Capitolo 40

«Ehm, Akira. Cosa...ci facciamo qui?»

La nostra meta era il campetto da calcio in cui eravamo stati mentre avevo istruito lui e il Trio di Nerd su qualche tecnica calcistica.

Era isolato e lontano da occhi indiscreti, incastrato tra i palazzi. A meno che uno volutamente affacciandosi non lo guardasse era piuttosto appartato.

«Faremo pratica con le protesi qui, e per l'occasione ho portato una cosa».

Scoprì che quella mattina aveva messo nel bagagliaio una sacca più piccola da cui estrasse un pallone da calcio, lo stesso che avevamo usato quando avevo provato a erudirlo, e per questo si era dimenticato di prendere le protesi, recuperate durante la nostra breve sosta a casa sua.

«Ho pensato di alzare in po' il livello di difficoltà, se sei d'accordo. Ho visto che sei più sicuro sulle protesi ma per ora ci siamo limitati a movimenti più semplici».

La sua proposta mi intrigava eppure mi lasciava dietro un certo di disagio. E se il mio corpo si fosse dimenticato come si giocava? Se non fossi riuscito a giocare come prima?

Quei pensieri mi resero irrequieto e Akira se ne accorse subito. Era sempre una persona attenta alle reazioni degli altri.

«Qualcosa non va?»

Troppe cose, troppi pensieri per la testa. Cercai di stirare le labbra in un sorriso, cercando di essere convincente.

«Andiamo».

Mi mossi in avanti con la sedia a rotelle e lo sentì seguirmi. Fuori dal campetto c'erano delle panchine in pietra ancora più ingrigite dallo smog su cui mi sedetti con non poca difficoltà. Fu allora che Akira tirò fuori le protesi e me le porse.
Le indossai e con soddisfazione constatai che Akira aveva ragione. Mi sentivo molto più al mio agio con le protesi e che era tempo di prendere completamente pieno possesso della mia vita.

Lo seguì nel campetto, ma mi inchiodai al primo passo.

La mia mente si perse nei ricordi di quando giocavo. I cori dei tifosi, l'adrenalina che scorreva nelle vene e che mi faceva sentire libero e potente.
Sentivo le gambe pesanti. Dovevo avvanzare, dovevo riprendermi le redini della mia vita. Altrimenti, a cosa sarebbe servito tutto quello?

Indietreggiai fino a toccare con la schiena il muro a cui era ancorata una delle due porte.

Mi portai le mani al volto, quelle sensazioni mi comprimevano lo sterno, mi strappavano il respiro.

Fui preso di contropiede quando constatai che Akira si era avvicinato e mi si erq posizionato di fronte, la mani poggiate contro il muro in modo da bloccare ogni mio possibile tentativo di fuga. La scena mi ricordò molto una che avevo letto in un manga che mi aveva prestato.

«Perchè hai deciso di giocare a calcio?»

La domanda mi lasciò perplesso.
«Beh, è semplice. Insomma...»

Già perchè mi piaceva così tanto?
Avrei guadagnato tanto?
Si, ma anche se i soldi erano soldi, non era per quello.
Mi aveva costretto mio padre?
All'inizio avevo scelto io la strada da percorrere ma era stato mio padre a convincermi a intraprendere la strada dell'agonismo.

«Mentre giocavo mi sembrava che tutto fosse possibile, che potessi fare ciò che desideravo. In quei momenti mi sentivo vivo e libero...e invincibile» ammisi, arrossendo dopo essere stato così sincero. Non ero ancora abituato ad aprirmi così tanto, prima aprivo bocca solo per sparare sentenze o forse (sicuramente) anche parole che ferivano gli altri. Forse ne ero consapevole. Forse lo facevo di proposito ma non mi importava. Chissà. Ma ero cambiato e non volevo tornare indietro.

Lui sorrise.
«Quando ti alleni con le protesi devi avere bene in mente questo obiettivo. Chiudi gli occhi e cerca di visualizzarlo e solo allora sarai in grado di raggiungerlo».

Regolai il respiro e feci come mi aveva detto.

Cercai di riprendere il controllo di me stesso. E infine focalizzai il mio scopo. Accolsi i ricordi che aveva il mio corpo delle vittorie che avevo sostenuto e mi sentì pronto.

Aprì gli occhi e incrociai lo sguardo con Akira, che sorrise soddisfatto.

«Forza Luca-chan. Mostrami di cosa sei capace».

Sorrisi di rimando.
Non chiedevo di meglio.

