D i e c i 🔞



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Non ho fatto nulla di male – si ripeté Chan mentalmente, come più volte aveva fatto quella mattina – Stanno tutti esagerando, non c'è nulla di strano nel salutarlo...

«Hai intenzione di riprendere il discorso, non è così?» domandò stancamente all'amico Minho, con la leggera traccia di un sorriso sulle labbra.

Da quando aveva commesso il madornale "errore" di salutare Jeongin in quel modo – a detta dell'amico – così tanto affettuoso, non gli aveva dato un istante di tregua.

Nei corridoi, a lezione, ma anche qualche istante prima all'interno del bagno del secondo piano; Chan aveva valutato più volte la possibilità di chiuderlo dentro una delle classi inutilizzate, e andare a liberarlo solo a fine giornata.

Ma aveva resistito.

Minho era al suo fianco, con la spalla appoggiata all'armadietto che fiancheggiava quello dell'australiano – di chiunque fosse, sicuramente nessuno avrebbe avuto il coraggio di chiedergli di spostarsi – e lo osservava con le braccia incrociate al petto ampio e un sopracciglio perfettamente inarcato.

Difficilmente Minho insisteva tanto su un argomento – preferiva di gran lunga starsene per le sue e aspettare che i ragazzi gli chiedessero espressamente la sua opinione – ma quando questo avveniva, sapeva essere instancabile nel perseguire il suo obbiettivo.

Se non affrontiamo la situazione adesso, mi starà con il fiato sul collo per tutta la giornata, o peggio, tutta la settimana – realizzò il maggiore, voltandosi a fronteggiare l'altro.

Un gruppo di studentesse rumorose e chiacchierone – come un fastidioso sciame di vespe – passarono al loro fianco, rallentando la loro "passeggiata" e soffermandosi a lungo sui bicipiti contratti di Minho, che manteneva ancora le braccia incrociate contro il busto.

Qualcuna ebbe il coraggio di salutarlo portandosi la mano a coprire il sorriso sul volto, e lentamente si allontanarono in una nube di sciocche risatine.

Chan rise tra sé.

Minho era l'unico nel loro gruppo che mai e poi mai avrebbe potuto ricambiare le loro attenzioni.

Ma chiaramente – quelle loro adorabili coetanee – non potevano saperlo, e anche se l'avessero saputo, si sarebbero senz'altro convinte di poter essere la speciale eccezione alla regola.

I due più grandi erano coloro che maggiormente scatenavano l'entusiasmo della fauna femminile di quell'ateneo.

Minho era quello che riceveva senz'altro maggiori attenzioni, in particolare per i suoi modi gentili e pacati, che mostrava in modo esclusivo alle ragazze.

Chan invece, forse a causa delle sue origini straniere, tendeva ad essere ammirato principalmente da lontano – nessuna ragazza aveva effettivamente il coraggio di parlargli o salutarlo, nonostante lo desiderassero ancor di più proprio per il suo essere "esotico" – se non per motivi prettamente scolastici.

E con il tempo iniziava a diventare un serio problema – realizzò – perché non usciva con una ragazza da quando aveva lasciato l'Australia; iniziava a diventare frustrato, era passato davvero tanto tempo dall'ultima volta che aveva provato la sensazione di un paio di labbra soffici appoggiate sulle sue.

Scosse fortemente il capo, per far totalmente sparire quelle immagini dai suoi pensieri.
Aveva funzionato.

I pensieri erano spariti in un lampo, ma Minho con lo sguardo giudizioso e il sopracciglio inarcato era ancora lì.

«Di cos'altro vuoi parlare? Ti ho già detto come la penso – chiarì imitando la stessa posizione dell'amico, l'uno davanti all'altro – Tanto lo so che non ti arrenderai».

Il ragazzo scosse la testa.

«Non finché cercherai di convincerti che sia tutto nella norma – disse alzando una spalla, con fare ovvio – Sono contento se desideri creare un'amicizia con lui, ma se non lo chiamano "piccolo" i suoi amici di una vita, perché ritieni che sia normale se lo fai tu?» gli domandò.

Chan rimase in silenzio, non sapendo cosa rispondere.

Minho odiava essere così pesante e molesto, ma in qualità di amico anche quello rientrava nei suoi compiti; aprire gli occhi a Chan e fargli capire il motivo che aveva spinto tutti loro – i suoi amici ma anche e soprattutto gli amici di Jeongin – ad osservarlo in silenzio, con espressione dubbiosa ed imbarazzata.

Se dietro quel "piccolo" ci fosse stato dell'interesse romantico, Minho non si sarebbe mai sognato di dargli il tormento in quel modo, ma gli sarebbe stato accanto e l'avrebbe sostenuto nei suoi sentimenti per il minore.

Ma Minho sapeva non essere così.

A Chan non interessava Jeongin – romanticamente parlando – quindi era importante bloccare sul nascere quei comportamenti sbagliati.

