Capitolo 6
Il biondino aveva guidato fino a casa di Victor, dolorante sul sedile passeggero che cercava di non far trasparire il dolore esteso ovunque. Il bruciore invadeva ogni parte del suo corpo. Il mal di testa premeva alle tempie impedendogli la completa lucidità e visuale. Il fiato corto, che cercava di regolarizzare per non far preoccupare ulteriormente Christopher. Quando la macchina fu parcheggiata di fianco al marciapiede, White scese per primo dall’autovettura aiutantando l’azzurrino ad uscire. Vick lo abbracciò per reggersi, strinse tra le dita il tessuto del giubbotto. Rimase pietrificato, sentiva chiaramente il calore di quel corpo dolorante su di sé, il profumo dolce di ammorbidente, che probabilmente il teppista aveva usato per lavare i suoi indumenti, mischiato con la puzza di fumo. Ricambiò titubante quel bisognoso abbraccio, «Spero che il tuo appartamento non sia all’ultimo piano».
Sbuffò divertito, «Se ti dicessi che non c'è l'ascensore mi porteresti in braccio come una sposa?»
«Ed io che pensavo che fossi tu quello che mi avrebbe portato in braccio, su per le scale». Entrambi scoppiarono a ridere, ne avevano bisogno.
«Per oggi penso che dovrai camminare», aggiunse «Per tua fortuna c'è l'ascensore».
Con fatica si diressero all’ingresso del palazzo, aprirono con le chiavi il portone a vetri con delle maniglie nere che diede loro accesso al corridoio al piano terra. Verso sinistra vi erano le scale con una ringhiera consumata, sverniciata. In principio doveva essere rosso mattone. Mentre, alla loro destra, vi era una parete neutra con, incassata, la porta dell’ascensore. Price cercò in tutti i modi di alleggerire il proprio peso sul suo accompagnatore poggiando la propria mano sul muro. Premette il tasto per richiamarla e, all’aprirsi delle porte scorrevoli, vi entrarono. Chris poté fermarsi a scrutarlo, attraverso lo specchio dell’abitacolo. I capelli azzurro elettrico cadevano disordinati sul suo volto. Gli occhi azzurro oceano risaltavano, contornati da quella pelle pallida e quelle occhiaie molto evidenti. Eppure, solo adesso, aveva potuto notarle. Quel naso delicato con un septum* all'estremità, quelle labbra schiuse per il fiato corto. Quel fisico asciutto che poteva intravedere dai vestiti. Quelle pupille s’incrociarono con le iridi color miele, attraverso lo specchio. Un lembo di quella bocca dalle sottili labbra si arcuò verso l'alto, ghignando.
«Se continui così mi consumerai» lo schernì.
«Per averlo notato devi avermi guardato anche tu, perciò potrei dirti la stessa cosa».
«Touchè», si sentì stringere la presa sul proprio fianco. «Devo pesarti molto» constatò.
«Ce la faccio, tranquillo. Invece a te deve farti davvero male». E si guardarono a lungo, negli occhi, attraverso quello specchio che ormai faceva da tramite, come se le loro anime fossero separate da esso e potessero guardarsi solo da una piccola fessura nel muro.
«Sto bene», un sorriso forzato si palesò su quel viso spigoloso. Le porte si aprirono permettendo loro di uscire da quel piccolo spazio.
«Bugiardo» sussurrò, ma il diretto interessato lo udì comunque.
«Ti ho sentito! Sappiamo entrambi che “in realtà mi adori”!» lo citò. Non poté trattenersi dal sbuffare una risata. Le porte degli appartamenti tappezzavano entrambi i lati. Le mura erano coperti da della carta da parati color crema dalla rifinitura discutibile. La pavimentazione era in mattonelle di marmo, le venature nere ed arancioni cozzavano con l'ambiente.
«Chris» si sentì chiamare, davanti a lui. Alzò lo sguardo, il ragazzo era poggiato sulla parete.
«Daniel», aggrottò la fronte. Cosa ci faceva il fratello maggiore di Dean li?
