preso dal scavare un'altra volta tra i ricordi per cercare il fantasma della sua giovane sposa.
"...Violet..." cantilenò. La lesbica non la smetteva di ridere, come la sua amante di bestemmiare.
-
"Quella troia di Estelle aveva definitivamente perso Garcin!".
Musica per lei.
E tutto ciò le era così dannatamente esilarante.
Tentava ancora di parlargli, di convincerlo, con parole dolci e con minacce, ma lui non dava segni di vita.
E ad un certo punto, dopo averla ignorata per un po', la parigina si voltò e ruggì: "Basta! Basta! Smettila! Perché sghignazzi?!". Le spiegò con naturalezza, tenendosi la pancia per non scoppiare: "Siamo morti! Morti! Morti! Morti! Né coltello... né corda... né pugnale!". Si asciugò il sudore dalla fronte. "È già cosa fatta, capisci? Non puoi chiedergli di uccidermi! Sono morta, lui è morto, tu sei morta! Stupida, stupida!".
La ragazza allora si rivolse al brasiliano e gli urlò: "Sei un verme, Garcin, un verme! Un povero fallito, un idiota, un... un... un codardo! Sei un codardo!". Ancora più spassoso. Cercava una reazione da parte sua ma era troppo tardi: non le avrebbe mai più dato retta. Inès si stese sul divano e osservò con gusto lui che si trascinava nel suo buco e lei che dava di matto, facendo a pezzi il mobilio della stanza. Successivamente prese a percuotere la porta, a graffiare il legno, a lanciarle addosso oggetti pesanti nel tentativo di distruggerla.
"Non ne abbiamo già parlato? Quella non si aprir...".
La porta si spalancò.
Ammutolirono. Perfino Garcin alzò la testa, sbalordito.
Estelle stava lì, pietrificata, davanti alla soglia che dava sul lungo corridoio. "C-Che aspetti? V-Vattene... Scappa!" balbettò Inès, subito dietro di lei.
Non si mosse.
"Da non crederci" pensò. "Garcin?".
Rimase lì.
La porta era aperta, la via era libera, ma nessuno dei due muoveva un dito.
"Peggio per voi... io me la do a gambe! Addio!" esclamò spavalda, ma indugiò. Gli altri due la stavano guardando. Aspettavano una sua azione.
Avrebbe potuto fuggire, rifarsi una vita ma... si limitò a tenere gli occhi sul corridoio. Dopodiché studiò prima Garcin e poi Estelle. Anche loro la studiarono. E compresero.
Inès richiuse delicatamente la porta.
"Siamo inseparabili" disse. "Ci odiamo così tanto da dipendere l'uno dall'altro... Vero?".
Annuirono.
"Non potremo mai andare via!" aggiunse Estelle.
"L'inferno... è gli altri..." finì Garcin.
Ci fu un momento di silenzio.
E poi, ridacchiarono.
Le risatine diventarono risate.
Le risate grida di gioia e di dolore.
Garcin, Inès ed Estelle si accasciarono per terra, prendendosi per mano, e si sbellicarono assieme.
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