Come se a manovrarlo ci fosse stato un magnete, i suoi occhi si sollevarono proiettandosi sul corridoio fino a fermarsi sulla bellissima e familiare figura del suo Jisung – poco lontano da loro.

Camminava lentamente con lo sguardo puntato su alcuni documenti che stringeva tra le mani, il Rettore gli camminava accanto parlandogli di qualcosa con i suoi soliti modi gentili ed educati, le labbra piegate in un sorriso.
Minho non ne era sorpreso, l'adulto nutriva un forte affetto nei confronti del Rappresentante degli studenti.

Si concentrò sul volto del minore, che aveva le sopracciglia aggrottate in un modo tanto carino e il labbro inferiore incastrato tra i denti bianchi.

Quando Jisung sollevò lo sguardo – pronto a dare il proprio parere all'uomo, su quella richiesta di esclusione da un esame per uno studente del quinto anno, con relative motivazioni del docente – si trovò totalmente catturato dagli occhi attenti ed infinitamente dolci di Minho.

Nessuno l'avrebbe mai più guardato in quel modo, ne era certo.

Anche se la loro era semplicemente un'avventura universitaria, Jisung era ben consapevole che non avrebbe mai più trovato qualcuno come lui.

Perché non abbiamo più fatto sesso a scuola? - si domandò in un momento di assolta mancanza di lucidità.

Era bello stare a casa sua – nel suo letto – dove avevano tutti gli agi ma soprattutto il tempo da dedicarsi a vicenda; però di tanto in tanto gli veniva la nostalgia pensando come il loro rapporto fosse effettivamente nato.

Minho poté quasi leggergli nel pensiero, solo osservando il cambio di colore e il movimento guizzante dei suoi occhi.

«Perché mi stai dicendo queste cose? - domandò ad alta voce Chan, attirando inconsapevolmente la sua attenzione e facendolo sussultare – Non ho detto niente di male, si tratta di una cosa da niente» proseguì.

Minho riportò gli occhi sull'amico.

Era stata la cosa più difficile della sua vita, staccare lo sguardo da quello di Jisung.

«Solo perché una cosa è "da niente" per te, non significa che lo sia anche per gli altri – disse, in modo leggermente più duro di quello che si sarebbe aspettato – A te Jeongin non piace, i ragazzi non ti sono mai interessati e lo sappiamo bene entrambi, ma a quel ragazzino ; quindi smettila di dargli attenzioni che in lui potrebbero creare scenari che non si presenteranno mai. Non è bello essere la causa di un cuore infranto – soprattutto quando la cosa non è intenzionale – dovresti averlo imparato da Hyunjin. Dacci un taglio!» sbottò arricciando il naso.

Aveva concluso. Non avrebbe più ripreso quell'argomento.

Si sistemò meglio lo zaino sulla spalla e si allontanò con falcate veloci, sotto lo sguardo sbigottito dell'amico.

«Fai silenzio» gli sussurrò Minho contro l'orecchio, mordendone selvaggiamente il lobo senza alcuna ombra di delicatezza.

Jisung in risposta gemette rumorosamente, stringendo fino a farsi sbiancare le nocche il tavolino su cui era appoggiato.
Amava farlo incazzare, soprattutto quando facevano sesso.

Lasciò che la sua schiena si arcuasse come quella di un gatto, sentendo i brividi percorrerla insieme alle mani calde e grandi del maggiore.

Amava da morire quelle mani, soprattutto quando accarezzavano la sua pelle, lasciandovi scie incandescenti.

Minho lambì minuziosamente con le dita tutto il percorso della spina dorsale, sfiorando vertebra dopo vertebra, tracciando la strada verso i glutei perfetti e già nudi sotto il suo sguardo.

Non avrebbe mai smesso di sorprendersi per la bellezza del corpo nudo di Jisung.

Era il ragazzo più bello ed eccitante con cui avesse mai avuto la fortuna di fare l'amore.

Sorrise maliziosamente.
Il suo palmo aperto colpì con un forte e veloce schiaffo la natica del minore, facendo risuonare lo schiocco della sua mano sulla carne, per le strette pareti dello sgabuzzino buio dentro cui si erano nascosti.

«Ti avevo detto di fare silenzio!».
Jisung ansimò, per il dolore ed il piacere, sentendo la pelle bruciare.

Mi rimarrà il segno della sua mano - rifletté distrattamente, piagnucolando.

Gli piaceva l'idea.

Minho lo conosceva fin troppo bene.
Jisung adorava le coccole, il sesso lento e dolce, ma ancor di più amava essere preso con forza e seccamente.

«Ti mancava, cuore?» domandò al minore, non riuscendo a nascondere il forte fiatone che gli appesantiva la voce.

Lo voleva troppo.
Si chinò pigramente verso il basso, mormorando quelle parole contro la pelle liscia della sua schiena, già madida di sudore.

