05. Volunteering and New Beginning

La domenica per me era un giorno speciale. Non perché mi svegliavo tardi e stavo a letto tutto il giorno, anzi, a me piaceva svegliarmi presto e bere una tazza di the' bollente davanti alla finestra di camera mia insieme a mio fratello, ovviamente tramite la webcam del mio iPad Pro.

Ero sempre da sola la domenica mattina, papà cominciava sempre il suo turno alle otto del mattino e restava in ospedale fino alle quattro del pomeriggio. Quando venne a mancare la mamma, lottai con papà perché restasse con me e non andasse a lavoro. Mi sentivo sempre e costantemente sola, in un momento del genere era l'unica cosa che proprio non volevo e non riuscivo a sopportare. Col tempo cominciai a farci l'abitudine e, anzi, stare da sola di domenica mattina cominciò a piacermi. Solo la domenica mattina però.

Principalmente perché spendevo il mio tempo facendo qualcosa di utile per la casa: pulivo, rassettavo, stiravo, rifacevo i letti. Subito dopo studiavo, poi mi preparavo per andare in ospedale per il mio servizio di volontariato. Da un anno avevo messo insieme un gruppo di volontari e ogni domenica, dalle undici alle tredici, andavamo a trovare i bambini malati di tumore nel reparto pediatrico di oncologia. Avendo mio padre che era il primario del reparto, non avevamo faticato troppo per avere il permesso di passare delle ore in ospedale per strappare un sorriso a quelle povere anime innocenti. Era la soddisfazione più bella ricevere un abbraccio dalle braccia esili di un bambino che stava lottando contro un tumore; mi commuovevo ogni qual volta mi guardavano negli occhi e mi ringraziavano. Con molti di loro avevo stretto anche un legame, andavo a trovarli spesso all'ospedale per vedere come stavano e portavo sempre loro dei regali, che siano stati peluches, libri o giocattoli.

Quella domenica mattina io e il mio gruppo avevamo deciso di impersonare un gruppo di ballerini di danza classica un po' buffi. Dividendoci in gruppi, eravamo entrati nelle stanze di tutti i bambini del reparto e avevamo passato anche del tempo con loro.

Tra tutti, Tommy era il bambino che più mi stava a cuore. Aveva solo cinque anni e soffriva di leucemia già da due. Aveva vissuto la sua infanzia all'interno di un ospedale, ma nonostante questo non mancava di forza e coraggio. Mentre lasciavo che il resto del gruppo proseguisse col salutare i bambini delle altre stanze, io passavo spesso qualche minuto in più con lui. Come stavo facendo in quel momento.

«Allora che dici, Tommy, posso fare la ballerina?» chiesi al bimbo facendo una piroetta. Tommy mi sorrise e scosse la testa. «No? E perché?»

«Perché non sai stare sulle punte» rispose con voce flebile. La madre di Tommy strinse la mano del figlio con dolcezza. «Però sei brava a fare la comica. Fai ridere con questo tutù» incrociai le braccia al petto e schiusi le labbra fingendomi offesa.

«Ah sì, mostriciattolo?» mi avvicinai al suo letto. Socchiusi gli occhi e strizzai le labbra assumendo un'espressione che lo fece ridere. «Uhm, sì, in effetti hai ragione. Stai ridendo, posso fare la comica» Tommy continuò a ridere. Quasi mi commossi quando allungo una mano verso di me per stringere la mia.

«Da grande sai io cosa farò?»

«Cosa, campione?» gli chiesi sedendomi sul letto accanto a lui. Girò la mia mano tra le sue dita sottili.

«Da grande sarò un astronauta. Voglio viaggiare nello spazio e portare una stella alla mia mamma e una anche a te» diedi un dolce bacio sulla fronte a quel piccolo ometto coraggioso.

«Sarà così, Tommy. Lo sai, anche mio fratello aveva un sogno simile al tuo. Lui voleva costruire astronavi. E sai adesso cosa sta facendo?»

«Cosa?» Tommy mi guardò dal basso con i suoi occhioni grandi e verdi.

«Sta realizzando il suo sogno. Ha lavorato tanto, ha sofferto molto e ci ha messo tutto sé stesso, ma adesso sta costruendo astronavi. Puoi farcela anche tu, capito? Ricorda sempre che tu sei forte e che realizzerai il tuo sogno»

«Wow! Quindi lui costruisce astronavi? Posso conoscerlo?» annuii.

«Certo! Sabato prossimo verrà a stare da noi e ti prometto che domenica lo porterò qui con me»

«Non vedo l'ora di conoscerlo» sussurrò il bimbo poggiando la testa sul mio braccio. Mi alzai aiutandolo a stendersi, poi tornai a prendergli la mano.