Arrivai a casa che non mi sentivo più le gambe, almeno la parte rimasta. I muscoli erano in fiamme ma inaspettatamente mi sentivo eccitato e ancora vibrante di energia.

Avevo giocato a un calcio talmente penoso da farmi orrore da solo, ma al tempo stesso ero carico di aspettativa.
Dovevo migliorare e adesso ero certo che ce l'avrei fatta.

Mi sdraiai sul letto e liberai un sospiro soddisfatto.

Dovevo studiare per la possibile interrogazione del giorno dopo di storia, ma ero troppo stanco.

Freddy pensò di saltare sul letto in quel momento e ad acciambellarsi al mio fianco.

Cominciai ad accarezzarlo e lui fece le fusa. Da quando l'avevo trovato con Akira era cresciuto bene e in salute e non potevo essere più contento.
Continuando ad accarezzarlo volai con lo sguardo sulle coppe, vinte in diverse competizioni, disposte in fila ordinata sulla mensola di fronte al letto, per poi poggiarlo distrattamente sui moncherini. Ormai avevo accettato che fossero diventati parte di me, e con la consapevolezza che non mi avevano fermato, che non mi avrebbero impedito di poter tornare a essere me stesso.
Mi tornò in mente quando ero piccolo, in particolare uno dei primi ricordi che avevo legati al calcio e di come ero andato incontroal mio inesorabile destino.

Ero riuscito a convincerlo.

Strinsi con una mano quella di mio padre e con l'altra un peluche a forma di orsetto che indossava il cappellino e la maglia della mia squadra del cuore.

Fino a quel momento avevo osservato le partite di calcio seduto per terra e abbracciando un pallone da calcio, anziché guardare i cartoni animati come i miei coetanei. Era cominciato tutto per sbaglio, mio padre stava facendo zapping tra i canali, soffermandosi infine sulla diretta di una partita di calcio. Mi ero seduto di fronte alla tv, ed ero rimasto folgorato. Osservavo i giocatori mettere a punto le tecniche più disparate. Dribbling con cui raggirarono addirittura sei giocatori portando la palla in area di rigore. Assistetti a una rovesciata in aria che invidiai un sacco. Da quel momento era un appuntamento fisso. Ogni volta che giovava la squadra che tifavano entrambi i miei genitori mi accomodavo davanti alla tv. Non schiodavo lo sguardo per tutta la durata della partita, bramoso di assistere a ogni azione. Tuttavia negli ultimi tempi mi ero fissato con l'idea di voler assistere di persona a una partita in particolare del campionato.

«Papà, una volta mi porterai allo stadio?» trovai il coraggio di chiedere una volta. Mio padre era seduto sul divano, le gambe accavallate intento a leggere il giornale. Anche a casa non perdeva il suo aspetto austero, eppure trovava sempre qualche momento per stare con me.

«Certo Lu. Quando vuoi» rispose distrattamente girando la pagina. Ancora non sapevo leggere tanto bene, per cui non capivo molte cose che c'erano sopra, però papà mi sembrava interessato. Mi dispiacqui di averlo distratto, per cui mi sbrigai a terminare il discorso.

«Per il derby?» domandai speranzoso.

«Mhm mhm» rispose lui non staccando gli occhi dalla pagina.

«Yuppiiii!»

Lasciai il pallone e mi gettai sopra papà, che alzò d'istinto le braccia per non farmi rompere il giornale, avvolgendo il suo addome con le braccia.

«Grazie papà!»

Lui mi poggiò una mano sulla schiena.

«Va bene, ma non fare troppa pressione».

Mi staccai ancora su giri.

«Così potrò finalmente mandare a fanc...»cominciai a dire ma mio padre mi fermò con il suo sguardo serio.

«Le parole Luca» mi ammonì al che sbuffai.

«Il papà di Ippolito ne dice un sacco» ribattei mettendo su il broncio. Ci tenevo tanto a insultare la squadra avversaria, era il bello del derby.

«Il patrigno di Ippolito è nato in una condizione famigliare di bassa lega. Devi capire Luca che nella nostra famiglia non sono ammessi certi epiteti».

Feci una smorfia. Non era colpa di Ippolito che non aveva mai conosciuto il suo padre biologico, che, secondo ciò che gli aveva raccontato sua madre, non aveva voluto riconoscerlo. Quando l'avevo scoperto l'avevo odiato nel profondo. Come aveva potuto voler abbandonare la sua famiglia? Non riuscivo a immaginare una vita senza i miei genitori. Sua madre, per fortuna, era fantastica e preparava dei biscotti favolosi.