«Essere scopato duramente e a scuola, non è così?» proseguì affondando le dita sui suoi fianchi, e posando il naso tra le fossette di venere del più giovane.

Respirò a pieni polmoni come se per lui fosse ossigeno.
Amava da impazzire l'odore naturale di Jisung.

Soprattutto quando si mescolava con il suo.

Portò la mano al proprio sesso, già duro ed esposto, toccandosi lentamente con il pugno chiuso.

Gemette.
Si sollevò ancora una volta, insinuando le dita tra i capelli soffici di Jisung, intrecciandole alle ciocche e strattonandogli la testa di lato per esporre il volto.

Gli catturò le labbra già lucide e gonfie, in un bacio caldo e bagnato, invadendogli la bocca con la lingua.

Insinuò il membro eretto tra le natiche del più giovane, muovendosi lentamente su quella pelle umida e godendosi quella piacevole frizione.

Sentiva il piacere fluire dal suo corpo a quello di Jisung, come se fossero collegati da un filo invisibile.

Jisung sorrise contro la sua bocca.
«Si, mi è mancato - bisbigliò guardandolo con occhi febbricitanti - Ma ancora non mi stai scopando, stai solo perdendo tempo» lo sfidò, tirando fuori la lingua e leccandogli le labbra.

Il lampo oscuro che vide attraversare gli occhi del maggiore, lo fece pentire delle parole appena usate.

«Non avresti dovuto dirlo questo» disse Minho, lasciando che l'angolo delle sue labbra si piegasse in una smorfia.

Fu talmente veloce, che Jisung non ebbe neanche il tempo di sorprendersi.

Lo penetrò con un netto e fluido movimento, posandogli una mano sulla schiena e inchiodandolo al tavolo.

L'altra mano corse subito alla sua bocca, tappandola repentinamente.

Cazzo, sì - pensò.

Jisung urlò con tutto il fiato che aveva in corpo contro il palmo della mano del più grande, sentendo l'eccitazione montare senza un controllo, così come il dolore lancinante.

In realtà Minho - mentre si divertita a stuzzicarlo - l'aveva prontamente preparato e dilatato con le dita, ma il dolore di essere preso così a secco, rimaneva comunque molto intenso.

Per quanto potesse essere una cosa malsana - ne era consapevole - a Jisung lo eccitava terribilmente.

E amava l'idea di aver trovato qualcuno come Minho, con cui era in perfetta sintonia, capace di adattare il sesso alla loro voglia del momento.

Nessuno l'aveva mai scopato, come faceva lui.
«Sei bollente cazzo» sbottò Minho, chinandosi per mordergli una spalla.

Si mosse lentamente, cercando di non provocare ulteriore dolore al ragazzo.

Amava farlo in quel modo, ma la premura che nutriva per Jisung non poteva farla sparire nel nulla.
Si avvicinò al suo orecchio.

«Ti senti bene?» gli domandò dolcemente, sfregando il naso contro la sua guancia rigata di lacrime.

Jisung si voltò, lasciando che i loro nasi si sfiorassero.
Si guardarono negli occhi.

«Sto sempre bene con te - sussurrò baciandolo - Fai l'amore con me adesso».

Quando Minho iniziò a muoversi dentro il suo corpo, tutto ciò che li circondava sparì.

Le centinaia di studenti presenti nelle classi poco lontane, le lezioni che avevano saltato pur di vedersi ed il Rettore, che Jisung aveva piantato in asso - in fretta e furia - per seguire Minho.

Era bastato quello sguardo scambiato casualmente nel corridoio, per innescare l'incendio tra loro.

«Sei mio» disse Minho prendendolo con forza, sbattendo i fianchi contro i glutei sodi di Jisung, ormai abbandonato alla superficie di legno sotto di lui.

Lo sgabuzzino si riempì di respiri affannosi, schiocchi e gemiti, mentre l'aria diventava calda e a tratti quasi irrespirabile per il forte odore di sesso che l'aveva colmata.

Jisung sorrise, stringendo le sue pareti interne, venendo ricompensato da un forte e gutturale gemito sfuggito dalla gola del maggiore.

Di quel passo, qualcuno li avrebbe sentiti.
Era proprio quella la parte divertente.

«Sono solo tuo» rispose prontamente, sollevandosi e voltando il capo.

Voleva vedere il sesso di Minho entrare dentro il suo corpo, donandogli tutto quell'assoluto piacere.

«Ci sono quasi amore mio, succhia» disse portando una mano al suo viso, lasciando che Jisung avvolgesse tra le sue labbra il suo indice e medio.

Succhiò le dita del maggiore ormai privo di alcuna lucidità, lambendole con la lingua.

Quando l'orgasmo li travolse, li trovò impreparati ad un'ondata di piacere così forte.

Minho venne dentro le carni del minore, godendosi poi lo spettacolo del suo sperma che lentamente colava lungo le sue cosce.
Quello era uno spettacolo che sarebbe stato seriamente da ritrarre.

