Capitolo 2
Erano le dieci del mattino e Daniele si era già stufato di tutto. Nel pomeriggio avrebbe guardato la gara di Formula Uno con suo padre, sua madre stava preparando il pranzo e lui era costretto a fare i compiti per lunedì. Ma quella mattina la voglia di fare i compiti era inesistente. Si stava vestendo per andare al parchetto della sua città con l'intenzione di fare qualche esercizio di riscaldamento e, se fosse stato fortunato, trovare qualcuno che gli lanciasse qualche pallone per esercitarsi nelle ricezioni.
Purtroppo per Daniele, il caldo afoso di settembre non incoraggiava nessuno a giocare in un parco la domenica mattina, specialmente per fare un favore a lui. Dovette quindi allenarsi da solo. L'unica cosa che usava come riferimento era un ramo di un grosso albero, a un'altezza intermedia, non proprio come una vera rete da pallavolo ma un po' più alta. Si mise a fare qualche alzata. Alcune erano decenti ma altre erano decisamente pessime. Terminò l'allenamento che era già mezzogiorno inoltrato, sudato, accaldato e probabilmente anche puzzolente. Tornato a casa si fece una doccia e si sedette a tavola. Nessuno disse una parola, come al solito. Daniele era immerso nei suoi pensieri riflettendo sulla partita che il coach aveva organizzato per la settimana: un'amichevole, niente di più. Ma lui già sognava la vittoria. Voleva vincere a tutti i costi. Sognava il giorno che qualche sponsor si decidesse a prendere per mano quella squadra sgangherata.
I suoi genitori, nel frattempo, guardavano il telegiornale con un silenzio quasi religioso un'atmosfera che metteva quasi i brividi.
Alle tre del pomeriggio Daniele e suo padre si trovavano sul divano a guardare la gara. Il ragazzo non era un grande esperto di Formula Uno ma era felice di scambiare qualche parola con il suo papà.
"Oggi la Ferrari parte male" disse suo padre cercando di avviare una conversazione.
"Eh, lo so, lo so. Invece la Red Bull è sempre in testa" rispose lui. Seguirono altri scambi di battute. Suo padre si arrabbiò quando una delle Ferrari dovette fermarsi al primo pit stop non capendo il perché di una mossa così precoce. Daniele stava ancora imparando.
"Alla fine è stata una bella gara" commentò Daniele alzandosi per andare in camera sua. La Ferrari, ovviamente, aveva perso. Questi brevi scambi di battute erano le uniche conversazioni che Daniele aveva con suo padre. Tutto il resto era il vuoto assoluto che l'altro genitore gli lasciava.
Sospirando accese il cellulare notando quindici notifiche nel gruppo della comitiva. Chiedevano chi sarebbe uscito sabato sera. Daniele, pensando alla partita che aveva in programma, declinò. Anche i suoi migliori amici rifiutarono per lo stesso motivo.
Girò un po' tra le varie app prima di spegnere definitivamente il cellulare e concedersi un riposino.
L'indomani le interrogazioni di storia andarono molto male ma lui riuscì stranamente a strappare un sei meno. Forse la preghiera a Dio, fatta prima dell'interrogazione, aveva funzionato. Durante la ricreazione si trovarono tutti in cortile per organizzare gli allenamenti del pomeriggio.
"Oggi volevo provare una cosa nuova" disse Gabriele. "Siamo sempre nella stessa squadra. Proviamo a essere in squadre separate, tanto il coach ci farà fare due squadre oggi. Vediamo chi riesce a vincere, che ne dite?" L'idea non suonava affatto male alle orecchie di Daniele. Anzi, così avrebbe potuto osservare i punti deboli dei suoi migliori amici. La campanella suonò e dovettero tornare in classe.
"Ma sei di nuovo tu!" Daniele rimase sorpreso nel vedere lo stesso ragazzo, rannicchiato accanto alla panchina, che lo fissava.
"Scusa, scusami, me ne vado," disse il ragazzo, cercando di andarsene in fretta. Questa volta, però, Daniele lo fermò con un braccio. Lo scorso sabato non era riuscito a riferirlo al coach, adesso non l'avrebbe fermato nessuno.
"Ora andiamo dal coach. Non puoi stare qui non sei autorizzato." sbuffò Daniele, quella storia aveva dell'incredibile.
