Capitolo 7

Scusate se mi intrometto ancora una volta ma mi sembra doveroso mettere un trigger warning, come potete avere capito questo libro non parla solo d'amore, (ci arriveremo...) ma parla di una consapevolezza nel dover conoscere se stessi e affrontare i propri problemi, di qualsiasi tipo.

Questo capitolo si concentrerà molto sul lato umano, sulle sensazioni, angoscia, ansia, e sangue. Lo dico prima in caso qualcuno non possano piacere queste tematiche!
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Il giorno seguente Daniele si trovava in salotto, seduto accanto a suo padre a guardare la Formula 1. Era una domenica come tante altre, segnata da un silenzio opprimente. Suo padre seguiva la gara con lo sguardo fisso sulla TV, mentre sua madre, impegnata a stirare, faceva loro compagnia senza dire una parola. La finestra aperta lasciava entrare i suoni del vicinato: i bambini che giocavano per strada, il cinguettio degli uccellini. Ma tutto sembrava distante, ovattato, come se appartenesse a un'altra realtà. Nessuno dei suoi familiari osava interrompere quella quiete con una parola e ogni secondo che passava in quel silenzio asfissiante, gravava sul petto di Daniele come un macigno.

Per Daniele quella situazione era straziante. Sentiva che i suoi genitori, pur essendo fisicamente presenti, era lontani anni luce da lui. Era come se un muro invisibile li separasse, rendendo ogni tentativo di comunicazione un fallimento inevitabile. Provava a creare un legame, ma falliva ogni volta e con ogni fallimento cresceva in lui la sensazione di essere solo, completamente solo.
Navigava senza scopo sul suo cellulare, passando da un'applicazione all'altra senza che nulla riuscisse a catturare veramente la sua attenzione. Alla TV i giri di pista erano ormai una trentina ne mancavano dieci alla fine.
All'improvviso la voce di suo padre ruppe il silenzio, fredda e inattesa come un colpo di pistola in una stanza buia. "Hai vinto ieri?" Chiese, con una curiosità che sembrava forzata, quasi meccanica. Era un evento raro, forse unico. Daniele non ricordava l'ultima volta che suo padre gli avesse rivolto una domanda con un minimo di interesse. Forse non si ricordava neanche l'ultima volta che il genitore gli avesse posto una domanda.

La sera prima era troppo scosso per parlare con i genitori. Dopo la partita aveva preso l'autobus con gli altri, scendendo alla sua fermata come un automa. Era tornato a casa percorrendo la viuzza che ormai conosceva a memoria. Quando aprì la porta fu accolto dal solito silenzio assordante, il segno inequivocabile che i suoi genitori non erano ancora tornati. Si era fatto una doccia cercando di lavare via la stanchezza e la delusione, ma alla fine si era lasciato cadere sul letto, piangendo fino ad addormentarsi. Non si aspettava che suo padre si ricordasse della partita, non credeva neanche che sua madre gli avesse parlato di lui. Era esterrefatto, colto di sorpresa da quel flebile tentativo di interesse.
Daniele distolse lo sguardo dalla TV per guardare suo padre. Spense il cellulare e sospirò leggermente. Poi con voce piatta rispose, tornando subito a concentrarsi sulla gara. "Sì, abbiamo vinto, ma solo a tavolino. Si sono ritirati." Quelle parole gli uscivano dalla bocca come un veleno, ogni sillaba era un colpo al cuore. Dirle ad alta voce era come rivivere l'umiliazione, come guardare il proprio personaggio preferito morire in un film o in una serie TV, senza poter fare nulla per impedirlo.

Per i suoi genitori, vincere in quel modo era un fallimento; la consapevolezza che la vittoria fosse arrivata solo per il ritiro degli avversari rendeva il tutto ancora più amaro. Sentiva gli occhi pizzicare, il cuore battere all'impazzata. Un nodo gli serrava la gola.

"Ah," fu l'unica risposta che diede suo padre, che tornò subito a seguire la gara senza aggiungere altro. Di nuovo quel silenzio assordante che cadde nella stanza, un silenzio così denso da soffocare, da far girare la testa. Sua madre continuava a stirare, senza sollevare lo sguardo, senza mostrare alcun segno di aver udito la conversazione. Gli uccellini avevano smesso di cinguettare, i bambini di schiamazzare. Sembrava che il mondo intero avesse trattenuto il respiro in attesa di qualcosa che non sarebbe mai arrivato.