«Ogni volta penso che alla lunga mi abituerò al sesso con te - disse contro il collo sudato del minore, lasciandoci un bacio - Ma di mese in mese diventa sempre meglio, sempre più travolgente» lo lodò.

Sapeva quanto per Jisung fosse importante sentirsi dire cose di quel tipo, durante e soprattutto a fine rapporto.
E infatti lo vide trattenere un sorriso.

Allungò una mano alla cieca, recuperando da uno scaffale pieno di prodotti, un pacco di salviette profumate che aveva precedentemente sistemato lì.

Non si sarebbe mai fatto trovare impreparato.

Una volta abbandonato il corpo di Jisung, si dedicò alla parte che in assoluto preferiva: prendersi cura di lui.

Con lentezza si occupò di pulire la sua pelle, lasciando la scia profumata su di essa.
Ammirando i segni che aveva lasciato su di lui.

Amava lasciare una traccia del suo passaggio, nonostante si fidasse ciecamente di Jisung, e fosse certo che nessun altro avesse modo di vedere il suo corpo come faceva lui.

In caso contrario, ne sarebbe morto.

Non poteva sopportare l'idea di condividerlo, il solo pensiero di un altro ragazzo che lo guardava e toccava il quel modo, come solo lui poteva, lo faceva impazzire.

Lui era suo, suo e di nessun altro.

La campanella che annunciava l'inizio della terza ora suonò allegramente tra le mura dell'Università, venendo accolta con grosso entusiasmo dagli studenti ma soprattutto dagli insegnanti, visto che sarebbe stata l'ultima ora prima della pausa per il pranzo.

Chan depositò gli ultimi libri dentro il proprio armadietto, sentendo ancora le parole di Minho che gli rimbombavano tra i pensieri.

Solo perché una cosa è "da niente" per te, non significa che lo sia anche per gli altri.

I ragazzi non ti sono mai interessati e lo sappiamo bene entrambi, ma a quel ragazzino sì.

Non è bello essere la causa di un cuore infranto.

Quelle parole gli avevano dato il tormento per tutta la mattina, nonostante non avesse più avuto modo di incrociare l'amico per i corridoi.

Era davvero così reale il pericolo? Rischiava seriamente di spezzare il cuore di Jeongin continuando a dargli quelle attenzioni?

Sperava seriamente di no, non gli piaceva l'idea di allontanarsi da lui.
Lo facevano sentire così strano quei pensieri.

Era vero, voleva avvicinarsi al più piccolo – in un modo o nell'altro –, ma doveva trovare il metodo per farlo senza portarlo a credere di nutrire dei sentimenti per lui.

Non che lo credesse possibile.

Gli appariva davvero assurda l'eventualità che Jeongin si innamorasse proprio di lui, tra tanti.

Sorrise tra sé.

Mostrava ancora del disagio, e forse anche qualche traccia di paura, quando gli stava intorno; poteva leggerlo nei suoi occhi, anche se dolci e gentili.

«Vattene al diavolo!» sbottò duramente una voce poco lontana da lui – con tono deciso e feroce – e a tratti quasi non la riconobbe come quella del ragazzino che tanto a lungo aveva invaso i suoi pensieri.

Jeongin era un uomo – si ricordò Chan, sentendosi un po' in colpa – non si sarebbe dovuto sorprendere, eppure gli sembrava tanto strano che essa – la sua voce – non fosse solo bassa e soffice come l'aveva sentita fino a quel momento.
Come le gradevoli fusa di un gatto.

Il maggiore voltò il capo in automatico verso l'origine di quel suono, vedendo Jeongin fermo in una rigida posizione, davanti ad un armadietto aperto – probabilmente il suo, non avevano neanche gli armadietti troppo lontani – mentre fronteggiava con espressione seria due ragazzi.

Uno si trovava qualche passo indietro, appoggiato alla schiera di armadietti – il classico tirapiedi che serve solo come sostegno morale – e un altro ragazzo che invece si trovava proprio davanti alla figura del minore.

Entrambi davano le spalle a Chan, che non ebbe modo di vederli in faccia.

Quando il ragazzo aprì la bocca, usò un tono che non piacque affatto al maggiore, che rigidamente chiuse piano il proprio armadietto.

«Datti una calmata Jeongin, non serve rispondermi in modo tanto sgarbato, non vedi che io sono tranquillo? – disse con voce carica di beffa e scherno, allungando una mano per accarezzare i capelli del più giovane, come se avesse davanti a sé il cucciolo di un cane. Jeongin mosse subito il capo lateralmente, per far andare a vuoto quel tocco – Mi farebbe molto piacere averti alla mia festa, non è un pensiero carino il mio? Non vedo perché devi sempre usare atteggiamenti tanto infantili, ormai sei un adulto e dovresti comportarti da tale!» rincarò la dose, allungando verso di lui un piccolo volantino – l'invito alla festa, immaginò l'australiano.