Quanto al suo nuovo papà era in gamba anche se in effetti diceva un sacco di parolacce. Ogni tanto portava Ippolito, me e Agnese sul boschetto poco sopra il quartiere dove abitavamo, a raccogliere castagne, non commestibili ma comunque divertente, e provava a insegnarci a riconoscere le piante e alberi che incontravamo. Era cresciuto in campagna e aveva una conoscenza vastissima sulla flora territoriale.

«Va bene papà. Quindi mi porterai davvero allo stadio?»

Lui con un sospiro si alzò dal divano e piegò il giornale.
«Vado a comprare i biglietti, sperando che ce ne siano ancora».

In preda alla felicità saltellai per la stanza euforico.

Per fortuna trovò i biglietti e quando arrivò il giorno tanto atteso indossai la maglia della squadra che mia madre mi aveva comprato. Mi faceva sentire come un calciatore professionista e mi fece salire ancor di più l'entusiasmo.

Trovai mio padre ad attendermi vestito come al solito in completo e camicia su un paio di scarpe eleganti, un abbigliamento che stonava con l'ambiente dello stadio ma su cui sorvolai. Ero davvero entusiasta di poter passare del tempo con lui.

«Hai preso lo zainetto?» domandò guardando poi con fare impaziente l'orologio.

Annuì con soddisfazione. Mi ero portato solo una bottiglietta d'acqua, un pacchetto di cracker da mangiare durante l'intervallo, fazzoletti di carta e un quadernino colorato con penna. Si giocava la sera, speravo davvero di non addormentarmi durante la partita.

Lo sentì borbottare a proposito del parcheggio che sperava di trovare abbastanza vicino alla nostra meta.

Lo seguì diligentemente fino alla macchina. E infine partimmo. Durante il tragitto chiesi a mio padre se potessi mettere delle canzoni di cartoni animati, e lui di tutta risposta mise il canale radio con musiche per adulti. Che noia!

Quando vidi in lontananza lo stadio ulai di gioia. Finalmente uno dei miei sogni si stava per realizzare.

Attorno a noi vidi diversi tifosi, la maggior parte era come me che indossava la maglia ufficiale della squadra, altri erano in semplice felpa, tutti diversi da papà che rimaneva l'unico vestito elegante.

Lo seguì diligentemente verso i nostri posti e non appena fui seduto infilai nello zainetto il mio orsetto per paura di perderlo, e lo strinsi al petto.

Poi i tifosi, gli ultras come li aveva chiamati mio padre, cominciarono la loro coreografia fatta di cori e bandiere, in attesa dell'inizio. Di aspettative e la speranza che la propria squadra vincesse per il dominio della città della lanterna. In molte città il derby era vissuto ma non così tanto come da noi, a volte sembrava quasi trasformarsi una questione personale.

Non conoscevo le parole ma mi ritrovai a canticchiare il motivetto seppur in modo abbastanza stonato.

Non aspettammo molto l'inizio della partita. All'entrata delle due squadre, l'una che teneva per mano un bambino con la maglia della suadra opposta (accidenti! Quanto mi sarebbe piaciuto esserci io lì malgrado avrei dovuto avere a che fare con il nemico) fu accompagnata da cori e da qualche fischio, rivolti ai propri avversari.

Si, il derby era senza dubbio la partita migliore del campionato.

L'arbitro fischiò e si diede il via alla competizione.

Nel primo tempo la partita si dimostrò equilibrata, ci furono solo poche azioni degne di nota da entrambe le squadre. Non sembravano ancora abbastanza accese da quell'incontro, di solito a fine partita c'era un bilancio abbastanza alto di ammoniti e talvolta qualche espulso.

Nel secondo tempo durante i cambi fecero finalmente il loro ingresso i due giocatori più bravi in campo di quell'anno. La squadra avversaria poteva fare affidamento a Juri Marković, di origine serbe e adottato dalla squadra fin da quando era ragazzino e promosso dalla primavera. La nostra invece aveva il migliore in assoluto, ossia Marco Canepa. Era originario della nostra città ed era cresciuto in uno dei quartieri da sempre considerato difficile da gestire e aveva iniziato a giocare a calcio tardivamente ma dimostrando fin da subito il suo talento innegabile, e lo si poteva riconoscere anche da lontano per via della bandana rosso fuoco che indossava per tenersi all'indietro i capelli. Non riuscivo davvero a immaginarmelo senza, era il suo tratto distintivo che lo rendeva semplice da identificare in campo.

I due big stavano per scontrarsi ed ero lì ad assistere.
Come quando assistevo alle partite in diretta tenni lo sguardo incollato ai giocatori, seppur a quella distanza somigliavano all'unica cosa che ero in grado di disegnare, ossia gli omini stilizzati, per non perdere alcuna azione.