"No, no, ti prego! Non voglio andare da mio padre, per favore lasciami qui. Non faccio del male a nessuno, per favore," rispose il ragazzo visibilmente agitato. Daniele era sempre più confuso.
"Sei il figlio del coach?" chiese Daniele sedendosi sulla panchina.
"Sì" confermò lui di rimando con un tono secco senza aggiungere altro.
"Okay, ma non puoi stare qui, lo capisci? Va contro le regole, non sei neanche un iscritto. Perché non provi ad allenarti con noi?"
"Non posso, per favore..." balbettò il ragazzo, cercando di voler sapere il nome del suo interlocutore. "Daniele" rispose l'altro. "Sì, ecco, Daniele, per favore lasciami qui. Prima che la palestra chiuda me ne andrò te lo prometto."
"Ma è ridicolo. Scusa, vuoi giocare con noi e tuo padre non te lo permette? Non capisco. Senti ti porto da lui che è meglio. Questa situazione non mi sta piacendo"
"Io... senti, è difficile da spiegare, per fav—"
"Daniele, ti sei perso lì dentro? Muoviti!" gridò un compagno di squadra.
"Facciamo così: uscendo di qui ne parliamo, va bene? Rimango fino alla chiusura se vuoi."
"Io... non sap—"
"Daniele!" adesso lo chiamavano in coro tutti i suoi compagni.
"Che cazzo... va bene, fatti trovare dietro la palestra." Prese lo scatolone delle fascette e uscì dall'infermeria.
"Scusate, scusate" disse appoggiando lo scatolone a terra e iniziando a distribuire le fascette per far sì che le squadre potessero distinguersi. Lui faceva parte dei blu. Amava il blu.
"Daniele, vuoi fare il capitano?" gli chiese il coach. Che onore. "Sì! Grazie!" rispose con un sorriso. La partita iniziò.
Daniele vinse contro i gialli e ne fu molto contento, soprattutto perché si sentiva molto migliorato. Non giocarono al meglio dei tre set come in una partita ufficiale; il tempo non lo permetteva, così si limitarono a un singolo set. Gli allenamenti che faceva da solo stavano dando i loro frutti; e l'estate passata a giocare con i suoi amici finalmente stava portando dei risultati.
Come promesso, Daniele rimase fino alla chiusura. Pensava che il ragazzo dell'infermeria se ne fosse già andato, invece lo trovò ancora lì, dietro la palestra, quando il coach chiuse e si avviò verso la macchina. Si avvicinò senza troppi preamboli.
"Mi vuoi dire perché ti nascondi lì dentro?" Andò dritto al punto, senza nemmeno un "ciao" o "allora, come ti chiami".
Il ragazzo sospirò. "Mi serve un posto dove nascondermi. Non mi va di stare a casa mia e, a essere onesto, non riesco a farmi molti amici a scuola..."
"In che scuola vai?"
"Martinelli." un rinomato istituto, Daniele ne fu sorpreso.
"Oh, fai il classico? Non sembra proprio." Ridacchiò cercando di rompere il ghiaccio. Daniele pensò che quella fu una delle conversazioni più lunghe che ebbe con uno sconosciuto.
"E tu cosa fai?"
"Ragioneria, ma faccio schifo." Era la pura verità.
"In che senso fai schifo?"
"Io... diciamo che studiare non è il mio forte, ecco."
"Sei uno di quelli fissati con la pallavolo, vero? Nella tua testa c'è solo la palla e quelle cazzate lì, giusto?" rise di gusto il ragazzo. Daniele sembrava proprio il tipico fanatico: palla sempre sotto braccio, zaino in spalla e la testa tra le nuvole.
"Hey! Chi ti ha detto che puoi trattarmi così? Non so nemmeno come ti chiami..." rispose Daniele, facendo il finto offeso.
"Mi chiamo Giulio! Piacere!" gli strinse la mano e, involontariamente, Daniele notò che guardava il suo orologio.
"Comunque, Daniele che fa ragioneria, ci vediamo domani in infermeria. Devo andare o mia madre mi ammazza," finì in rima Giulio, dileguandosi velocemente dietro gli alberi.
Un ragazzo decisamente strano, pensò Daniele, guardando l'orologio sul cellulare: erano le 20:30. Forse a casa avrebbe trovato sua madre. O, forse, non avrebbe trovato nessuno. Come al solito.
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