L'amico al suo fianco, ridacchiò stupidamente.

Jeongin non accennò ad abbassare lo sguardo nemmeno per un istante, e Chan – che aveva iniziato a camminare verso di loro – sorrise, sentendo l'orgoglio sbocciare al centro del suo petto.

Anche se non erano propriamente due amici, era sorprendente vedere quell'aspetto – che mai si sarebbe potuto immaginare – di Jeongin.

Evidentemente quel ragazzino, non era tanto timido come appariva; chiaramente non doveva essere un tipetto facile a cui incutere timore, nonostante con Chan la situazione fosse sembrata l'esatto opposto.

O era lui l'eccezione – rifletté – oppure lo era quel ragazzo.

«Non serve che sia io a suggerirti dove puoi infilartelo il tuo invito, avrò sempre di meglio da fare se mai ci sarà l'occasione di aver a che fare con un imbecille come te – gli rispose Jeongin, notando la figura dell'australiano con la coda dell'occhio – La maturità e l'educazione si usano solo con chi le può comprendere, con te faccio il ragazzino perché è ciò che sei, ed è tutto ciò che sei in grado di comprendere» concluse accennando un sorriso amaro e chiudendo con un forte botto lo sportello del proprio armadietto, tentando poi di superare i due ragazzi.

Non glielo permisero.

Il tirapiedi si allontano subito dal suo punto d'appoggio, affiancando l'amico e portandosi così davanti a Jeongin – bloccandogli la strada – mentre l'altro lo tirò nuovamente a sé, circondandogli un polso con una mano.

Non fu affatto delicato.

Strinse con forza, fino a sentire un piccolo lamento provenire dalle labbra del più giovane.

«Perché devi sempre rendere le cose tanto difficili 'Innie? - disse con le labbra quasi a contatto con la sua guancia – Lo sai che ci sono cose che non posso sopportare, da parte tua» proseguì quasi mormorando, con uno sguardo duro e giunto al limite della sopportazione.

Aveva finito i modi "gentili" – non che li avesse mai utilizzati, pensò Jeongin.

«Siamo in due, pure io certe cose non le sopporto proprio!» .

Quando il tirapiedi si voltò, attirato da quella voce alta e graffiante – fin troppo vicina al proprio orecchio – si trovò faccia a faccia nientemeno che con Bang Chan.
E l'espressione che deformava il suo viso, era tutto fuorché amichevole.

Guardò attentamente i volti dei due ragazzi – che in quel momento erano una maschera di sorpresa, paura ed incredulità – riconoscendoli come due studenti del secondo anno.
Erano coetanei di Jeongin.

Il "sostegno morale" recepì in modo piuttosto veloce il messaggio nei suoi occhi – evidentemente non era stupido come credeva – e lasciò il fianco dell'amico scoperto, facendo alcuni passi indietro.

«Come mai io e i miei amici non siamo stati invitati a questa festa così imperdibile?» chiese con voce carica di derisione, cercando con impazienza di incrociare lo sguardo di Jeongin.

Fammi capire che stai bene.

Quando questo avvenne, trovando quegli occhi carichi di rabbia, imbarazzo e lacrime, sentì un incendio divampare al centro del suo petto.
Quel ragazzino aveva commesso un grosso errore.

Chan si posizionò in automatico tra la figura di Jeongin e quella dell'altro ragazzo – creando uno scudo tra i due –, costringendolo necessariamente ad allentare la presa sul polso del più giovane, che sfilò agilmente il braccio senza pensarci un secondo di troppo.

Gli faceva incredibilmente male, il dolore era lancinante, ed infatti erano rimasti i segni rossastri delle dita che duramente gli si erano strette intorno.

Jeongin tentò di allontanare il braccio dallo spazio creatosi tra i due – nella speranza che il maggiore non lo notasse – ma con un risultato fallimentare.

Chan infatti – che non aveva perso di vista quel gesto neanche per un istante – aveva prontamente acciuffato il braccio del minore prima che potesse abbassare nuovamente la manica su di esso.

Lo fece in modo dolce e gentile – in modo nettamente differente dall'altro – osservando quei piccoli lividi che in quel momento macchiavano come dell'inchiostro la pelle candida di Jeongin.

Fu come gettare ulteriore benzina a quel fuoco ormai implacabile al suo interno.

Ti ammazzo.

Depositò con gentilezza il braccio del minore, contro il suo fianco, abbassandogli piano la manica dell'uniforme per non fargli ulteriormente male.

Jeongin fece qualche passo indietro nascondendosi parzialmente – anche se un po' se ne vergognava – dietro le spalle ampie dell'australiano.

Quando Chan si voltò verso l'altro ragazzo – che nel mentre aveva approfittato della distrazione per fare qualche passo indietro – si chiese dove avrebbe trovato la forza necessaria per trattenersi dallo sfondargli il cranio.