La squadra avversaria era passata in un contropiede abbastanza pericoloso, tanto da farmi salire la preoccupazione.

Strinsi ancora di più al petto lo zainetto. Era Juri ad aver preso l'iniziativa, ma per fortuna fu tallonato fin da subito da Marco.

Juri provò con il suo dribbling, la sua arma con cui sbaragliava e destabilizzava gli avversari, ma l'altro gli rimase con il fiato sul collo.

Provò con una finta a sinistra ma Marco era pronto. Bloccò l'azione e riuscì a recuperare pallone e riprendere così in mano la partita. Tuttavia la difesa avversaria era un osso duro, e lasciava ben pochi spazi. Ma Marco era il migliore, riusciva a uscire da qualsiasi situazione difficile.
Come in quel momento, accerchiato dalla difesa avversaria non si perse d'animo e con un tunnel riuscì a spiazzare l'avversario che aveva di fronte e ripartire con l'azione.
La sua specialità era il tiro al volo, tuttavia aveva bisogno di una situazione assai particolare per metterlo in atto.
Per questo passò al suo compagno di squadra Andrea Carisi, il suo abituale partner di gol strepitosi.

Stava per realizzarsi uno dei miei più grandi desideri!

Marco stoppò di petto la palla ricevuta dal compagno, la fece rimbalzare e si preparò a calciarla.
Tuttavia qualcosa andò storto. Si sbilanciò di fianco e perse il momento, ed ecco che comparve all'improvviso un giocatore avversario che riuscì a recuperare il pallone, ma per fortuna fu bloccato dalla nostra difesa.

Cos'era successo?
Era impensabile che potesse aver perso un'occasione simile!
Inacettabile!

«Forza Marco!» urlai con tutto l'entusiasmo di cui disponevo. Ero consapevole che fosse impossibile che mi sentisse, eppure sembrò funzionare.

Marco si riprese da quel momento di debolezza e tornò alla carica. Si lanciò in difesa per poter bloccare sopratutto Juri, in quel momento pericolosissimo dopo essere tornato in possesso palla.

Marco si lanciò contro l'avversario che vidi vacillare, come se fosse indeciso se avvanzare. Quel tentennamento permise a Marco di prendere nuovamente possesso palla e ripartire. Quella era senza dubbio l'azione più lunga della partita. Marco superò nuovamente gli avversari e stavolta decise di fare da sé. Si portò la palla a portata del suo raggio di tiro e dopo aver messo a punto un controllo pressochè perfetto per alzarsela, la calciò con tutta la sua potenza ed eleganza.
E la palla finì esattamente all'incrocio dei pali, imprendibile per il portiere che rimase fermo al suo posto, shockato per la potenza di quel tiro.

Lo stadio sembrò esplodere per le ovazioni e la gioia dei tifosi. Anch'io salì in piedi sulla sedia, e agitai le braccia in aria.

«Papà hai visto? Hai visto che lancio fantastico? Abbiamo vinto!»
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Mio padre annuì brevemente come a farmi solo un piacere. Su di giri mi risedetti e tornai a concentrarmi sulla partita.
Mancavano solo i pochi minuti di recupero, non si erano scontrati come il solito, ma se tutto fosse andato come sperato il derby sarebbe stato nostro, dopo il pareggio dell'andata.

Arrivò finalmente il fischio di fine e sentì tutta la felicità esplodere tutta assieme in un urlo.

«Siamo i migliori! Capito i migliori! Brutti str...»

«Le parole Luca» mi ammonì mio padre.

Mi risedetti a braccia conserte, dondolando i piedi, visto che il sedile era ancora troppo alto.

«Uffaaaaa» mi lamentai, suscitando una risata al tizio seduto di fianco.

«Un tifoso già preso bene. Da grande sono certo che diventerai un fantastico ultrà» commentò questo con un sorriso.

Non sapevo cosa volesse effettivamente essere un ultrà ma se fosse stato fondamentale per il sostegno alla mia squadra del cuore lo sarei diventato anche in quel momento.

«Ma speriamo di no» sentì il commento di mio padre, prima che si alzasse. «Aspettiamo che defluisca un po' di gente e poi andiamo. Domani devo essere in ufficio presto».

Scesi dal sedile ubbidiente e mi rimisi lo zainetto sulle spalle. Avevo solo mangiato un pacchetto di cracker e bevuto metà bottiglietta d'acqua, evento eccezionale che me l'avessero fatta portare dentro dato che di solito venivano sequestrate all'ingresso (forse avevo fatto tenerezza in quanto ancora bambino).

