Capitolo 23
Pace sotto alla pioggia
di mezzanotte.
fa freddo e mi incanto
ad ascoltare
il tamburellio incessante
delle lacrime pure
e malinconiche della
notte sognante
Dorian's pov
Sette anni prima
Durante la cena l'atmosfera in casa è tesa. Lo è sempre da quando è arrivata lei.
La fisso con astio mentre mamma e papà la riempiono di attenzioni.
<<Ti piace stare qui, Rebecka?>>
<<Hai bisogno di qualcosa, Rebecka?>>
<<Ti senti a casa, Rebecka?>>
Rebecka
Rebecka
Rebecka
Rebecka
Rebecka
Rebecka
Sempre e solo Rebecka.
Non la sopporto. Non volevo che adottassero una sorella, men che meno lei. Non la volevo e non la voglio. L'hanno adottata da un anno ormai, un anno in cui questa bambina dalla pelle scura come la cioccolata e gli occhi castani è entrata nella nostra famiglia. I suoi genitori sono morti in un incidente d'auto e ci mancava poco che ci rimettesse la pelle anche lei.
Mia mamma, che fa la dottoressa in ospedale, si è affezionata a lei curandola e, quando era arrivato il momento di dimetterla per mandarla in una nuova famiglia, ha lottato perché venisse a stare da noi.
Rebecka è arrivata e ha occupato il mio posto. I miei genitori sono così presi dal farla sentire a casa sua a tutti i costi che stanno trascurando me. Non c'è abbastanza amore per entrambi e loro lo stanno dando tutto a lei.
<<Cerca di essere comprensivo, Dorian.>>
<<Ha perso i genitori, mostra un po' di empatia.>>
<<ma non riesci proprio a comportarti come un fratello?>>
<<Guardala, è sperduta e spaventata. Lascia che trovi una casa qui da noi!>>
Sempre Rebecka, sempre lei, mai Dorian.
Sempre Rebecka.
Sempre e solo lei.
A lei comprano i giochi più belli, le merende più buone e le attenzioni migliori.
Io sono stato messo in un angolo. In ogni discussione la danno vinta sempre a lei, sempre e solo a lei.
Non la voglio qui, se ne deve andare, non c'è spazio per questa bambina e, una sera mentre in cielo infuria un temporale, glielo dico chiaro e tondo.
I miei genitori sono fuori casa e Rebecka, che ha nove anni, gioca con una bambola nuova che le hanno appena comprato.
Mi avvicino a lei, seduta sul tappeto persiano del soggiorno e le tiro una delle due trecce che la mamma le ha fatto con tanta cura.
Le scappa un gridolino e i suoi occhi marroni si riempiono di lacrime.
<<Perché mi tratti sempre male, Dorian?>> Mi chiede, e ha ragione, non perdo mai occasione per farle dispetti, le tiro i capelli, le rompo i giocattoli, la offendo come meglio posso. La tratto come il nemico che è.
<<Perché non c'entri niente qui. Vattene. Non è casa tua, nessuno ti vuole bene.>>
<<Ma Serena e Xavier hanno detto che è come se fossi loro figlia...>>
<<Lo dicono perché gli fai pena. Ma non lo pensano, loro non ti vogliono e non ti voglio io.>>
Scoppia a piangere sommessamente e mi guarda con quei profondi occhi del colore della terra bagnata dell'orto in primavera prima che i semi piantati dalla mamma crescano e diventino delle piante verdi e sane.
<<Dorian... ma sono davvero così cattiva?>>
<<Sei un cuculo. Sai cosa sono?>>
Lei scuote la testa piano.
<<Sono degli uccelli che depongono le loro uova nei nidi dei passerotti, così che i loro piccoli possano approfittarsi di loro, mangiando tutto il cibo che sarebbe destinato ai pulcini dei passeri. E cosa succede dopo? I cuculi sono belli grassi e amati, mentre i passerotti muoiono di fame nello stesso nido dove dovrebbero essere amati.>>
<<Smettila! Non è vero!>> Si prende la testa tra le mani e singhiozza senza nessun ritegno.
