ELZBIETA
"Stai zitta, Joanna".
Non bastò.
"Joanna, cazzo, voglio dormire. Chiudi quella boccaccia" sibilò ancora Elzbieta. E niente. Quella stupida continuava a parlare da sola.
"E finiscila!" esclamò poi, tirando un calcio al lettino a fianco, dove Joanna stava borbottando per l'ennesima volta i suoi nomi. "Fatti gli affari tuoi, Elzbieta" le rispose, finalmente.
Si cacciò la testa sotto gli stracci, per non sentire i continui borbottii della compagna.
"Ma che avrà poi", pensò, "A ripetere sempre dei numeri o dei nomi".
Successivamente sentì qualcosa sfregarsi sul pavimento: Joanna stava scrivendo con un pezzo di gesso, trovato chissà dove. Quante volte aveva visto quella scena.
I detenuti arrivavano da loro, le fottevano ben bene, se ne andavano e Joanna, di notte, borbottava numeri e nomi e li scriveva sul pavimento. Basta.
Elzbieta non s'era mai preoccupata di chiederle la ragione di tutta quella sua strana eccitazione, ma ora doveva ammettere che era curiosa.
E anche un po' invidiosa.
Sapeva scrivere davvero poco, e inoltre non aveva niente da fare oltre che a lasciarsi fottere dai detenuti, rammendare divise o raccogliere erbe.
Era ormai una macchina, una puttana da campo di concentramento a tutti gli effetti; non si lamentava, non piangeva, non pensava... si faceva fottere, rammendava e raccoglieva erbe.
E sopravviveva, mangiando, bevendo e dormendo.
Basta.
Era totalmente vuota, passiva. Non aveva motivo di vivere.
A lei bastava mangiare.
Joanna invece era diversa... una rompicoglioni bella e buona. Si lamentava, piangeva e pensava; odiava rammendare e raccogliere erbe, e i primi tempi non voleva neanche farsi toccare dai detenuti del campo di concentramento. Cosa inspiegabile a Elzbieta, si preoccupava di essere bella e pulita: quando davano il burro, lei non lo mangiava, ma se lo spalmava sul viso per sembrare meno denutrita.
Assurdo.
Joanna era spaventosa, perché aveva ancora una dignità. Era ancora umana. Non era una puttana come Elzbieta e tutte le altre. Lei pensava ancora a cosa avrebbe fatto dopo la guerra, sognava, cercava di pettinarsi quei suoi cazzo di capelli biondi con le forchette, in mensa.
"Mi spieghi perché fai sempre 'sta cosa, ogni fottuta notte?" sibilò.
"Come te lo devo dire? Fatti gli affari tuoi, Elzbieta".
Stronza.
Si girò su un fianco, fingendo di essersi offesa. Qualche minuto dopo però osservava ancora la compagna, china sul pavimento, intenta a scrivere col gesso, con quei luccicanti capelli gialli che le correvano tutt'attorno. Scriveva al buio. Non le servivano candele.
"Dai ti prego, dimmelo!" ricominciò. Allora l'altra smise di tracciare nomi sul pavimento e si voltò verso di lei.
"Cosa cazzo vuoi sapere?".
"Perché scrivi quelle cose... numeri... nomi?".
Joanna stava sorridendo, Elzbieta lo percepì.
Un'altra cosa assurda di lei: riusciva ancora a sorridere, anche perché lei i denti ce li aveva ancora, e bianchi.
"Mi spii, per caso?".
"No".
"E allora come fai a sapere che scrivo numeri?".
L'aveva fregata.
"Io...io qualche volta leggo quello che tu scrivi di notte...".
"Piantatela tutte e due, sto dormendo!" si lamentò Liwia, un'altra ragazza, nel lettuccio alla loro destra.
Elzbieta allora s'infilò sotto la stessa coperta di Joanna e le due si avvinghiarono nel misero, unico giaciglio.
"Quindi? Perché lo fai?" le sussurrò.
"Per salvarmi".
"Come? Per salvarti?". Elzbieta era nella confusione più totale. Da quando ci si poteva salvare scrivendo numeri?
Adesso Liwia e un'altra prostituta, Tanja, cominciavano a scocciarsi.
"Ma volete chiudere quella cazzo di bocca?!".
"Chiudila tu, la bocca, Tanja!" rispose Elzbieta.
"Domani vi facciamo vedere noi..." promise Liwia, e ognuna ritornò alla propria cuccetta. Joanna riprese il gesso, ma poi Tanja aggiunse: "E tu, prova soltanto a scrivere e giuro che quel gesso te lo ficco su per il culo!".
Provò a dormire, ma la curiosità le impediva di riposare.
"Scoprirò cosa fa Joanna tutte le notti", giurò, "Dovesse essere l'ultima cosa che faccio".
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