«Forza, andiamo. Cerca di starmi vicino».

Mio padre si unì alla fila per scendere e che conduceva all'uscita. Cercai di stargli dietro, tuttavia bastò poco per perderlo di vista, in mezzo a tutta quella gente altissima e ingombrata dalle bandiere e striscioni. Mio padre era alto, da grande speravo comunque di superarlo, ma chi mi circondava lo era ancora di più.

Mi ritrovai a fine scala in una zona più ampia, e come un forsennato mi guardai attorno alla sua ricerca, inutilmente. Era come se si fosse volatilizzato nel nulla.

Sentì crescere l'impellente bisogno di piangere. E se mi avesse abbandonato lì? Come avrei fatto a tornare a casa da mamma?

«Che cos'è successo in campo?»

Era stata una frase ringhiata e non pronunciata a voce così alta, eppure la sentì comunque.

Mi voltai improvvisamente incuriosito e vidi che apparteneva a un ragazzo che teneva un altro per il bavero della maglietta.

Erano due ragazzi appartenenti a tifoserie di squadre avversarie.

Quello della mia squadra preferita era molto alto, quasi quanto mio padre e aveva un aspetto ordinario, se non fosse stato per il sorrisetto divertito sul volto che lo rendeva furbo. Il rivale sembrava più giovane di pochi anni e mi ricordava tanto il sole annebbiato. Tutto un lui aveva colori tenui, a partire dai capelli biondo paglierino, e gli occhi azzurri chiari. E aveva tutta l'aria di voler strozzare l'altro.

«Non so a cosa stia alludendo».

«Non raccontarmi stronzate. Quando hai avuto quell'occasione di gol e hai sbagliato».

«Può capitare» minimizzò l'altro facendo spallucce.
Dunque erano giocatori.

«Per quanto detesti ammetterlo, ogni volta che sei a portata di gol non sbagli mai». Strinse ancora di più la presa. «Sputa subito il rospo, Glupo*».

L'altro prese in mano la situazione afferrando con la mano il mento del ragazzo di fronte costringendolo a fissarlo, con un sorriso sornione
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«Quindi eri in pensiero per me».

Il biondo strinse le labbra contrariato.
«Ti si nemoguć!**».

«Non è forse quello che ti piace di me? E poi sai che ho un debole per te quando mi insulti nella tua lingua madre».

L'altro boffonchiò qualcosa a bassa voce, per poi essere interrotto dal suo interlocutore.

«E questo bambino?» domandò, incuriosito.

Si erano voltati nella mia direzione e per questo arrossì.
«Cosa ci fai qui piccolo?» mi domandò il primo, sorridendo dolcemente, liberando l'altro, avvicinandosi con fare cordiale.

«Ho perso papà» risposi con le lacrime agli occhi, stringendo un lembo di maglietta.

«Sai descriverci com'è fatto?»

«Boh. È papà. È alto, biondo, vestito normale» cercai di spiegarmi, ma il biondo alzò gli occhi al cielo.

«Come se al mondo ci fosse poca gente con queste caratteristiche» commentò sarcastico.

«Lascialo perdere. Gli girano troppo le scatole perchè ha perso il derby».

L'altro emise un sospiro, incrociando le braccia e volgendo lo sguardo altrove.

«È un po' burbero ma è una gran brava persona» mi spiegò il castano con un sorriso.

«Perchè fate così? Non siete nemici?»

«Sul campo siamo avversari ma non è detto che al di fuori dobbiamo esserlo a sua volta» spiegò praticamente. «Vieni, andiamo a cercare tuo padre» dichiarò poi porgendomi la mano che afferrai. Era davvero molto gentile. «Quanti anni hai, piccolo? Se posso chiedertelo».

«Sette. E non sono piccolo» risposi gonfiando il petto. Ero grande...ma non abbanstanza da stare senza papà.

Il ragazzo rise mentre l'altro mi fissava con gratitudine, solo in futuro compresi il motivo. Stavo distogliendo l'attenzione dell'altro e lui poteva tentare la fuga.

Tuttavia fu inutile. Il castano ci prese entrambi per mano.
«Vieni Juri. Dobbiamo aiutare il nostro nuovo amico a ritrovare la sua famiglia».

Il biondo mormorò qualcosa e mi ricordò il registro lessicale poco elegante del papà di Ippolito.

L'altro non gli diede peso e ci trascinò verso il caos di gente, era impossibile trovare mio padre. Strinsi ancora di più la mano del giocatore, che mi sorrise nuovamente.