<<Vuoi essere diversa dal cuculo? Vattene.>>
Le dico e salgo in camera mia, sbattendo la porta. Mi sento soddisfatto, eppure, nel fondo del mio cuore, c'è qualcosa che non mi lascia dormire per tutta la notte, un tarlo che mi scava dentro il petto, come il bostrico, quel vermetto che distrugge gli alberi, scava nella corteccia fino a far appassire l'intera pianta.
Quel che non so è che la sera dopo, quando i miei genitori vanno a lavoro, Rebecka esce di casa e lascia un biglietto sul tavolo.
Tre semplici righe.
Nove semplici parole:
Non voglio essere un cuculo.
Non cercatemi.
Starò bene.
So che è colpa mia e, improvvisamente, quel senso di colpa ritorna improvvisamente, ed esco anche io. La troverò, la devo trovare.
Sono le undici e mezza di sera e il sole è già calato. Non so dove possa essere, forse si trova nel parco vicino a casa mia. Attraverso la strada e costeggio il marciapiede sconnesso e pieno di buche per un po', poi, finalmente, entro nel vialetto fiancheggiato da alberi frondosi. Comincio a correre.
<<Rebecka!>> Grido, ma non ottengo risposta.
<<Rebecka, Rebecka, Rebecka!>> Stavolta sento un mugolio provenire da un punto alla mia destra. Mi volto, ma di fronte a me non c'è la mia sorellastra.
Fisso senza dire nulla la ragazza legata ad un albero. Ha gli occhi gonfi e lividi, devono averla colpita forte, molto, molto forte.
Tutto in lei irradia dolore. Mi avvicino in silenzio, come se rischiassi di essere sorpreso a fare qualcosa di proibito.
La riconosco dopo un attimo. è Alyssa Rix, una ragazza di prima, un anno più piccola di me.
Ho sempre inquadrato quella ragazza come una stella, per come va in giro con lo sguardo perso tra le nuvole. Ha quella luce negli occhi che ogni tanto, a ricreazione, mi spinge a cercarla tra le centinaia di persone presenti, anche se non le vado mai a parlare.
<<Ehy, amore? Tutto bene?>> Resta immobile, e sento il suo respiro accelerare.
Non so neanche io perché l'ho chiamata così, mi è venuto fuori in automatico. Mi avvicino ancora di più.
<<Sei viva?>> Le chiedo tirandole uno schiaffetto, anche se più che altro è una carezza sulla guancia tumefatta. La pelle è secca e gonfia e sento l'irrefrenabile impulso di aiutarla.
Se di solito la vedo come una stella adesso è sicuramente una stella caduta in disgrazia sulla Terra.
Le scappa un gridolino e scoppia in lacrime, che scendono a fatica dagli occhi gonfi.
Comincio a slegarla.
<<Dove abiti?>> Le chiedo.
Mi sussurra un indirizzo e ho come la sensazione che abbia paura di me. La guido tenendola per mano, cercando di rassicurarla con la mia presenza. Non sono mai stato impacciato con le ragazze, ma lei in questa situazione... mi sento come un buco nero di caos e gelosia che accompagna a casa una stella caduta.
Non cadente, caduta.
La accompagno mentre mi fa cenno di prendere le chiavi sotto allo zerbino.
L'aiuto a salire le scale mentre dal salotto scorgo un uomo che dorme scomposto sul divano. Mi sorprende che nessuno sia venuto a cercarla, è quasi mezzanotte dopotutto.
Entriamo nella sua stanza e mi sento improvvisamente un intruso, insomma, lei non sa neanche il mio nome!
Le accarezzo una volta i capelli per rassicurarla e mi fiondo giù per le scale, lungo il corridoio e poi, finalmente, fuori da quella casa soffocante.
Chissà quale sadico insensibile le ha fatto questo...
Spero che col tempo stia meglio quella povera ragazza, ora però, devo trovare Rebecka.
Il punto è che non so dove cercarla!
Pensa Dorian, pensa! Mi impongo.
Sono sempre stato un ragazzo intelligente, posso cercare di pensare dove andrebbe lei.
