Capitolo 31

Non appena tornai a casa, ancora con la mente annebbiata, con anche in aggiunta un mal di testa allucinante, trovai mio padre ad attendermi con un'espressione seria sul viso.

«Di tutte cose che potevano capirare, mai mi sarei aspettato una convocazione dal preside».

Prima che potessi aprire bocca lui aggiunse aspramente: «Mi hai profondamente deluso».

«Non è stata colpa mia. Ippolito...»

«Non attaccarti a scuse e abbi almeno la decenza di tacere. Non mi sono mai sentito così in...imbarazzo, tranne che dopo l'incidente».

Quindi mio padre mi disprezzava da quel giorno? Che sciocco a voler empatia da parte sua.

L'osservai, notando che avevo la vista un po' appannata.

Avvertì il contatto della mano di mia madre prima ancora di vedere la sua figura che mi si avvicinava, mandandomi un attimo nel panico. Avevo i sensi distorti e non riuscivo a percepire al massimo ciò che avevo attorno.

«Luca...hai la febbre».

Ah, ecco spiegato il motivo del mio stato d'essere. Mi ci mancava pure questa.
Sentì mia madre mandare papà a comprare forse il paracetamolo per abbassare la febbre. Lo sentì sbuffare, e dopo insistenti tentativi si convinse. Per fortuna avrvamo la farmacia a poca distanza da casa.

Non protestai quando mia madre si posizionò dietro di me e spinse la sedia a rotelle fino in camera mia, e neanche quando mi aiutò a issarmi sul letto. Se non ci fosse stata lei sarei di sicuro finito per terra.

Mi rimboccò le coperte cone quando ero bambino e poggiò la sua mano fredda sulla fronte, alleviandomi un po' il dolore.

«Fa male» mormorai a fatica, le parole che mi si impastavano in gola.

«Va tutto bene Luca. Passerà, come tutto».

Mi lasciai andare alla morbidezza del letto e al canticchiare basso di mia madre di una vecchia canzone che le piaceva tanto.

Finì con il ritrovarmi in uno stato di dormiveglia, rotto dal momento in cui lei mi somministrò il paracetamolo.

E da pensieri, immagini che sembravano appartenere a un altro tempo.

Sapevo di non reggere l'alcool, ma avevo accettato un cocktail uno per non fare la figura dello sfigato astemio, e due per fare uno scherzo a mio padre. Ero ancora arrabbiato con lui, e andare contro le sue volontà mi sembrava l'unico atto di ribellione che potevo permettermi. Per cosa? Non ricordavo.

Sapevo solo che l'etanolo stava cominciando a darmi alla testa. Avvertivo i sensi ampliati e l'ambiente, già colorato da luci stroboscopiche della discoteca, mi sembrava se possibile ancora più caotico. Il martellare della musica assordante mi stava facendo venire mal di testa tanto da costringermi a sedermi e a portarmi le mani sulle orecchie. Quanto desideravo alxarmi e andare a staccare la spina alla console del deejay.

Non appena sentì una mano sottile appoggiarsi sulla mia spalla sussultai, e alzando lo sguardo mi accorsi che si trattava di Agnese.

La sua figura tremolava, come se fosse stata in uno schermo con i pixel impazziti, ma riuscì constatare dal suo sguardo che aveva provato a chiamarmi già da un po'.

«Stai bene? Non hai una bella cera».

Mi sentivo strano, come se la mente fosse scollegata dal corpo.

«Non...non lo so» riuscì a stento a biasciare. Anche parlare mi stava risultando faticosi, proprio a me! Il Re della Parlantina!

Disse qualcos'altro, lo dedussi dal movimento delle sue labbra, ma non capì nulla di quello che aveva pronunciato. Le chiesi, urlando per sovrastare la musica che se possibile si era fatta più assordante, di ripetere e lei aspettò saggiamente la fine della canzone per parlare.

«Non puoi guidare in queste condizioni. Devi chiamare i tuoi che ti vengano a prendere».

«Sono incazzato con mio padre» replicai semplicemente per farle capire che non l'avrei fatto neanche sotto tortura.

Ed era vero. Se l'avessi avuto di fronte l'avrei insultato pesantemente. Peccato che questo pensiero l'avevo fatto troppe volte prima di quel giorno, ma non avevo mai avuto il coraggio di farlo. Chissà, forse l'alcool mi avrebbe dato la sfacciataggine di farmi avanti.

«Metti da parte l'orgoglio. Ti preferisco sano e salvo piuttosto che contro un albero o peggio».