«Anche lui non vede l'ora di conoscerti. Gli parlo sempre di te»

«Davvero?» Tommy chiuse gli occhi, gli accarezzai il viso.

«Sempre. Lo sai, io ti voglio bene»

«Anch'io ti voglio bene..» la voce di Tommy si affievolì. Alzai gli occhi cercando di non piangere. Non volevo che quel bambino così piccolo soffrisse così tanto. Ma non potevo fare niente se non dargli coraggio e strappargli un sorriso.

«Ora riposa, piccolo angelo» gli baciai dolcemente la fronte. Tommy non rispose, ma sua mamma mi abbracciò come ogni domenica e mi ringraziò con le lacrime agli occhi.

Potevo capire il suo dolore. Ne avevo provato anch'io uno simile.

Uscita dalla stanza di Tommy, finii di salutare il resto dei bambini e mi ritrovai verso l'una con il gruppo per congratularmi con loro e incoraggiarli all'esserci sempre. Quei bambini avevano bisogno di provare un po' di felicità, di ritrovare la loro perduta infanzia e ridere, ridere di cuore perché si sentivano bene. Era sempre gratificante sapere che eravamo riusciti con le nostre azioni a far provare a quei bambini un po' di perduta felicità.

Dopodiché ognuno prese la propria strada mentre io restai in ospedale. Mio padre avrebbe lavorato ancora un'ora prima della pausa pranzo così ne approfittai per andare a trovare il professor Dempsey che era stato ricoverato siccome l'indomani sarebbe stato operato per asportare il tumore che, fortunatamente, era solo alla fase iniziale. Fino alla sera prima il mio ex docente era stato calmo e tranquillo. Quando entrai nella sua stanza, però, sembrava molto preoccupato.

«Professor Dempsey, posso?» chiesi. Erick si girò a guardarmi e sembrò rilassarsi subito.

«Certo, Aria, certo» disse. Si sedette sul letto ed io, entrata in stanza, mi sedetti accanto a lui.

«Si sente agitato?»

«Un po', ma penso sia normale. Non capita tutti i giorni di doversi far asportare un tumore»

«Andrà tutto bene e questo lo sa meglio di me. Poi ci sono io, c'è suo figlio, c'è mio padre. Noi le staremo accanto, professore. Qualsiasi cosa accada» il mio professore mi strinse la mano.

«Lo so» disse. Poi mi sorrise. «Per caso hai visto Justin venendo qui? È uscito già dieci minuti fa per prendermi un frappuccino da Starbucks ma non è ancora tornato»

«No, non l'ho vist-»

«Papà, il frappuccino con il muffin sopra non so dove lo hai visto ma qui non lo fanno. Quindi ti ho preso un frappuccino white moka e un muffin ai mirtilli» Justin entrò all'improvviso in camera di suo padre. Mi pietrificai nel vederlo. Aveva un look total balck abbastanza classico, portava una polo nera a maniche lunghe con tutti e tre i bottoncini chiusi, un pantalone a sigaretta nero e delle scarpe classiche del medesimo colore, oltre giustamente al cappotto nero elegante che gli arrivava a metà coscia. Tra le mani aveva due sacchetti col logo dello Starbuck e un iPhone X rosso. Arrossii quando mi resi conto che lo stavo osservando troppo attentamente e, imbarazzata, abbassai immediatamente lo sguardo. «Oh, ciao Aria, ci sei anche tu e sei vestita da..ballerina?»

«Sì, è una lunga storia» tagliai corto alzandomi per lasciare spazio al professor Dempsey e suo padre. Mi sentii in imbarazzo ad indossare solo un tutù rosa e delle calze sottili in presenza di due miei insegnanti, soprattutto mi sentivo in imbarazzo ad indossare quei vestiti davanti a Justin.

«Aria fa volontariato qui in ospedale» raccontò invece il professor Erick. Prese un sorso dal suo frappuccino e mi guardò mentre prendevo posto sulla sedia accanto al letto dov'era steso il mio ex docente. «Ogni settimana viene a trovare i bambini al reparto pediatrico di oncologia e mette in scena per loro degli spettacoli. Giusto, Aria?»

«Più o meno sì. L'anno scorso ho messo su un gruppo di ragazzi e ragazze e ogni domenica passiamo un paio d'ore con i bambini malati per farli distrarre da tutto il male che li circonda. Oggi eravamo 'i ballerini (in)esperti', la settimana prossima saremo renne e folletti di Babbo Natale»

«È molto nobile da parte tua» Justin mi lanciò un'occhiata, poi mi porse il suo bicchiere di frappuccino.