«Stai tranquillo. Lo troveremo. Nel caso possiamo sempre adottarti noi».

Il biondo, Juri, fece una faccia come se l'avessero appena investito con un trattore, al che l'altro scoppiò a ridere.
«Scherzavo. Anche se avrebbe una sua logica». E gli rivolse uno sguardo d'intesa. Gli adulti erano davvero troppo strani, speravo di non diventare altrettanto.

Ci facemmo largo tra i presenti, altri giocatori che entravano e uscivano dallo spogliatoio, i membri dello staff della squadra. Li osservavo tutti con interesse, e riconobbi alcuni volti. Erano tutti giocatori professionisti e mi sentì al settimo cielo. Anche chi mi stava accompagnando lo era e lo stavo metabolizzando solo in quel momento, ero sempre stato lento a interiorizzare e comprendere ciò che mi stava attorno.

Mi condussero verso l'uscita. E infine vidi la figura di mio padre di schiena che si osservava attorno.

«Ecco papà!» esclamai, trascinandomi dietro i due giocatori, uno divertito, l'altro imperscrutabile.

«Papààà!» urlai cercando di farmi sentire.

Mio padre si voltò e non lo trovai preoccupato come mi aspettassi. Ma non m'importò. L'unica cosa importante era che l'avevo ritrovato.

Poi spostò la sua attenzione verso i due giocatori che mi avevano accompagnato.

«Ma voi siete...Juri Marković e Marco Canepa?»

Mi bloccai di colpo e riportai lo sguardo prima su uno e poi sull'altro.

Capelli castani, alias Marco, ridacchiò.

«Non essere così sorpreso, piccoletto. Non dirmi che non ci avevi riconosciuto».

«Ma...ma tu sei il mio calciatore preferito!» ribattei in direzione di Marco, non credendo ai miei occhi. Ero stato con il mio idolo per tutto quel tempo e non me n'ero accorto. In mia difesa dovevo dire che giovava con una fascia ai capelli in modo da tenere il ciuffo di capelli castani all'indietro in modo da avere maggior visuale durante il gioco e sembrava un'altra persona, e l'altro non lo conoscevo bene di volto ma solo per nome appartenendo alla squadra avversaria.

Juri roteò gli occhi incrociando le braccia al petto.

Marco mi scompigliò i capelli dolcemente.
«Suo figlio si era perso e abbiamo ipotizzato che fosse venuto qui» disse rivolto a mio padre che annuì sbrigativo, prima di avvicinarsi per prendermi per mano. «Andiamo Luca».

«Aspetta papà!»

Tirai fuori il blocchetto con la penna e lo porsi al mio idolo.
«Puoi farmi un autografo?»

Marco sorrise e si fece passare il tutto.
«Potrebbe farlo anche Juri?» domandò prendendo l'altro a braccetto, dopo un suo tentativo di fuga, dopo aver apposto la firma sul foglio bianco.

Notando il mio tentennamento aggiunse: «È una persona...molto importante per me e ci terrei che fosse al mio fianco anche qui» spiegò poggiando il dito sulla superficie bianca.

Fidandomi di Marco passai il blocchetto anche a Juri, seppure i colori della sua maglia non mi piacessero, e quest'ultimo scarabocchiò la sua firma incomprensibile.

«Aspetta ancora un attimo piccoletto» dichiarò prima di allontanarsi per parlare con un inserviente che spingeva una cesta piena di palloni, lasciando me su di giri, mio padre impaziente di andare e Juri con in volto tutta la voglia di non essere lì.

Marco tornò poco dopo con un pallone in cuoio bianco e blu su cui scarabocchiò, con un pennarello nero che si era fatto passare, la sua firma.

Dopo aver richiuso il pennarello e passato con un lancio pulito ed elegante a Juri, fece due controlli prima di passarmela. Con soddisfazione riuscì a bloccarla al volo prima che mi finisse in faccia, non volevo aggiungere l'ennesimo cerotto, derivanti dalle mie cadute dagli alberi e muretti dove ero solito arrampicarmi.

La strinsi al petto, provando una gioia inimmaginabile.
Era perfetto, in tutti i sensi!

«È stato un piacere conoscerti piccoletto. Ora dovremo andare. Le nostre squadre si chiederanno dove siamo finiti. E sono più che certo che penseranno subito che abbia sequestraro Juri» mi salutò gioviale prima di voltarsi e recuperare l'altro che lo sentì borbottare qualcosa tipo: «Che poi non sarebbe poi così lontano dalla verità».