«Vick» disse Mcdaniel dopo essergli andato incontro, fermandosi davanti loro.
«Danny» asserì il teppista. I pozzi verdi scrutarono a fondo quella figura esile dell’azzurrino. Lo aveva chiamato con un diminutivo. Che rapporto avevano tra loro? Quando Christopher gli chiese di chiamarlo Chris si rifiutò. Si guardavano in un modo particolare che White non riuscì a comprendere, a spiegarselo. «Che ci fai qui?»
«Sono venuto a trovarti per vedere come stavi.» ammise sincero, «Ma vedo che non te la passi molto bene».
D’instino alzò gli occhi al cielo, «Che novità» asserì sarcasticamente. «Adesso dobbiamo andare, grazie per la visit- »
«Chris, prendi la mia auto e vai a scuola, Dean sarà preoccupato. Mi prenderò io cura di Vick».
Senza volerlo il biondino si ritrovò a stringere leggermente la presa, non voleva lasciarlo a lui. Aveva promesso che gli sarebbe stato accanto.
«Va tutto bene», le iridi ambrate si posarono su quelle color oceano. Gli sorrise stando attento a non far trasparire il dolore accentuato che provava stando lì in piedi.
«Domani lo accompagno io stesso a scuola», lo rassicurò il maggiore. Il biondo riguardò entrambi titubante per poi decidersi ad affidargli Victor. Il vederli insieme gli provocava un senso di fastidio alla bocca dello stomaco. Dopo averli salutati andò via senza guardarsi indietro. Sapeva che se si fosse voltato non avrebbe avuto la forza di lasciarlo con il fratello di Dean.
§
I due ragazzi rimasero soli, entrarono in appartamento dopo che Price mise, a fatica, la chiave nella serratura. L'appartamento appariva cupo. A destra vi era un divano con due poltrone ai lati davanti ad un tavolino basso in vetro ed una televisione. A sinistra si apriva un piccolo openspace con la cucina ed un tavolo da pranzo. Al centro vi era un corridoio che portava ai sanitari e le camere da letto.
«Hai il cancro come tua madre?» ruppe il silenzio.
«Non pensavo che trovarsi dalla parte del malato fosse così doloroso», ammise mentre il moro lo aiutava a sedersi sul divano, una smorfia di dolore si palesò su quel pallido volto. «Fa come fossi a casa tua», aggiunse, invitandolo a prendersi qualcosa in cucina.
«Dov’è tua madre? Volevo salutarla» domandò mentre apriva il frigo per prendersi una bevanda gassata zuccherata. Il silenzio regnò nella stanza, Daniel chiuse il frigo ed osservò quella figura, che gli dava le spalle, aggrottando la fronte. «Vick» lo richiamò, «Tua madre?» insistette, avvicinandosi.
«È morta tre mesi fa» asserì, secco. Quell’affermazione sembrava squarciare l'aria con prepotenza.
«Perché non me lo hai detto?!» s’infuriò.
«Eri al collage»
«Sei un cretino!» affermò sedendosi al suo fianco, stappando la lattina e bevendo qualche sorso.
«Ti ricordo che questo cretino ti piaceva», puntualizzò prendendo il pacchetto di sigarette dalla tasca. Estrasse una sigaretta per poi lanciare il pacchetto sul tavolino. Si passò quel bastoncino di tabacco tra le dita eccessivamente tremolanti per poi posarlo, dopo vari tentativi, lentamente tra le labbra sottili.
«Non ho mai detto di non avere gusti discutibili in fatto di uomini», si distese sul poggiaschiena del divano. «Sei incredibile, hai il tumore e continui a fumare».
«Con Christopher non avrei potuto fumare, si sarebbe preoccupato ancora più del dovuto e mi avrebbe fatto una ramanzina come minimo.» la accese e finalmente fece un tiro.
«Cosa c'è tra voi?»
«Sei geloso?» lo canzonò come suo solito.
«Se ti dicessi di sì?», scrutò quel profilo avvolto dal fumo.