Le ho detto che non era casa sua e che siamo la sua famiglia, è possibile che lei sia andata a cercare la sua.
Ma sì! Ovvio! So dove andare.
Dopo una lunga corsa tra i vicoli deserti arrivo finalmente di fronte ai cancelli grigi del cimitero monumentale. Rabbrividisco di fronte a quelle porte di metallo arrugginito che separano il mondo dei vivi da quello dei morti. Le punte irte come rasoi si protendono verso l'alto, come a voler tagliare in due la notte dopo aver impalato le stelle nel cielo.
Faccio un respiro profondo. In fondo è colpa mia, devo affrontare le conseguenze.
Inizio ad arrampicarmi su quelle sporgenze fredde e ruvide. Mi sbuccio un ginocchio ma non ci faccio caso, una volta arrivato in cima mi lascio semplicemente cadere verso il basso, dove un vialetto di muschio attutisce il mio capitombolo.
Seguo il viale tra le lapidi che spuntano dal terreno come mani scheletriche pronte a ghermirmi.
Ecco cosa succede a fare gli stronzi. Penso.
Ho paura. Una paura fottuta.
Un gufo gracchia da un albero. Un lamento lugubre e spaventoso che mi fa rizzare i peli sulle braccia.
Raggiungo le lapidi che mi interessano. Di fronte a loro è seduta una figura scura che si stringe in una giacca troppo leggera per la stagione. Può sembrare un fantasma, esile com'è.
Sembra troppo piccola e minuta per la grandezza del mondo che la circonda e, per la prima volta, sento di doverla proteggere da questa infinità in confronto alla quale lei è così fragile, come una foglia in procinto di essere strappata via dal vento e portata chissà dove.
<<Rebecka>> Sussurro. Lei si volta urlando. Un urlo di terrore puro che risuona come un canto tra le lapidi scure.
<<Sono io, sono Dorian.>> Tuo fratello. Penso.
<<Torna a casa con me. Ti prego!>> Aggiungo.
Lei sembra calmarsi un attimo.
<<Mi hai detto di andarmene. Io-io non voglio essere un cuculo.>>
<<E non lo sei. Vedi, Rebecka, se tu sei un cuculo, allora io sono un frigorifero.>>
Mi fissa sconcertata.
<<Che?>>
<<Sì. Un frigorifero.>> Ripeto con convinzione.
<<Non ti seguo.>>
Sbatto un piede frustrato. Il ragionamento nella mia testa ha incredibilmente senso! Perché lei non capisce?
<<Vedi, i frigoriferi sono freddi e io mi sono comportato in maniera freddissima con te. Capito?>>
Annuisce, ma mi fissa come se fossi pazzo.
<<E, se si lascia la porta del frigorifero aperta, di conseguenza diventa fredda anche la casa. Ecco, io mi sono comportato come un frigorifero dalla porta aperta.>>
Rebecka sbatte le palpebre, poi sorride debolmente, e infine scoppia a ridere, senza curarsi di essere in un cimitero.
Va bene, a volte anche i morti hanno bisogno di sentire un po' di gioia e risate.
Ride così tanto che le vengono le lacrime agli occhi.
<<Dorian... pensavo-pensavo che tu non avessi tutte le rotelle a posto, ma addirittura un frigorifero?>>
<<Mi sento oltraggiato. Non prendi sul serio le mie stupende similitudini.>>
Lei ride ancora di più. Mi piace. Voglio altri momenti così con lei, dove la faccio ridere, anche se mi dà del pazzo.
<<Cos'hai contro i frigoriferi? Lo sai che ti potrebbero denunciare per diffamazione?>>
<<Dovrò chiamare l'avvocato microonde allora!>>
Scuoto la testa imbronciato.
<<L'avvocato microonde non vale niente, meglio l'avvocato forno a legna.>>
Ci guardiamo per una decina di secondi e scoppiamo a ridere di nuovo.
<<Torniamo a casa?>> Chiedo con i miei migliori occhioni dolci. Non li faccio più da quando avevo otto anni, però sembrano funzionare, perché Rebecka mi prende sottobraccio e insieme ripercorriamo il vialetto fino al cancello.