«Sei...una disfattista. Mi piace come si pronuncia questa parola, come arrotondi le lettere con la lingua». Si, forse stavo un tantino delirando.

La vidi alzare gli occhi al cielo. «Devo chiedere al barista cosa contenenva quel cocktail. Ti rende più strano di quello che sei».

Di tutta risposta mi sbilanciai verso di lei in modo da poter poggiare le labbra sul suo collo.

«Sei crudele Agne. Pensavo che ti piacesse questo lato di me» sussurrai solleticandole la pelle con il mio respiro, la mano destra poggiata sulla sua schiena per poter tenere il suo corpo a contatto con il mio, più caldo del normale.

La sentì irrigidirsi al che mi allontanai, cercando il suo sguardo, cosa non facile perché cominciavo a vedere tutto appannato. Si, forse era davvero il caso di fare la chiamata a casa.

Lei evitava il contatto visivo, come ormai accadeva da qualche mese, fatto che ci aveva allontanati. Stavamo ancora ufficialmente insieme, ma in verità non sapevo come si fosse e come si sarebbe evoluto il nostro rapporto.

Mi alzai, o meglio cercai di farlo ma subito mi ritrovai senza equilibrio, rischiando di cascare di faccia per terra e infine calpestato dai ragazzi che avevano ripreso a ballare con il ritorno della musica. Che fine orribile.

Agnese mi prese a braccetto e a stento riuscì a farsi largo tra la gente, senza farsi travolgere e senza farmi cadere. Pur essendo piccolina e gracile possedeva una grandissima forza di volontà. Di forza fisica purtroppo no, ma ehi, mica era colpa sua! Di Ippolito non c'era traccia, era da un po' che non lo vedevo. Ricordavo solo che si era allontanato per andare in bagno, o una cosa simile.

Durante il tragitto sentì di sfuggita una voce distaccarsi dal brusio alto degli altri presenti, che si lamentava dell'assenza delle chiavi della sua macchina. O almeno, credevo di aver sentito bene. La mente mi stava giocando brutti scherzi, visto che le luci sembravano parlarmi.

Non appena aprì la porta del locale fui subito assalito dall'aria frescolina notturna, tipica di fine agosto.

«Puoi tornare dentro Agne. Mi fermerò qui a chiamare. Cercherò di mandarti un messaggio quando verranno a prendermi» le promisi scoccandole un fugace bacio sulla fronte.

Lei annuì e sorrise, o meglio credo dato che anche l'aria fresca non mi aveva rinfrescato la mente, e rientrò lasciandomi da solo.

Mi appoggiai con la schiena contro il muro, sperando di non cadere in avanti, e con le mani intorpidite e dalle dita semi bloccate riuscì a stento a recuperare il cellulare.

Sempre con estrema difficoltà scorsi la rubrica alla ricerca del numero di mia madre. Preferivo lei che ascoltare quella irritante di mio padre.

Non appena riuscì nel mio intento, la procedura mi portò via svariati minuti, mi portai l'apparecchio all'orecchio constatando che non emetteva segni di vita.

Perfetto! Ci mancava pure che non ci fosse copertura. Ma perché pagavo ogni mese la tariffa se poi funzionava così male? Dovevo assolutamente cambiare l'operatore telefonico.

Mi staccai dal muro e avvanzai a passi lenti in direzione del parcheggio, tenendo sempre il cellulare all'orecchio, sperando di trovare una zona in cui prendesse.

Costeggiai la strada cercando di non sbilanciarmi verso la carreggiata. A quell'ora di solito non c'era nessuno ma preferivo evitare di finire asfaltato.

Finalmente riuscì ad avere un segno dal telefono. Dopo due squilli mi rispose la voce di mia madre preoccupata.

«Luca! Grazie al cielo! Dove sei? Non ti abbiamo trovato in camera tua e ci siamo preoccupati tantissimo!».

Per siamo sapevo che intendeva solo lei, ma trascurai questo dettaglio.

«Sono al Luna Rossa. Al Righi» riuscì a rispondere con difficoltà.

Mia madre se ne accorse subito. «Luca cos'hai? Non avrai per caso bevuto?»

Lei era fatta così. La sua priorità era la mia salute, il mio disobbedire era passato senza troppi preamboli in secondo piano, ma non l'avrei scampata, lo sapevo.

«Solo...un bicchiere» ammisi. «Non mi sento molto bene. Potresti...venire...a prender...mi?»

«Dove sei adesso?»

«Sto...andando verso il parcheggio. Dentro c'era...la musica».