«Posso?» gli chiesi, riferendomi al bere dalla sua cannuccia. Si leccò le labbra e annuì, così bevvi. Dalla sua stessa cannuccia. E arrossii di nuovo. Così continuai col discorso precedente. «So quanto stanno male molti bambini, qui dentro. Sapere che posso fare qualcosa per loro, anche se solo per qualche ora, per me è molto importante. Il loro coraggio e la loro forza dà coraggio e forza anche a me» giocai con il tulle del mio tutù rosa. Evitai del tutto lo sguardo del mio professore e di suo padre. Mi sentivo così imbarazzata in quel momento, così vulnerabile.

«Quindi sei qui per loro ogni domenica? E ogni domenica preparate una scenetta diversa?» mi chiese ancora il mio professore.

«Be', sì. Abbiamo un gruppo Whatsapp e lì esprimiamo le nostre idee. Sappiamo già cosa fare fino alla fine di febbraio. E ogni mercoledì, al massimo giovedì, ci vediamo a casa mia per provare insieme. Poi chi può e vuole, è libero di venire qui in ospedale in qualsiasi momento per far compagnia ai vari bambini del reparto»

«Immagino che tu sia spesso qui» disse ancora Justin e annuii.

«Da quando è morta la mamma cerco di darmi da fare in qualche modo. La vita è il dono più prezioso che abbiamo e ognuno di noi può fare qualcosa per rendere più felice la vita di chi ci sta intorno. Poi i bambini di questo reparto sono meravigliosi, amo ognuno di loro con tutto il mio cuore»

«Da come ne parli, hai fatto venire voglia anche a me di partecipare a questo gruppo di volontariato» il professor Erick si stese sul letto. «Ah no, io farò parte dell'altra categoria» disse poi in modo scherzoso. Justin sorrise amareggiato, io mi alzai e mi avvicinai a letto andando accanto al mio nuovo docente. «Sai, Aria, stavo pensando una cosa»

«Cosa, signor Dempsey?»

«Stavo proprio pensando che sia arrivato il momento che tu non mi chiami più né signore né professore. Io tornerò ad insegnare alla Marymount quando tu ormai sarai già al college, quindi non sono e non sarò più un tuo docente. È inutile che tu continui a darmi del 'lei', puoi semplicemente darmi del 'tu' e chiamarmi Erick o zio, come preferisci» strizzai gli occhi e azzardai un sorriso. Anche qualche giorno prima mi aveva chiesto di chiamarlo 'zio Erick' e ciò mi faceva battere il cuore. Stava a significare che a me ci teneva, mi considerava parte della sua famiglia, ero come una nipote. Feci per rispondere quando Justin mi precedette.

«Papà, non mi sembra il caso, adesso sono io il suo professore e-»

«Ah, Justin, andiamo. Non mi chiamerà così in classe ma nel privato. Qui, ad esempio, non ci sono né colleghi né altri miei vecchi alunni. Non ci vedo nulla di male»

«Neanch'io. Darò del tu a suo padre, non a lei» Justin mi guardò con la coda dell'occhio, poi tornò a guardare suo padre. «Così potrai sentirti più giovane, zio Erick, se do del lei a tuo figlio e non a te» dissi appositamente. Justin rise e mi passò il suo bicchiere con il resto del frappuccino. «Cosa devo farci?» gli chiesi mentre lo osservavo sedersi.

«Magari bevendo eviti di farmi sentire vecchio»

«Mi dispiace, signor Dempsey» usai appositamente quel ruolo. Justin mi lanciò un'occhiataccia ma non ribatté, anzi, sorrise.

«Ora, se avete finito di battibeccarvi, vorrei chiedere un piacere ad entrambi» mi chiese Erick.

«Che genere di piacere?» il mio ex docente mi indicò un borsone nero.

«Ho portato un libro. A causa del mal di testa non riesco a leggerlo con attenzione e volevo chiedervi se potreste leggermelo voi» mi avvicinai al borsone e presi dal suo interno un libro di filosofia chiamato 'Così parlò Zarathustra' di Friedrick Nietzsche, un filosofo tedesco vissuto nel diciannovesimo secolo. Mi avvicinai a Justin che prese il libro tra le mani.

«Mi ricordo di questo libro. L'ho studiato il primo anno di università. Ti leggiamo un capitolo a testa?»

«No, vorrei leggeste una pagina a testa. Mi piace il suo della vostra voce e conosco il modo di leggere di entrambi. Sono sicuro che questo esperimento darà i suoi frutti» Erick si stese sul suo letto e chiuse gli occhi. Io e Justin ci guardammo, entrambi non avevamo compreso il perché di quella sua scelta. O almeno, non ancora.

