ECUBA

"Posso parlarti in privato, mia regina?".

Il messo dei greci, Taltibio, nella sua gentilezza era irremovibile.
"Puoi parlare anche di fronte ad Andromaca, greco. Lei era la sposa dell'erede al trono di Troia, mio figlio Ettore. Sarebbe lei stessa diventata regina".
Ecuba, con tono solenne, fissava l'araldo in cagnesco. La nuora, accanto a lei, era la Maternità vestitasi da guerriera: era bella e giunonica, teneva in braccio il piccolo Astianatte, ma la fierezza e il disprezzo del suo sguardo avrebbero fatto inchinare persino Agamennone.

Taltibio, dal canto suo, ora si stava intimidendo di fronte alle due troiane.
"Non è per offenderti, dolce Andromaca", esclamò, "Ma le notizie che sto per annunciare sono molto misere. Per questo voglio rivelarle davanti alla sola Ecuba, in modo da lasciare che sia lei, nella sua grande saggezza, a svelare il destino alle sue suddite, e non io, che sembrerei ignobile e meschino ai loro occhi!".

Andromaca comprese, e lasciò il messo e la regina da soli per unirsi alle altre sue concittadine nella tenda. Taltibio fece per invitare Ecuba, con un gesto, a prenderlo a braccetto per passeggiare lungo la spiaggia, ma lei rifiutò bruscamente. Era pur sempre un greco.
"Cosa vuoi, araldo?" lo interrogò, con voce dura.
"I greci hanno scelto i futuri padroni di ognuna delle tue cittadine, mia regina. Sono qui per dire i loro nomi".

Il cuore le andò in gola, e perse ogni traccia di eleganza e regalità. Lo strattonò sgarbatamente, ansiosa.
"Che aspetti?! Dilli!" ansimò. Taltibio si grattò il mento, imbarazzato.
"Chiedimene uno per volta, te ne prego, mia regina. Mi metti in difficoltà in questo modo".
Ecuba si calmò. "Sciocca che sono!" si rimproverò.
Chiese poi: "Di chi sarà schiava la mia nuora, Andromaca?".
"Neottolemo la vuole con sé, lei e suo figlio".
Si bloccò un attimo, per poi domandare: "E Cassandra? La mia figlia maggiore?".
"Sarà la compagna di letto di Agamennone" la informò lui.

Si fece dire ogni padrone di ogni prigioniera troiana, e per ognuno ebbe una reazione diversa, ma tutte erano emozioni amare.
"E io? A chi appartengo?" domandò, affranta. Taltibio aveva la voce come rotta dal pianto quando disse: "A Odisseo. Sarai la sua schiava, mia sfortunata signora".
Questa volta non provò pena, ma furia.

"La schiava di Penelope, la sua sposa, o di Odisseo in persona?". "Del re di Itaca, mia graziosa regina".
Taltibio fece per andarsene, ma il suo passo venne fermato da una domanda di Ecuba.
"E Polissena? La mia figlia più giovane! Non mi hai detto chi sarà il suo padrone!".
Il greco, con angoscia della troiana, non si girò. "Nessuno dei greci le sarà padrone".

La risposta quasi la uccise. "Cosa?! Spiegati, araldo!" strillò, ma egli era già corso via dal campo delle prigioniere.
Il metro che la separava dalla tenda fu la distanza più lunga della sua vita. Temeva per le sue donne, ma soprattutto per la giovane Polissena. La sua unica, vera figlia.
Cassandra ormai era un'estranea agli occhi della madre, una pazza furiosa portatrice di disordine e malaugurio; altre erano già spose, schiave, cortigiane dei signori dell'Egeo, strappate dalle braccia della madre.

Le altre ancora erano morte, macellate e bruciate con Troia.

Andromaca vide il terrore negli occhi della suocera e comprese al volo. "Saremo tutte...?". La sua voce era un soffio.
"Sì" rispose lei. Al gesto della nuora di stringersi Astianatte al petto, aggiunse: "Sì, anche lui. Verrà portato via con te".
Apparve sollievo nello sguardo della vedova di Ettore, che strinse Ecuba in un abbraccio di speranza.

Rientrate nella tenda, Polissena e le altre troiane l'accolsero con ansia, e lei illustrò a tutte il loro futuro, aggiungendo parole di conforto come dovuto ad una dotta e benevola regina qual'era.
"Di chi sarò serva io, madre?". La voce cristallina della figlia minore le spezzò il cuore.
"Non... non lo rimembro" le disse allora, guardandola con le lacrime agli occhi.

Tutto sembrava essere veramente perduto.
E lo era.

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