«Prendo le chiavi dell'auto e arrivo subito. Trova un luogo tranquillo. Luca, andrà tutto bene».

E le credetti.

Eccome se lo feci.

Mi ritrovai con gli occhi umidi, felice che mia madre non mi avrebbe abbandonato. Sentì nella sua voce una nota di preoccupazione per cui avvertì il bisogno di rincuorarla. Aprì bocca per farlo quando intravidi la mia ombra allungarsi di fronte a me.

Stava arrivando un'auto alle mie spalle.

Essendo sul bordo non avrebbe dovuto avere problemi a passarmi di fianco, e poi essendo vestito con colori chiari il guidatore poteva vedermi senza correre il rischio di essere investito.

Fu per questo che mi ritrovai senza fiato e impietrito dalla sopresa quando sentì la forza dell'impatto sbalzarmi in avanti, facendomi volare di qualche metro.

Caddi sull'asfalto, rotolando di qualche altro metro, scorticandomi la pelle. Ebbi il tempo di vedere l'auto frenare un poco per poi ridare gas per ripiombarmi addosso.

Aprì gli occhi di scatto sussultando mentre stavo ritornando alla realtà, ancora attontito e sdraiato mollemente sul letto. La mente era ancora annebbiata dalla febbre, eppure il sogno era vivido nella mia mente, lasciando sulla mia pelle una sensazione fastidiosa.

Mi stropicciai gli occhi sicuramente arrossati e cercai a tastoni l'interruttore della lampada da comodino.

Non mi accorsi di avere un ospite seduto sul letto fin quando non ebbi acceso la luce.

«Akira?» mormorai sussultando per la sorpresa, facendolo sorridere mentre bloccava lo schermo del telefono.

«Sopreso Luca-chan? Non potevo non venirti a trovare».

«Ma così ti attaccherò la febbre».

«Tranquillo. Non me la puoi afferrare dato che non è febbre dovuta a un'influenza di natura virale, ma da una risposta del tuo organismo».

Mi portai le coperte di fronte alla faccia lasciando fuori solo gli occhi. «Ma devi proprio parlare come un libro?» mormorai facendolo ridacchiare.

«Sai che ho una mente scientifica» ribattè per poi allungare una mano verso il comodino per recuperare quello che a una seconda occhiata riconobbi come un bicchiere.

«Ti ho portato un bicchiere per assumere di nuovo il paracetamolo. Me li ha dati tua madre».

Mi tirai su e recuperai il bicchiere che mi stava porgendo.

«Il paracetamolo, o acetaminofene, è una molevola con attività antipiretica e analgesica il cui uso è sicuro. Tuttavia se si asdume a dosi elevate e per periodi prolungati può creare gravi disturbi al frgato oltre che alterazioni gravi al sangue e reni» dissi prendendo la compressa e mandandola giù di botto accompagnandola con l'acqua.

Oddio! Stavo forse diventando un manuale enciclopedico?

«Wow! Ne sai di cose Luca».

A quelle parole per l'imbarazzo mi tirai nuovamente su la coperta in modo da coprirmici.

«È colpa tua. Mi stai trasformando  un nerd» piagnucolai. Certo che con la febbrei trasformavo in un essere patetico.

Akira ridacchiò e si stese al mio fianco.
«Sai che ti stai comportando in modo adorabile».

«Non mi piace. Voglio tornare tosto» bofonchiai.

«E lo diventerai se sai essere paziente».

Rimanemmo in silenzio per un attimo. «Ho voglia di un bacio» dissi, desideroso di un suo contatto più intimo.

Lui acconsentì sfiorando le mie labbra secche prima di passare al bacio autentico, la testa tenuta ferma dalle sue mani fredde, eppure piene del suo calore.

In quel momento ripensai alle analogie di quando era stato Akira a stare male, solo che a differenza sua non stavamo ancora insieme e per questo non ero riuscito a stargli vicino come desideravo.
Quel giorno lui si era aperto a me raccontandomi di sua madre, adesso quello che voleva dare luce ai suoi ricordi era il sottoscritto.

«Ho sognato» dissi non appena lui si allontanò un poco per permettere a entrambi di prendere fiato.

«Spero che fosse un bel sogno» rispose, strofinando il suo naso con il mio, sorridendo un poco.

Scossi la testa. «Più che un sogno mi sembravano...ricordi».

«Hai voglia di raccontare?» disse, facendosi serio, stendendosi vicino, facendo passare il braccio sotto al mio collo.