«Ti direi che ormai il treno è passato per te, non credi?»
«E se ci volessi riprovare?»
«Ti ricordo che sei stato tu a lasciarmi perché andavi al collage e non volevi una relazione a distanza», tirò indietro il capo. Il collo era disteso e il pomo d’adamo risaltava coperto da quella pelle perlacea. Dalle labbra schiuse usciva lentamente del fumo, sembrava danzare nell'aria.
«Ho sbagliato, va bene?» ammise esausto poggiando la lattina sul tavolino ed accendendo anch'egli una sigaretta.
«Danny, non tornerò con te.», risollevò il capo, dolorante.
«Quindi tra te ed il biondino c'è qualcosa.»
«Lo vuoi capire che non si tratta di lui?!» alzò la voce anche se la testa sembrava scoppiargli, il dolore gli martellata il cranio. La sigaretta solitamente lo calmava ma, quella discussione non faceva altro che peggiorare la situazione. «C'è la possibilità che io non sconfigga il cancro!»
«Permettimi di starti accanto!» alzò la voce.
«Hai il collage, se lo lasciassi per colpa mia non me lo perdonerei mai.»
Si alzò repentinamente dal divano ed allargò le braccia, «Non capisci che non mi importa?! Sono preoccupato per te! Dalla morte di tua madre sei rimasto solo!», si passò la mano libera tra i capelli, «Kevin me lo ha detto».
Sbuffò un sorriso, gli occhi ormai lucidi guardavano la parete, rifiutandosi di guardare il suo interlocutore. «Fammi capire bene, sei venuto qui per offrirmi la tua pietà?», posò lo sguardo su di lui, un sorriso amaro incrinava la bocca. «Fottiti Danny! ».
§
White era arrivato giusto in tempo per seguire le ultime lezioni del mattino e prepararsi per quelle pomeridiane. Non aveva ascoltato neanche una parola degli insegnamenti dei professori, i suoi pensieri erano concentrati su quel dannato teppista. La situazione non migliorò quando in mensa, nella pausa pranzo, con il vassoio in mano, si sedette al solito tavolo. Non faceva altro che sospirare e giocare con il cibo punzecchiandolo con la forchetta mentre, la testa era poggiata sul palmo della mano. L'idea di quei due insieme, da soli, lo irritava per ragioni che non riusciva a comprendere. Lo conosceva da poco, cosa si aspettava? Lo irritava ancora di più che, al posto di chiamarlo per nome, lo aveva chiamato “Danny”. Come un deficiente, sussurrò quel soprannome in modo acido e canzonatorio, come ad “imitare” la voce di Victor, enfatizzandola e rendendola più irritante di quanto in realtà lo fosse stata alle proprie orecchie. Si scompigliò vigorosamente i capelli, era confuso. Solitamente non si ritrovava a rimuginare sulle persone, tanto meno in modo così persistente.
«Chris, dove diavolo eri?!» lo richiamo una voce fin troppo familiare, scoppiando quella bolla di pensieri e gelosie. Alzò il capo da quel pasto, il moro si era seduto davanti a lui. Era arrabbiato, non aveva proferito alcuna parolaccia. Esatto, perché stranamente, quando Dean era davvero arrabbiato, usava pronunciare parole auriche e non parolacce, di cui il suo lessico abituale usufruiva abbondantemente. Il biondino abbassò il capo ricominciando a scrutare quel pasto ancora intatto, «Sono andato da Vick» ammise.
«A fare cosa?», di rimando boccheggiò. Era sicuro di non potergli dire del tumore. «Susie, tu non me la racconti giusta. Però… », attirò l’attenzione del suo interlocutore al quanto distratto, «Ho scoperto una cosa che riguarda il tuo fidanzatino».
«Non è il mio fidanzato!» ribadì.
«Infatti ho detto fidanzatino. Comunque, ho scoperto… » si guardò intorno per poi riposare lo sguardo sull’altro ed avvicinarsi. «Che sua madre ha il cancro» sussurrò.