Li vidi allontanarsi, tuttavia dovevo dare voce a ciò che mi aveva invaso la mente ormai da tempo ma che grazie a lui si stava cristallizzando in una certezza.

«Un giorno diventerò un calciatore forte come te!» gli urlai dietro con tutta la determinazione di cui ero capace.
Marco si voltò e mi rivolse un sorriso complice.
«Ci conto, mio piccolo amico» mi salutò.

Quella fu l'ultima partita che giocò. Si venne a sapere che aveva un male al cuore che l'avrebbe tenuto lontano dal campo.

Assistetti davanti alla tv alla sua sua ultima intervista.
«Vorrei ringraziare tutti i miei fans» disse infine. Cercava di sembrare rilassato ma si vedeva che soffriva questo suo allontanamento forzato. Si percepiva dolorosamente che cuore e mente appartenevano al calcio. «In particolare quel bambino che ho conosciuto a fine derby che mi ha rivelato il suo sogno di diventare un calciatore. Non abbandonare i tuoi sogni e diventa la stella che ti meriti di diventare».
E puntò lo sguardo verso la telecamera come se mi fosse davanti fisicamente.

Mi ritrovai a sorridere. Non sarei stato da meno di fronte a quel giuramento.

Convinsi mio padre a iscrivermi a un'associazione calcistica, seppur all'inizio abbastanza dilettantistica. Partecipai anche al torneo Ravano con alcuni miei compagni, ma solo Ippolito decise di seguirmi nella scalata verso la vetta, ossia diventare uno dei giocatori migliori esistiti. Passai poi alla squadra di quartiere ma volevo di più. Sentivo di meritare molto di più.

Attirai l'attenzione di un'altra squadra, di serie D, sempre della mia città e alla loro proposta accettai.
La scalata era appena iniziata.

Mio padre cominciò a manifestare chiaramante la sua approvazione e non potevo che esserne fiero.
«Ricordati Luca. Se non sei il migliore non sei nessuno. Non permettere agli altri di scavalcarti e punta sempre alla vetta. Nella vita così come in campo» mi disse una volta, guardandomi intensamente.

Interiorizzai quelle parole e ne feci tesoro per plasmare il futuro me stesso.

Quanto mi sarei pentito di quella scelta.

Marco Canepa da giocatore che avevo conosciuto, dopo le cure andate a buon fine decise di diventare allenatore e dopo anni riuscì a tornare nella sua squadra, colei che l'aveva scoperto e portato alla grandezza. Era stato in mezzo a un polverone mediatico dopo che aveva rivelato la sua relazione con Juri Marković in un clima come il mondo calcistico misogino e omofobo, ma la sua bravura era tale che la società aveva insistito comunque a volerlo dei suoi.

Lo rividi di persona, anni dopo il nostro primo incontro, quando venne ad assistere a una delle nostre prestazioni di serie D e il mio cuore era quasi scoppiato fuori dal petto.
Avevo dato il meglio di me, trasformandomi in campo in un demonio. Ero diventato inarrestabile, potente, invincibile.

Avevo sentito per tutto il tempo il suo sguardo puntato contro e non potevo che esserne contento.

A fine partita il coach mi convocò e quasi mi strozzai con la mia stessa saliva quando me lo ritrovai davanti.

Rimasi imbambolato finché lui non si aprì in un lento sorriso.
«E così ci rivediamo...piccoletto» mi salutò.

«Voi...voi vi ricordate di me?»

Il mio allenatore altalenava lo sguardo da me a Canepa come stesse assistendo a una partita di ping-pong.

Marco continuò a sorridere. «Come non ricordarti? Mi sei sembrato con un bel caratterino e non mi ero sbagliato. E poi...»Si sporse un poco in avanti, poggiandosi con i gomiti al tavolo. «Mi avevi fatto una promessa, e vedo che l'hai mantenuta».

Lo fissai stordito. Marco Canepa mi stava lodando e sembrava fiero di me. Sentì crescermi dentro un'intima soddisfazione.

Mi ricomposi sollevando le spalle e sorridendo soddisfatto.
«Vi ringrazio». Volevo cercare di sembrare umile ma dentro sapevo che anche lui aveva riconosciuto la mia bravura. Anni di fatica ad allenarmi per diventare sempre più forte, anni di sacrifici saltando feste e momenti con gli amici, distinguendomi così dalle persone comuni, finalmente avevano dato i suoi frutti.

Marco inclino la testa soppesandomi. «Hai anche acquisito una spavalderia che potrebbe essere favorevole oppure la tua peggiore nemica. Vorrei proprio vedere dove ti condurrà».