Così presi il libro dalle mani del mio docente e cominciai a leggere la prima pagina del libro. Mentre leggevo, mi sedetti sul bracciolo della sedia su cui Justin era seduto così da permettere anche a lui di leggere e non perdere il segno. Prima che finisse la pagina, abbassai il libro e lo misi al centro così che entrambi potessimo leggere. Finita la pagina, anche se la frase era a metà, Justin lesse con un'enfasi tale da sorprendermi. Mi emozionai così tanto che alzai lo sguardo e osservai il suo viso. Aveva un'espressione concentrata, le sopracciglia corrugate e le labbra che si muovevano in modo fluido. Era così sciolto e concentrato allo stesso tempo. Sentivo che ci stava mettendo tutto sé stesso e questa sua caratteristica mi attirò ancora di più. Finita la pagina, lessi quella dopo cercando di arrivare anche solo minimamente a leggere come lui. Volevo che lui mi guardasse con la stessa ammirazione con cui io avevo guardato lui. Ma sapevo che era impossibile, perché lui era semplicemente stupendo.

La lettura andò avanti e, più avanti andava, più mi sentivo vicina a Justin. Dovevamo essere complici per comprendere il significato del materiale e leggerlo con l'enfasi giusta, dovevamo capirci e ascoltarci per non sbagliare e interrompere la lettura. Con nostra sorpresa, leggere in quel modo non fu poi così difficile. Anche se ero scomoda nella posizione in cui mi trovavo e avevo mal di schiena, non mi importava. Mi sentivo così vicina a Justin in quel momento che il dolore poteva aspettare.

Mezz'ora dopo avevamo letto già quattro capitoli. Il professor Erick ci fermò solo perché diceva che un libro del genere andava letto un po' alla volta e con attenzione. E in effetti aveva ragione. Justin mi porse il libro guardandomi dal basso, lo presi facendo attenzione a non guardarlo in viso. Sapevo che, se lo avessi fatto, mi sarei persa nel guardarlo e nello scrutare il suo sguardo.

«Ottimo lavoro» però mi disse. E non ci fu niente da fare: lo guardai. E non potetti fare scelta migliore. Justin mi sistemò una ciocca di capelli che era uscita dallo chignon dietro l'orecchio, poi mi prese la mano e me la strinse. Il tutto, senza smettere di guardarmi negli occhi. «Grazie per tutto questo» disse poi.

E in quel momento desiderai con tutta me stessa tornare ad abbracciarlo come qualche sera prima. Solo dopo ricordai di essere una sua alunna, in camera con suo padre e che il mio sarebbe passato a breve per controllare lo stato del mio ex docente prima di andare a pranzo. Infatti beccò me e Justin vicini a distanza fraintendimento e ci squadrò entrambi più volte con le sopracciglia corrugate e la bocca schiusa.

«Cosa succede qui?» chiese. Mi alzai di scatto dal bracciolo della sedia, lo stesso fece anche Justin avvicinandosi alla finestra.

«Assolutamente niente. Stavamo leggendo un libro ad Erick e..»

«Ad Erick?» papà trattenne una risata.

«Sono stato io a chiederle di chiamarmi per nome e di darmi del tu e anche di leggere il libro. È tutto sotto controllo» il mio professore aprì gli occhi e si sistemò sul suo letto.

Io e Justin ci scambiammo un occhiata.

Entrambi sapevamo che tutto, in realtà, stava sfuggendo dal nostro controllo. Così decisi di fare l'unica cosa che sapevo fare: scappare. «Allora.. io vado a preparami per il pranzo, okay? Ciao papà» gli diedi un bacio sulla guancia «Ti voglio bene. E zio Erick, ci vediamo domani mattina che verrò a salutarla prima dell'intervento»

«Non ce n'è bisogno, Aria, va pure a scuola» presi la mano di Erick e la strinsi.

«Ci andrò dopo a scuola. Mi raccomando, non mi faccia- volevo dire, non farmi stare in pensiero. Riposa e sta tranquillo. Sei nelle mani migliori del Paese»

«Lo so» Erick mi strinse ancora la mano. «Allora ci vediamo domani»

«Sì. E.. arrivederci prof. Dempsey» rivolsi il mio sguardo a Justin.

«Ricorda i compiti per domani» cantilenò Justin.

Avrei voluto fargli una linguaccia ma mi trattenni. Così mi avviai alla porta e la aprii, feci per uscire ma prima di richiedermi la porta alle spalle diedi un ultimo sguardo alla finestra. Incrociai un'ultima volta lo sguardo di Justin. Mi sorrise. E solo allora, soddisfatta, andai via.

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