Ora che siamo in due il buio non sembra più così cupo.
Arriviamo a casa tremanti dal freddo e la prima cosa che facciamo è rintanarci insieme sotto una coperta sul divano.
<<Mi dispiace. Mi dispiace un sacco. Per quello che ho detto e per come mi sono comportato.>>
Le sussurro e lei mi abbraccia.
<<Non fa niente. Ti perdono. Ho sempre voluto avere un fratello. Sempre che tu... che tu voglia esserlo.>>
La abbraccio. Non l'ho mai fatto e mi stupisco di come mi sento. Come se fossi un leone che protegge il suo cucciolo, anche se si tratta di una piccola pantera nera.
<<Sì, sorellina. Giuro che ti proteggerò sempre. E che ti romperò come fanno tutti i fratelli.>>
Lei storce il naso.
<<Immagino dovrò sopportare anche quell'aspetto, vero?>>
<<Già.>>
Rimaniamo un po' in silenzio e, quando credo che si stia per addormentare, le dico:
<<Ho incontrato una stella caduta stasera, mentre ti cercavo. Una stella caduta legata ad un albero.>>
<<Ti droghi?>>
<<Che domande sono da una bambina di nove anni?>>
Le spiego chi sia Alyssa e le dico di come l'ho aiutata.
<<Uuuuuh! Il frigorifero ha una cotta!>>
Le tiro un pizzicotto su un braccio.
<<Non è vero.>>
<<E invece sìììììììì! Si chiama Alyssa!>>
<<Taci Microonde!>>
Si irrigidisce.
<<Ma non era l'avvocato scarso?>>
<<Esattamente. Questo è un modo per dirti che non vincerai la discussione.>>
<<Sei tutto strano tu.>>
Rido e ci addormentiamo insieme. Forse è solo una mia impressione, tutto quanto.
è una mia impressione che i miei genitori preferiscano lei a me. Sono io che ho fatto di tutto per allontanarmi e ho dato la colpa a Rebecka, che cerca solo lo stesso amore che meritiamo entrambi.
Perché l'amore di un genitore non ha limiti.
Lo spazio in un cuore non è come lo spazio in una stanza, non si esaurisce, anzi, provare più amore ci rende persone più complete.
La mattina dopo i nostri genitori ci guardano sbalorditi dormire abbracciati come se fino alla sera prima non la facessi disperare.
Si vede che non capiscono cosa sia successo, ma sorridono di fronte alla gentilezza con cui la tratto a colazione.
<<Frigorifero, mi passi il pane?>> Mi chiede Rebecka.
<<Certo Microonde.>>
Ora sono davvero sconcertati.
<<Che è successo quando non c'eravamo?>> Ci chiedono.
Rebecka alza le spalle.
<<Niente, ho solo scoperto di avere un frigorifero con le rotelle fuori posto come fratello.>>
Mia madre mi fissa mordendosi un labbro, come se temesse che la contraddica, dicendo che lei non fa parte della famiglia, ma mi limito a passarle il pane come mi ha chiesto.
<<Beh, una notte dei miracoli, allora. O degli orrori.>> Dice nostro padre con il naso aquilino immerso nel giornale.
<<Orrori?>> Chiedo curioso.
Xavier Sepherd, l'uomo dal quale ho ereditato i capelli corvini e la mascella squadrata e ben definita ridacchia, mettendo in mostra una piccola fossetta che fa impazzire mia madre.
<<Il custode del cimitero ha dato le dimissioni e ha deciso di fare un appello in televisione. è convinto che ci siano dei fantasmi nel cimitero. A quanto pare, ieri notte, ha sentito delle strane risate inquietanti provenire da una zona buia tra le lapidi. Dice di essere scappato e che di non aver intenzione di tornarci di nuovo, inoltre...>>
Aggrotta le sopracciglia e ci guarda confuso.
<<Qui dice che i fantasmi stavano discutendo di frigoriferi e microonde.>>
Io e Rebecka ci fissiamo negli occhi, uno sguardo complice passa tra noi due, il primo di una lunga serie, e non riusciamo a trattenerci, scoppiamo a ridere come pazzi.
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