Suo padre arricciò le labbra mentre le macchine in TV affrontavano gli ultimi giri. Sua madre prese un'altra maglietta e la posò sul banco da lavoro, stirando con movimenti meccanici, ripetitivi. Daniele sentiva crescere dentro di sé un'angoscia insopportabile, un'ansia che gli stringeva il petto come una morsa. Il fallimento, il non sentirsi mai all'altezza, il credere di essere nato per sbaglio da un matrimonio non voluto... Si impossessavano di lui, soffocandolo. Suo padre che gli rispondeva a monosillabi, sua madre che non gli rivolgeva la parola... Ogni dettaglio di quella scena familiare si trasformava in una tortura. La stanza sembrava come se stesse iniziando a girare. Uno strano calore gli tingeva entrambe le guance, stava andando a fuoco.

Non aveva nessuno che gli volesse bene, neppure un parente su cui poter contare. Sua nonna non si era mai fatta vedere perché non sopportava l'idea che la sua unica figlia avesse dato alla luce un ragazzino come lui invece di abortire; se poi aggiungiamo all'equazione che ha dovuto sposare un uomo che non amava per far felice il figlio ingrato... Daniele sentiva un dolore sordo, profondo, che lo consumava dall'interno del petto. Iniziò a staccarsi le pellicine delle mani, una a una, con movimenti quasi rituali, cercando con le unghie di grattare via la pelle finché non vide affiorare il sangue, quell'unico segno tangibile della sua esistenza, dell'essere vivo. Le tempie pulsavano e il dolore diventava sempre più intenso, come se qualcosa cercasse di spaccargli il cranio dall'interno. Ma Daniele non si fermò. Continuava a torturarsi le mani, quasi ipnotizzato dalla vista del sangue che lentamente gocciolava dalle ferite.

Era come se quel dolore fisico fosse l'unico modo per distogliere la mente dal caos che imperversava dentro di lui. Un tentativo disperato di focalizzarsi su qualcosa di concreto, qualcosa che potesse controllare, anche se questo significava infliggersi sofferenza. Daniele si sentiva intrappolato in un vortice di angoscia e disperazione, senza via di fuga. Eppure, in fondo a quel tormento c'era una sorta di perversa consolazione: la certezza di essere ancora capace di provare qualcosa, qualsiasi cosa, anche se si trattava solo di dolore.

Venne riportato alla realtà solo grazie al telecronista che annuncia la vittoria della Red Bull. La Ferrari perse ancora una volta.

Daniele si recò in bagno approfittando di quell'attimo di tregua per allontanarsi dalla situazione che lo stava soffocando. La sensazione di oppressione era diventata insostenibile, come se l'aria stessa fosse diventata densa e tossica. Raggiungere il bagno gli sembrò l'unico modo per sfuggire, anche solo per un momento, a quella morsa invisibile che gli stringeva il petto.

Chiuse la porta dietro di sé e si diresse verso il lavandino. Guardando le sue mani, vide il sangue che ancora gocciolava dalle ferite che si era inflitto poco prima. Il rosso vivo del sangue contrastava con la sua pelle pallida, quasi traslucida. Decise di sciacquarsi le mani, sperando forse di cancellare non solo il sangue, ma anche il dolore che provava dentro di sé. Prese una saponetta e iniziò a strofinare, ma non appena il sapone entrò in contatto con i piccoli tagli, un dolore lancinante gli attraversò le mani. Il bruciore era intenso, quasi insopportabile, ma Daniele non smise. Anzi continuò a strofinare con maggiore forza, come se volesse punirsi per qualcosa di indefinito.

Quando il sangue cominciò a mescolarsi con l'acqua, creando piccoli rivoli rosati che scivolavano via nel lavandino, Daniele sollevò lo sguardo e si guardò allo specchio. Ciò che vide lo colpì profondamente: un volto stanco, segnato, con gli occhi che sembravano vuoti e spenti. Era un'immagine che incarnava tutto il disprezzo che provava per se stesso in quel momento. Il sorriso che affiorò sulle sue labbra era amaro, quasi una smorfia. "Non posso farmi più schifo di così," pensò, e quella consapevolezza lo colpì con la stessa forza del dolore fisico che provava.