Se c'era una cosa che odiava, questa era la violenza; e per ironia della sorte l'unica soluzione che gli veniva in mente – per sfogare la propria rabbia – era ulteriore violenza.

Doveva calmarsi, o sarebbe andato contro i suoi stessi principi.

Odiava seriamente la violenza, in ogni sua forma, non a caso infatti aveva dato il tormento a Changbin – mentre attendevano nello spiazzo, il ritorno di Minho – per ciò che era successo con Felix.

«Dammi!» sbottò con ben poca gentilezza, strappando dalle mani dell'altro ragazzo quel misero volantino raggrinzito, e portandoselo poi dinanzi al viso.

Era veramente il volantino di una festa – fatto di merda oltretutto, osservò tra sé il ragazzo – che si sarebbe tenuta quella notte stessa in occasione della caduta delle stelle cadenti.

Chan se n'era quasi dimenticato.
Aveva provato a convincere gli amici a fare qualcosa insieme, ma sembravano tutti impegnati a fare qualcosa di migliore.

La verità era che a nessuno di loro interessava stare sotto il cielo a contare le splendide stelle che venivano giù.

C'era un indirizzo – che faceva bella mostra di sé in alto – e Chan sapeva essere in una zona residenziale perché abitava dieci minuti più avanti; immaginò trattarsi proprio dell'abitazione di quel ragazzino.

«Tante chiacchiere per questa stronzata? - domandò scuotendo l'invito in faccia del diretto interessato, con un pesante sarcasmo leggibile sul volto – La gente in serate come questa va a baciarsi sotto le stelle, immagino che uno sfigato come te abbia avuto solo questa miserabile idea per farsi considerare un minimo, non è così?».

Se non poteva picchiarlo, avrebbe trovato un altro modo per fargliela pagare.

Il dissenso e la frustrazione erano facilmente leggibili sul volto del ragazzo – che probabilmente avrebbe voluto farsi coraggio e ribellarsi, alle prese in giro del maggiore – ma cosa mai avrebbe potuto fare o dire contro quello che loro stessi chiamavano "Il capo dei randagi"?

Si sentiva gelare solo guardandolo in faccia, era spaventoso.

Cos'ha a che fare Jeongin con uno come lui? - non poté fare a meno di domandarsi.

Bang Chan era nettamente più robusto di lui, e lo guardava dall'alto al basso con l'espressione di chi avrebbe potuto spaccargli la faccia con una testata.

Rabbrividì.
Chan si voltò verso Jeongin, allungandogli quel brutto volantino.

«Prendilo – gli disse, posandolo con delicatezza tra le sue mani – Potresti usarlo per pulirtici le mani quando sono sporche di pittura, palesemente non ha altra funzione» disse, con la voce che tremava a causa del nervosismo che stava accumulando.

Insultare quell'idiota non lo stava aiutando per niente.

Il fuoco al suo interno stava pian piano bruciando tutto ciò che lo circondava, e il maggiore si domandò quanto ci avrebbe messo a fuoriuscire.

Jeongin lo notò e fece qualcosa che sorprese totalmente Chan.
Posò il volto sulla sua spalla, respirando piano il profumo forte dell'altro.
Si sentì inevitabilmente illanguidire.
L'odore di Chan era così forte e sexy.

«Hai fatto abbastanza, andiamo via» sussurrò stringendogli forte una mano con la sua.

È così grande se messa a confronto con la mia – realizzò Jeongin, mordendosi un labbro nascosto contro l'uniforme del maggiore.

Chan sgranò gli occhi, voltandosi verso di lui.

Quei gesti e quelle parole erano stati una secchiata d'acqua gelida per quell'incendio che l'aveva invaso; improvvisamente non c'era più traccia di quelle fiamme.

Posò una mano tra i suoi capelli scuri, massaggiando per qualche istante la cute con le dita.

Sono così morbidi i suoi capelli.

Il ragazzo dietro di lui non aveva avuto il coraggio di scappare, - nonostante le spalle che gli stava dando il maggiore, Chan riusciva ancora a percepire la sua presenza.

Si voltò nuovamente, fronteggiandolo con volto scuro.

«Fai in modo che questa sia la prima ed ultima volta che assisto ad una scena simile, la prossima volta ti farò capire meglio perché faccio parte di quelli che – voi studenti leccaculo – amate chiamare "i randagi" e quando questo avverrà, probabilmente avrai anche qualche osso rotto» chiarì accennando un sorriso spaventoso.

Jeongin sentì un forte brivido scuoterlo.
Non seppe di che tipo.
Piacere, eccitazione, paura o ammirazione.

Probabilmente era un mix di tutto.

Il maggiore si voltò nuovamente verso la sua piccola figura, ammorbidendo il sorriso che aveva sulle labbra, e allontanandosi con lui – prendendolo per mano.

Jeongin non osò fiatare.
Si limitò a trotterellargli dietro osservando le loro mani unite senza le dita intrecciate, come avrebbero fatto due bambini.

