ESTELLE

"Estelle, ti prego, no! Estelle! No!".

Le sue parole risuonavano nella mente contorta della giovane, che seguiva timorosa il cameriere senza palpebre lungo il corridoio.

"Manca molto alla mia... stanza, signore?" chiese, con voce stridula.
"Non tanto" rispose lui, secco.
Estelle si chiese la sua età: quel sinistro individuo poteva avere dai venti ai cinquant'anni, era impossibile determinarlo.
"Signore, ma lei quanto anni ha?" lo interrogò allora, tremante di timidezza. Il cameriere parve ridere.
"Oh, se glielo dicessi si spaventerebbe. Posso dirle che ho molto più di ottant'anni" esclamò, sempre camminando.
Il suo passo era lungo, Estelle doveva correre per andargli dietro.

"Lo sa" squittì poi, con voce colpevole, imbarazzata, "Io vengo da Parigi. Nata e cresciuta lì! E sono anche... anche morta, lì!". Fece una risatina isterica. Mamma le aveva sempre detto di essere fiera della sua città, Parigi, capitale del mondo.
L'attenzione del cameriere era evidentemente altrove, perché non la degnò di una minima risposta.
Estelle s'imbronciò.
Odiava non essere ascoltata.
Lei, ripeteva sempre la mamma, era una bambina brava, buona e bella, e tutti avrebbero dovuto ascoltarla. Era la sua stellina. Per questo l'aveva chiamata così. Estelle.
La sua stella rossa.

Ed ora, era finita lì.
Era certa che si trattava di una terribile svista. Di sicuro sarebbero venuti da lei con un mazzo di dalie rosse e l'avrebbero accompagnata con mille scuse... in un posto migliore.
Sì, sarebbe andata così. La mamma avrebbe interferito per lei.

La sua bambina non era mai stata una delusione. La piccola Estelle, angelo di mamma e papà, dolce, gentile Estelle, bimba bellissima con gli abitini azzurri e i capelli rossi. La mamma adorava i suoi capelli: quand'era piccola glieli lavava, spazzolava, li raccoglieva in trecce o codine. Diceva che erano color delle rose.
Ed era vero.

"Estelle! Non farlo! Estelle! No!".

Lui.
Quel cattivone continuava a perseguitarla. La sua voce le ronzava ancora nelle orecchie. Strinse i pugni e storse la bocca. Alla mamma non era mai piaciuto quell'uomo.
Suo marito.

Neanche a lei era mai piaciuto. Era vecchio. E brutto. E l'aveva toccata sotto la sottana troppo spesso per i suoi gusti. Ma aveva pagato il prezzo della sua cattiveria.
Eh sì, Estelle l'aveva conciato proprio per le feste!
Ridacchiò.

"Signorina, siamo arrivati". La voce del cameriere distrusse l'oblio nel quale era immersa. Con un gesto della mano, la invitò ad aprire una di quelle bizzarre porte dal colore indefinibile, impossibile da riconoscere, come il pavimento e i muri, del resto, per poi lasciarla lì senza troppe cerimonie.

Il corridoio di quell'... albergo... era deserto. Avrebbe potuto evitare di rimanere in quel luogo infernale e darsela a gambe, ma decise di entrare lo stesso. Tanto, presto il cameriere sarebbe ritornato con le sue dalie. Sarebbe stata solo questione di qualche oretta.
Estelle respirò a fondo ed entrò.

Un salottino orrendo, praticamente uguale a quello in Svizzera dove viveva con suo marito. Un uomo, bellissimo, vestito di nero, su un divanetto giallo. Una donna, bruna, con due enormi orecchini, in piedi davanti ad un quadro ritraente una banalissima scogliera. Strano.
Estelle s'aspettava un covo di banditi immersi nella pece. Tanto meglio.

"Buonasera" cinguettò, eccitata. Cercò con lo sguardo uno specchio per controllarsi, ma non ne trovò. Pazienza. Sapeva di essere bellissima. Lo diceva anche quel vecchiaccio di suo marito, mentre le toccava i capelli e la gonna con quel suo modo disgustoso.
La donna si voltò. Non sembrava simpatica. Anzi, aveva una faccia davvero antipatica.
L'uomo parve illuminarsi al suo ingresso. La sua espressione era la stessa di suo marito il giorno del loro matrimonio, sorriso sornione e una strana luce negli occhi. "Io mi chiamo Estelle Rigault" trillò, evitando di usare il suo cognome da sposata. "Vengo da Parigi!" aggiunse, quasi dimenticandosi la cosa più importante.

L'uomo corse a baciarle la mano, sempre con quell'espressione in viso. Era molto bello. Estelle sentì al suo arrivo una strana pulsazione sotto il suo abito di satin color verde acqua, all'altezza delle cosce.
"José Garcin. Sono di Rio".
Brasiliano. Storse il naso. La donna, Inès Serrano, era anch'essa francese, ma di Lione. "Che orrore" si disse. "Lione! Un covo di ratti".

Anche Inès Serrano aveva la stessa espressione di Garcin. Estelle non sapeva se sentirsi lusingata o orripilata. Si sfiorò un orecchio, gesto che faceva sempre quand'era agitata, e gettò un'occhiata languida a Garcin, che pareva pendere dal suo labbro.

"Bene, facciamo conoscenza!".

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