Restò così a fissarsi nello specchio per qualche istante. Ogni dettaglio del suo volto sembrava raccontare una storia di sofferenza e disprezzo. Le occhiaie profonde, la pelle opaca, i capelli spettinati... Tutto in lui gridava disperazione. Eppure in quel disprezzo trovò un'inaspettata forma di conforto.

Dopo un'ultima occhiata al suo riflesso, si sciacquò le mani con più delicatezza e si asciugò lentamente. Il dolore era ancora lì, pulsante, ma Daniele sapeva che era solo una parte del peso che portava dentro.

Tornò in camera sua, chiudendo la porta dietro di sé per isolarsi definitivamente dal mondo esterno. Ogni passo sembrava pesare una tonnellata e il letto divenne l'unico rifugio possibile. Si lasciò cadere sul materasso il corpo, affondando tra le coperte. In pochi istanti fu sopraffatto dalla stanchezza, una stanchezza che andava ben oltre il semplice affaticamento fisico. Era come se ogni fibra del suo essere fosse esausta, svuotata.

Nonostante fossero solo le diciassette del pomeriggio, il sonno lo avvolse rapidamente, come una nebbia densa che oscurava ogni pensiero. Non si preoccupò dei compiti per l'indomani, né del fatto che non avesse studiato nulla. Quei pensieri, normalmente fonte di ansia, ora sembravano insignificanti, lontani, come se appartenessero a un'altra vita. Tutto ciò che riusciva a sentire era il bisogno impellente di sprofondare nel sonno, di lasciarsi andare a quell'oblio che prometteva almeno qualche ora di pace.

Ma anche mentre si addormentava, il pensiero di Andrea continuava a tormentarlo. Non poteva fare a meno di sentirsi invaso dalla rabbia e dal rancore. Era stato Andrea a fargli provare quelle sensazioni, a farlo sentire così inutile e sminuito. Quel ragazzo gliel'avrebbe pagata, si ripromise.

Mentre si addormentava, le immagini di Andrea si mescolavano ai suoi sogni, assumendo forme distorte e inquietanti. Daniele sentiva il peso di quella rabbia covare dentro di lui un fuoco che non si spegneva nemmeno nel sonno, che, sebbene profondo, fu tutt'altro che riposante. I pensieri di vendetta e rancore si infiltravano nei suoi sogni, trasformandoli in incubi velati.

Fu notte fonda quando Daniele si svegliò di soprassalto, il cuore ancora martellante nel petto. Senza pensarci troppo, afferrò il cellulare dal comodino e lo accese. Lo schermo illuminò debolmente la stanza, rivelando una serie di notifiche accumulate nel gruppo della comitiva: i suoi amici si lamentavano di non aver ancora deciso dove andare quel sabato sera, nonostante fossimo ancora a Lunedì.

Mentre scorreva pigramente i messaggi, notò la data sul display: primo ottobre. Sbuffò, sentendo il peso del mese appena iniziato. "Minchia che mese di merda se comincia così..." Pensò, passando una mano sul viso per cercare di scacciare la stanchezza e la crescente irritazione.

Ripose il telefono accanto a sé, fissando il soffitto nella penombra. Ottobre non prometteva nulla di buono e il suo umore, già pessimo sembrava destinato a peggiorare. Si girò su un fianco, cercando di riaddormentarsi, con la vaga speranza che il giorno seguente fosse meno pesante di quanto temeva.

***
Daniele è un personaggio complicato, vittima della società odierna... un po' come tutti noi. Ci sono persone, però, che vengono colpite più duramente di altre, che magari non lo danno a vedere e come Daniele sono bravi a nasconderlo. Vi prego però di non sottovalutare le dinamiche delle persone a voi care. Una mano di aiuto serve sempre.

Spero di essere riuscita a trasmettervi un po' dell'inquietudine che lui sta passando in questo momento.

Vi ringrazio delle stelline e dei commenti, alcuni anche fin troppo gentili, non me li merito. Grazie di cuore. 🙏🏼

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