L'aria sembrò farsi più pesante su di sé, la gravità sembrava non volergli dare manforte sentendosi incollato alla scomoda sedia di plastica della mensa. «C-Chi te lo ha detto?» chiese cercando di non balbettare, con gli occhi ancora sbarrati dallo stupore.
«Mio fratello maggiore Daniel, gli è scappato questa mattina a colazione», rivelò tranquillamente riprendendo il pasto. Danny lo sapeva? È per questo che aveva insistito per rimanere solo con lui? Per non fargli vedere la signora Price?
«Chris! Mi stai ascoltando?» interruppe con violenza quel fiume di pensieri, ancora una volta. «Oggi sei distratto, stai bene?» corrucciò la fronte.
«S-Si» balbettò, scombussolato. «A proposito, dov'è Josh?»
«Vedi che non mi ascolti? In questi momenti mi sento una moglie incompresa che parla mentre, il marito si limita ad annuire anche se non ha ascoltato nulla.»
«Mogliettina, ti ascolto» lo canzonò con un sorrisino sul volto, alzando gli occhi al cielo.
«Ho litigato con Joshua.» asserì secco, «Visto che io sono qui non penso verrà».
«Perché mai avreste litigato? Vi fate pure le treccine insieme. Ammetto che da maritino sono alquanto geloso», lo schernì.
«Fai il serio, bozzacchione**!», ed eccolo il linguaggio simil-dantesco che usava quando si irritava. Non poté trattenersi dal ridere. Questa sua peculiarità era dovuta dal fatto che i suoi genitori si dilettavano spesso, per passione, a leggere questo genere di libri. Lui deve aver assimilato questi vocaboli per osmosi. Al quel ricordo la risata si accentuò maggiormente. «Non fare il mentecatto! Concentrati!»
«Va bene va bene, scusami», disse mentre si asciugava una lacrima sfuggita dalle troppe risate.
«Dicevo, abbiamo litigato per Wendy».
«Non farti tirare via le parole di bocca con la forza! Fai un discorso senza pause, mi metti ansia!»
«Metto suspance» lo corresse orgoglioso, gonfiando il petto come un gallo davanti alle galline. White alzò d’istinto gli occhi al cielo. «Ieri sera, alla festa, mi sono ubriacato ed ho baciato Wendy e, a quanto pare, lui ci ha visti.»
«Perché mai l'avresti dovuta baciare? Non ti piaceva Virginia?»
«Amico, sai benissimo che le pettegole non sono il mio tipo».
«Già, metti che ti fanno concorrenza», sogghignò sotto i baffi.
«Smettila di prendermi per i fondelli, sto cercando di fare il serio!»
«Lo vedo che ti stai sforzando, ti esce il fumo dalle orecchie ed hai la vena del collo gonfia».
«No, la vena gonfia è per colpa tua» rispose prontamente. «La cosa peggiore è che non mi sono fermato al bacio» ammise. «Abbiamo trascorso “una notte movimentata”», aggiunse cercando di essere più delicato possibile.
«Ecco, adesso il bozzacchione sei tu», lo ammonì. «Cavolo, se ti piaceva bastava dirglielo! Avresti evitato di scoppiare in questo modo e ferirlo!»
«Grazie tesoro, a questa conclusione ci ero arrivato anche io».
«Bene, allora vai a risolvere» propose semplicemente.
«Non vuole rivolgermi la parola!»
«Minaccialo di non fargli più le treccine» lo canzonò alzandosi, «Risolvi con lui, sii onesto e vedrai che capirà». Il primo consiglio serio ed onesto di quel bizzarro dialogo.
«Aspetta, dove vai?» aggrottò le sopracciglia, confuso.
«Ti spiego tutto domani» asserì frettolosamente mettendosi lo zaino in spalla e correndo fuori dalla mensa. Doveva parlarci. Non sapeva bene il motivo, ma doveva parlare con Victor.
———
*Septum: piercing che viene praticato forando il setto alla base del naso.
**Bozzacchione: Susina ipertrofica, gonfia e vuota, più o meno deformata, che precocemente si secca e poi cade.
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