ESTELLE

"Non voglio sposarlo", aveva infinitamente ripetuto a suo padre, a sua madre, a sé stessa.

"È vecchio. Ha le dita sudaticce, gli puzza l'alito. E per di più è bruttissimo. Perché devo sposarlo? Io voglio il mio principe azzurro".
Sua madre aveva cercato di spiegarle, di consolarla, ma era stato suo padre a farla ragionare.
A suon di ceffoni.

Estelle non era mai stata picchiata in vita sua, e le mani del suo genitore, che aveva sempre trovato morbide e curate, le erano di colpo sembrate dure e callose.
"Estelle, non stiamo più bene come un tempo: ci rimangono soldi solo per la tua dote. Dopodiché, io e tua madre dovremo vivere a pane e acqua. Quell'uomo è ricchissimo. Vogliamo garantire la tua felicità" le aveva detto, mentre lei gli spazzolava le scarpe.
"È per il tuo bene" aveva aggiunto la mamma, con voce stanca, accarezzandole la testa. Al pensiero di sua madre intenta a rammendare camicie per guadagnarsi il pane aveva rabbrividito. E, dopo innumerevoli ceffoni, aveva accettato.

In chiesa aveva indossato l'abito della nonna, aggiustato frettolosamente la sera prima. Niente bouquet. E nessun gioiello, escluso un paio di orecchini preso da una zia. Cerimonia frettolosa, pranzo frugale e penoso. Estelle non conosceva nessuno degli invitati, erano tutti da parte dello sposo.

Lui. Il vecchio.
Non lo aveva nemmeno guardato; per tutto il giorno aveva avuto gli occhi sbarrati, rivolti al vuoto. Il bacio alla fine dello sposalizio era stato imbarazzante, e il buffet avvolto in un silenzio di tomba, interrotto dal rumore dei cucchiai che sbattevano sul fondo dei piatti traboccanti di zuppa.
Estelle non aveva mangiato niente, tracannando solo acqua e lacrime.
Fin da piccola aveva immaginato un matrimonio ben diverso: un mare di dalie, vino, musica, le sue amiche invidiose, uno sposo biondo e bellissimo.
Gioielli, risate, danze.
Niente di tutto quello.
La notte di nozze, poi... un incubo. Lui era sbronzo, e così lei era riuscita a sgusciare via ben prima di lui. Non ammetteva incidenti. Ma suo marito non era sempre stato sbronzo, ed Estelle non era sempre riuscita a togliersi in tempo.

E così erano andati in Svizzera. "Un posto ideale per una gravidanza" si era giustificato, toccandole i boccoli rossi e le tette. Lei aveva annuito, triste, cercando di scansarsi alla sua mano polposa.
Aveva passato nove mesi confinata in casa, affacciata alla finestra: la villa aveva un'enorme terrazza, che dava su un lago sterminato. L'acqua era bellissima, scintillante, di un blu spettacolare.
Estelle non riusciva a smettere di guardare quella distesa cianotica, rapita com'era da quella magnificenza; aveva iniziato perfino a dormire là, su una poltrona posta di fronte alla finestra, pur di non separarsi da quella vista. Suo marito la lasciava fare.
"Non si comanda alle voglie di una donna incinta" scherzava con i suoi ospiti, che la vedevano continuamente con la faccia incollata sul vetro, fissa sulla poltrona arancione.
In onore del suo amato lago, si vestiva costantemente di blu o di azzurro: verde acqua, tinta del cielo, turchese...
Si faceva regalare dal consorte spilloni, collane, fermagli, ninnoli color del mare, di qualsiasi valore. Faceva di tutto pur di essere in relazione con il suo amato lago.
Quando poi l'avevano portata a letto per farla partorire, lei aveva scalciato, gridato, graffiato, pianto come una forsennata. "Il dolore del parto" aveva esclamato il marito, ma non aveva capito niente. Lui non capiva mai niente. Lei aveva pianto perché le avevano impedito di fissare l'acqua.

Una bambina.
Una bambina sana e forte, avevano detto le ostetriche. Sembrava già assomigliare alla madre: aveva i suoi capelli ramati e quel suo naso delicatissimo. Una seconda Estelle Rigault.
Lui era con lei quando l'aveva data alla luce; lo divertiva avere una figlia.
Ad Estelle, no.

Aveva immediatamente provato una fitta di estrema gelosia: quella mocciosetta urlante si era presa le cose che più la gente apprezzava in lei, che la rendevano incantevole e amata. Il vecchio aveva persino cominciato a badare più alla piccola che a lei; "Se la mostrassi ai miei genitori, chiamerebbero 'figlia' lei e non me" aveva pensato, guardando il mostriciattolo con puro odio.
Voleva vendicarsi, del marito e della neonata.

E una notte, guardando il lago, aveva finalmente capito cosa avrebbe dovuto fare.
Lui dormiva.
Aveva subito estratto la bambina, anch'essa addormentata, dalla sua culla.
Era uscita fuori, sulla terrazza, con lei in braccio. Calma, quasi annoiata.
Il vecchio intanto si era svegliato, e aveva trovato l'altro lato del letto vuoto: si era alzato, e con un assonnato "Estelle?", era andato nella camera della neonata.
Scoprendo la culla vuota, aveva capito tutto.
"Estelle?! Dove sei?! Estelle!". Si era sporto sulla finestra della stanza e aveva visto la moglie e la figlia sul balcone. Il vento gonfiava la capigliatura e la vestaglia della giovane, facendola sembrare un fantasma. "Estelle! Rientra in casa! Che fai là?! Estelle!". Lei non lo aveva degnato di uno sguardo, mentre sollevava la creaturina oltre la ringhiera.
Lui agitava le braccia verso di lei, come un pazzo, gridando: "Estelle! No! Non farlo! Ti scongiuro! No! No!".

Si era precipitato sul terrazzo, in tempo per vedere la bambina volare giù dalla balaustra per sfracellarsi con un tonfo nello specchio d'acqua.
E là, finalmente, Estelle l'aveva osservato. Aveva sorriso ed era tranquillamente ritornata in casa, ignorando le urla del vecchio.

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