Non che per lui quello fosse importante.
Mi sta comunque tenendo per mano.

Chan non sembrò imbarazzarsi per quella situazione, neanche quando incrociarono casualmente qualche studente ritardatario che raggiungeva l'aula.

Entrò a passo spedito verso l'area "self-service" dell'infermeria.

In caso di bisogno, - per i medicinali e le gravi medicazioni era necessario rivolgersi all'infermiera – in quella piccola stanza era possibile trovare alcune cose rese disponibili per l'utilizzo degli studenti.

Cerotti, disinfettante, varie lozioni per le punture di insetto e anche un ottimo e comodo unguento per i lividi; Chan lo conosceva molto bene.

Si avvicinò al piccolo lettino posizionato accanto alla finestra – messo a disposizione anche per coloro che avevano improvvisi attacchi di sonno durante le lezioni – e con un gesto fluido, posò le mani sui fianchi di Jeongin e lo sollevò per farlo sedere su di esso.

Il minore rimase totalmente di stucco.
L'aveva sollevato come se fosse stato solo un bambino.

Chan corrugò le sopracciglia in risposta, osservando il suo minuto corpo.
«Sei davvero leggero» ammise.

Jeongin arrossì.

Sei tu, ad essere probabilmente molto forte.

Chan si sfilò agilmente la giacca dell'uniforme in un unico movimento, e la abbandonò in una sedia posizionata poco di lato, rimanendo solo con la camicia bianca.

Jeongin si domandò cosa avesse fatto di male o di bene nella propria vita precedente.

Riuscirò a superare questa giornata – pensò guardando ovunque, tranne i muscoli della schiena del maggiore che si potevano intravedere attraverso il tessuto chiaro.

Chan nel mentre era totalmente concentrato nella meticolosa ricerca della boccetta a lui tanto familiare.
Eccola!

«Cos'è?» domandò il minore con espressione curiosa, quando vide il ragazzo prendere quel piccolo contenitore dalla vetrinetta.

Non aveva idea del perché Chan l'avesse portato in infermeria.
Stava bene.

Quando vide il maggiore sollevargli la manica dell'uniforme, ed esporre la pelle ormai livida del suo polso, ebbe un tuffo al cuore.

Si sorprese di quanta premura e gentilezza potesse nascondersi in quell'uomo alto e robusto, che a tratti poteva anche incutere del timore.

«Se non ci metti nulla, questi lividi stasera saranno ormai neri» disse semplicemente Chan, prendendo un po' di quella crema fresca e massaggiando in modo circolare la pelle tenera del giovane.

Jeongin ingoiò a vuoto la saliva.
«Non ti ho ancora detto grazie – mormorò, osservando con il cuore che batteva forte, il modo in cui Chan massaggiava con cura la parte lesa – Se non fosse stato per il tuo intervento, non me la sarei cavata solo con questi due lividi, quindi grazie mille hyung» disse posando la mano libera su quella del maggiore, bloccando i suoi movimenti e lasciando che i loro occhi si osservassero.

Erano così profondi e brillanti gli occhi di quel piccolo artista.

Il ragazzo si domandò come qualcuno potesse desiderare di fargli del male, era letteralmente l'ultima cosa che quegli occhi da bimbo potevano suggerire.

Chan sentiva la costante necessità di proteggerlo.
Sospirò.

«Perché stavi discutendo con quel ragazzo?» gli domandò abbassando nuovamente lo sguardo sul segno ben distinto di una mano, intorno al suo polso.

Gli si chiudeva lo stomaco solo alla vista.

Jeongin parve riflettere a lungo prima di rispondere a quella domanda.
«Diciamo che abbiamo dei trascorsi poco piacevoli» disse semplicemente, rimanendo sul vago.

Non avrebbe davvero saputo come spiegarglielo in quel momento, senza un minimo di preparazione.

In realtà, si vergognava anche.
L'ultima cosa che voleva era che Chan lo giudicasse.

Chiunque sarebbe andato bene – ormai aveva imparato a fregarsene del parere altrui – ma non lui.

Chan annuì dubbiosamente, accettando il fatto che Jeongin avesse deciso volutamente di non approfondire l'argomento.

Gli sarebbe piaciuto saperlo, sia per poterlo aiutare meglio – in caso quel ragazzo ci avesse provato ancora una volta – ma anche per togliersi quella strana sensazione di curiosità che sentiva pesare sul fondo dello stomaco.

Puntò gli occhi sul volantino, che giaceva ancora – un po' spiegazzato – sulle ginocchia del minore.

«Non andrai, vero?» gli domandò ironicamente, ricevendo subito uno sguardo torvo da parte del più giovane.

«Queste feste le evito indipendentemente che siano organizzate da lui o meno, con la scusa delle stelle cadenti rimarranno in realtà chiusi dentro un'abitazione ad ubriacarsi, fino a dimenticarsi persino dove abitano» sbottò con voce nauseata.