Ormai da tempo avevo capito che tenersi tutto dentro non mi avrebbe fatto bene. Per questo raccontai tutto quello che ricordavo.

Akira rimase pensoso, lo sguardo fisso sul soffitto.

«Quindi stai pensando che non si tratti di un incidente?»

«È tutto troppo orchestrato per essere solo una coincidenza. Il cocktail, l'auto che mi centra in pieno».

Mi sentivo un complottista. Magari quel cocktail corretto con chissà che sostanza stupefacente era solo la specialità della casa l'automobilosta aveva avuto un malore o chissà cosa.

Mi portai un braccio sugli occhi con fare seccato. «È frustrante non riuscire a ricordare».

«Stai cominciando. Sono certo che ci riuscirai».

«Non siamo in un film. Non è che i ricordi torneranno così di botto».

«Forse non subito ma poco a poco la tua mente riuscirà a rielaborate ciò che è successo».

Mi accoccolai contro il suo petto. Sentì la sua mano passarmi tra i capelli in un gesto di conforto.

«Ho paura di ricordare» ammisi. «Cioè da un lato mi rincuorerebbe perchè ciò che è successo non è del tutto colpa mia ma da un lato ho un certo timore».

Akira di tutta risposta continuò a giocherellare con i miei capelli.

«Non pensarci Luca-chan. Dai tempo al tempo».

«Sei troppo saggio» brontolai, al che sentì il suo petto vibrare mentre lo sentivo ridere.

Forse doveva importarmi nulla, lasciare all'oblio ciò che era successo, perchè se non avessi avuto l'incidente molto probabilmente non avrei conosciuto Akira. O meglio, di sicuro, non mi sarebbe importato nulla di lui. Mi strinsi ancora di più a lui, serrando gli occhi, con la paura che se li avessi aperti l'avrei perso.

Dovetti essermi addormentato perchè quando aprì gli occhi constatai che dalle righe lasciate dalla taparella non filtrava luce, conferma che ebbi dalla sveglia che segnava l'una di notte.

Tastando il letto lo trovai vuoto e freddo, segno che Akira se n'era andato. In effetti era davvero ora tarda.

Mi tirai su, sentendomi ancora un po' debole ma meglio di qualche ora prima.

Scorsi sul comodino un foglietto spiegazzato con poggiato sopra un Kinder bueno.

Scostai il tanto amato dolcetto per aprire il pezzetto di carta per poterne leggere il contenuto, riconoscendo subito la calligrafia ordinata di Akira.

"Ciao Luca,
Lo so, è un'idea stupida lasciarti un biglietto anzichè un messaggio ma lo trovavo un gesto più...carino. Ti sei addormentato (e hai fatto bene) così beme cbe non me la sono sentito di svegliarti, per questo purtroppo sono dovuto tornare a casa senza salutarti.
Mi raccomando, ogni tanto dammi segni di vita, e se ti fa piacere posso tornare a trovarti *^*
Mi sta finendo lo spazio del foglio (ho scritto troppo grande mannaggia!).
Ti saluto ;)

P.S. Voler ricordare non è sbagliato"

Il messaggio era accompagnato da un buffo omino che sembrava Akira e uno che somigliava al sottoscritto.

Scartai il dolcetto permettendomi uno spuntino notturno. Mi sentì in colpa di aver omesso parte della verità.

Gli avevo presentato il tutto come se fosse la prima volta che sognavo eventi come quelli, ma non era così. Era ormai da quasi un mese che facevano capolino nella mia mente sprazi di quelli che ormai consideravo ricordi, frammenti troppo piccoli per dare loro un significato ma che adesso assumevano nuove prospettive.

Non ero complottista, ero da sempre stato certo che quello che mi era successo non fosse stato un semplice incidente, anche quando fin dall'inizio mi avevano persuaso a pensarci, cercando di farmi relegare nell'oblio ciò che mi era successo.

Era come avevo detto ad Akira, avevo paura ma era un mio diritto conoscere la verità.

Dovevo cercare di ricordare il prima possibile, solo così avrei fatto pace con quello che mi era successo.

E forse anche con me stesso.

Angolino autrice:

Buon anno 🤩

Sono riuscita a pubblicare il nuovo capitolo :3 perché chi pubblica il primo dell'anno pubblica tutto l'anno (scusatemi, è il mio spronarmi a continuare a scrivere con più o meno continuità...lavoro permettendo 😅).
In questo capitolo Luca comincia a ricordare...voi che idee vi siete fatti su quello che gli è successo?

Ringrazio tutti voi che seguite la storia ❤️

FreDrachen

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