Feci per rispondere quando la porta della stanza si aprì ed emerse Ippolito. Cosa ci faceva lì?

Senza dubbio se lo stava chiedendo pure lui e la sorpresa si trasformò in smarrimento quando vide Marco, dopo averlo riconosciuto. Per quanto volessi bene a Ippolito come a un fratello non era quello il suo posto.
Ero io quello destinato a brillare più del Sole.

«Mi avete convocato coach?» domandò lui al che sgranai gli occhi.

Cosa stava succedendo?

«Vi spiego ragazzi. Il signor Canepa mi ha chiesto di convocare i miei giocatori migliori».

Potevo capire il sottoscritto, insomma ero indubbiamente il migliore ma...Ippolito? Seriamente? L'aveva davvero messo al mio stesso livello?

Mi sentì tradito da questa scelta, pensavo avesse capito fin da subito chi sarebbe diventato il migliore e chi sarebbe rimasto, come massimo, l'eterno secondo.

Ero in parte confuso e in parte incazzato, solo la figura di Marco Canepa rendeva quel momento decente.

«Lasciatemi aggiungere dettagli di questo incontro. Rappresento la squadra calcistica che alleno e la squadra ha bisogno di un attaccante di punta, uno che possa spronare e diventarne il suo centro. Ho assistito alle vostre prestazioni e ne sono rimasto davvero affascinato. Fosse per me prenderei entrambi, vista la sinergia che avete nel gioco ma la società ha posto per solo uno di voi».

Mi sentivo su di giri. Solo uno di noi avrebbe raggiunto la gloria. Il sogno della serie A era a un palmo dalla mia mano, eppure tra me e il mio obiettivo c'era Ippolito.
Mi voltai lentamente verso di lui, e di fronte ai miei occhi non vidi più il mio migliore amico, quello con cui avevo condiviso merende all'asilo e elementari e il banco alle medie e superiori.
Di fronte a me vedevo solo un ostacolo, che avrei fatto di tutto per superarlo.

Finalmente anche lui si voltò nella mia direzione e inaspettatamente lessi la stessa bramosia che mi incendiava dentro.
Mi lasciai divorare l'anima dalla sete di vittoria e invincibilità che avrei provato una volta raggiunto l'obbiettivo.
Dunque era guerra.

Mi riscossi dai miei pensieri. Il pallone di quel giorno era lì in bella mostra sulla mensola, che mi narrava di tempi ormai perduti.

Sentì bussare alla porta, facendomi sussultare per la sorpresa. Non feci in tempo a rispondere che il volto di mia madre fece capolino.

«Volevo dirti che è quasi pronta la cena».

Cercava di non fissarmi direttamente in volto, abitudine che aveva acquisito dopo l'incidente.
«Mamma».

Lei sussultò e incrociò il mio sguardo.
«Grazie» dissi solamente. Una semplice parola con però una moltitudine di significati.
Lei continuò a osservarmi, forse chiedendosi se un ultracorpo non avesse sostituito suo figlio. E come biasimarla!
Negli ultimi periodi ero stato un pessimo figlio. Le avevo scaricato addosso tutta la mia rabbia e frustrazione e lei aveva sopportato tutto.
Fosse stato per me mi sarei mandato a quel paese fin dall'inizio, e invece lei aveva continuato a starmi vicino, a sostenermi a differenza di mio padre, nonostante tutto.

Stirai le labbra in un sorriso a cui lei rispose con sollievo.
Uscì poi la stanza, lasciandomi con il cuore più alleggerito.

* tradotto dal serbo: stupido
** tradotto dal serbo: Sei impossibile!

Angolino autrice:

Buonsalve, finalmente sono riuscita a pubblicare il nuovo capitolo, un po' più lungo del solito ma mi dispiaceva dividerlo (yuppi! :D)
Per la parte derby mi sono sentita ispirata dalla partita di Coppa Italia appena passata tra la mia squadra del cuore e quella avversaria (primo derby nel giro di due anni a cui ho potuto assistere 🤣) 🙈

Sto riuscendo a scrivere poco in questo periodo, ma sto tenendo duro!

Ringrazio tutti voi che seguite la storia e anche i nuovi lettori <3 mi spronate davvero a dare il massimo e ve ne sono davvero super grata <3

Vi lascio un piccolissimo spoiler che sarà comune dei prossimi capitoli: Gita.

Proprio così, i nostri due disagini andranno in gita scolastica. Dove? Cosa capiterà? Lo scoprirete (speremu) presto!

FreDrachen

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