Chan sorrise.
Jeongin era un ragazzino davvero interessante.

Era molto più maturo dei ragazzi della sua età.

«Io amo la notte delle stelle cadenti – continuò a raccontare il più piccolo, con un sorriso genuino sulle labbra, osservando Chan che continuava a massaggiare dolcemente i suoi lividi – Poco lontano da casa mia c'è un ampio prato circondato da alberi che viene usato come zona da camping per queste occasioni. Mi accampo lì tutti gli anni per osservare le stelle, e non cambierei questa mia abitudine con nessuna festa al mondo».

Chan rizzò in automatico le orecchie sentendo quelle parole – come un lupo che durante la notte ascolta ogni minimo scricchiolio del bosco – sollevando lo sguardo per immergerlo nuovamente in quello di Jeongin.

«Vai da solo?» gli chiese, incapace di trattenersi.
Jeongin annuì, con un sorriso carico di soddisfazione.

Qualche anno prima si sarebbe sentito in imbarazzo, forse un po' sfigato a fare qualcosa da solo, senza i suoi amici, ma non più.

«Lo propongo sempre ai miei amici, ma non gli piace tanto l'idea di accamparsi, quindi ogni anno mi trovo sempre ad andare da solo» ammise, grattandosi distrattamente il retro del collo.

«Ti darebbe fastidio se mi unissi a te?» gli domandò frettolosamente il maggiore, senza riuscire a trattenere quelle parole prima che lasciassero le sue labbra.

Jeongin spalancò la bocca, totalmente spiazzato da quella proposta.

Tremò leggermente, osservando il maggiore che attendeva una sua risposta.

Parla cazzo – si urlò mentalmente Jeongin.

Chan abbassò lo sguardo in totale disagio, mal interpretando quel silenzio dell'altro.

Forse vuole starsene per i fatti suoi – rifletté.

«Non devi accettare per forza – si scusò Chan, tentando di offrire una via di fuga al ragazzino – Magari ti piace stare da solo, mi dispiace. Te l'ho chiesto perché da quando mi sono trasferito a Seoul non sono più riuscito a vedere una pioggia di stelle, i miei amici hanno sempre di meglio da fare e non vogliono mai stare con me».

Maledizione, si sentiva un dannato idiota.

Il minore ridacchiò, abbassandosi nuovamente la manica sul polso ancora un po' dolorante, quando Chan gli fece cenno di aver terminato.

Si voltò per mettere al suo posto l'unguento.

«Mi scuso per non averti risposto subito, sono rimasto solo sorpreso dalla proposta, però ti assicuro che – se vuoi seriamente unirti a me – mi farebbe piacere per una volta non fare quest'esperienza da solo – disse ricevendo un grosso sorriso da parte dell'australiano – Mi sembra inoltre il minimo per sdebitarmi dell'enorme aiuto che mi hai dato poco fa» concluse, rispondendo al sorriso dell'altro.

Poteva dire di sentirsi più a suo agio intorno al maggiore.
E questo lo preoccupava più di qualsiasi altra cosa al mondo.

Un anno cazzo - pensò tra sé sentendo il cuore che batteva forte - Ce l'avevo quasi fatta, ho resistito per un anno!

«È quasi ora di andare in mensa, perché ci hai voluto incontrare qui?» domandò Hyunjin, non riuscendo a trattenere uno sbadiglio stanco.

Era stato complicato procurarsi gli appunti anche per Seungmin.
Chissà se alla fine quel ragazzino gli aveva dato retta.

Chan aveva mandato sia a lui che a Minho un messaggio, dove chiedeva loro di incontrarsi vicino all'accesso che portava ai campi sportivi.

Era una richiesta inusuale, e forse era stata proprio la curiosità a spingere i due amici a precipitarsi lì.

Hyunjin si voltò.
O era lui ad essere tanto stanco, o erano i suoi amici ad avere qualcosa che non andava in quella giornata.

«E tu, che diavolo ti è successo?» domandò osservando Minho.
Appariva distante, stanco, arrossato e sudato.

«Non mi è successo niente» disse con voce un po' rauca, lanciando un'occhiataccia al minore.

«Ho bisogno del vostro aiuto» li interruppe il maggiore, tirando fuori dalla tasca il piccolo volantino di invito alla festa.

Prima di uscire dall'infermeria, affiancato da Jeongin, aveva chiesto al più giovane se poteva tenersi quel pezzo di carta.
Anche se un po' dubbioso, Jeongin aveva acconsentito.

«Non mi interessa che metodo utilizzerete; messaggi, chiamate, lettere con piccioni o passaparola – l'unica cosa che vi chiedo e di far sapere a tutti gli studenti, che chiunque oserà presentarsi stasera a questa festa si troverà con le dita si entrambe le mani spezzate entro la giornata di domani». 

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10

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Grazie per l'attenzione,
TheyIdiot.

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