Capitolo 4

La luce del mattino attraversava la finestra colpendo il suo viso. La testa sembrava esplodergli, non aveva alcuna voglia di andare a scuola dopo quella sbronza colossale. Il braccio era intorpidito, aprì lentamente gli occhi. Non era solo nel letto. Wendy Jones era al suo fianco, con la testa sopra il proprio braccio, dormiente. Gli occhi cerulei del moro si allargarono, stupiti. Come poteva essere andato a letto con la ragazza che piaceva al suo amico? Cavolo, era proprio pessimo. Non negava che anche lui avesse una cotta per lei ma, aveva deciso di sopprimere quei sentimenti lasciando campo libero a Josh. Era tutto sbagliato, non doveva finire così. Doveva tenere quel segreto, non avrebbe più ripetuto lo stesso errore. Però, prima di fare il bastardo, si concesse di guardare quel bel viso ed imprimerlo a fuoco nella sua mente. Quel viso dai tratti tondi, quella pelle così morbida al tatto. Si, ricordava ogni sensazione, ricordava quando i suoi polpastrelli l’hanno sfiorata con delicatezza. Ricordava la sensazione di baciare quelle labbra carnose sempre ricoperte di rossetto. Sarebbe stata bellissima anche senza trucco, ne era certo. Quei capelli lisci e neri come la pece le facevano risaltare ancora di più quegli occhi castani, quello sguardo sincero che rivolgeva a chiunque. Non si capacitava di come potesse essere amica di quella strega di Virginia. Lei era una brava ragazza. Prese un profondo respiro inebriandosi del suo dolce profumo tendente alla vaniglia. Doveva farlo. Sfilò il braccio senza svegliarla e si alzò dal letto, si stiracchiò. Poi si mise delle mutande ed una tuta malmessa per scendere al piano di sotto. Barcollò leggermente verso la cucina passandosi una mano tra quei capelli spettinati.

«Sembra che un tir ti sia passato sopra più volte anche con la retromarcia.» una voce familiare gli fece alzare lo sguardo verso quella figura muscolosa incrociando quegli occhi verde smeraldo.

«Buon giorno DanielMcdaniel» salutò il maggiore pronunciando, come al solito, il suo nome e cognome come uno scioglilingua. Perché si, i loro genitori con grande fantasia, avevano chiamato il loro primogenito Daniel riprendendo il cognome. Il minore non perdeva occasione per prenderlo in giro.

«Buon giorno Aprilia» lo canzonò, riferendosi all’attaccamento morboso con la moto parcheggiata in garage. «A quanto vedo te la sei spassata ieri sera» aggiunse poggiando sull’isola una tazza di caffè per Dean.

«Tu invece? Che ci fai qui? Non dovresti essere al collage?» la afferrò facendo un sorso.

«Non mi vuoi tra i piedi eh? Tranquillo, sono tornato per spassarmela un po' con i miei amici.» il minore aggrottò la fronte.

«Quali amici?» si sedette sullo sgabello.

«Kevin che lavora all’officina e Victor». A quel nome il suo interlocutore quasi si strozzò con il caffè.

«Parli di Victor Price?»

«Si, proprio lui. Lo conosci? Solitamente non è molto propenso a fare nuove amicizie ma una volta che ci parli è simpatico e divertente. È un tipo apposto.»

«Ho avuto modo di parlarci, non è come vuole apparire.»

«Prima non era così, chissà come sta.»

«A cosa ti riferisci?»

«A sua madre, ha il cancro. Non lo sapevi?» chiese confuso mentre beveva anche lui il caffè. Ma, dall’espressione sorpresa del moro aggiunse, «Forse non dovevo dirtelo, mantieni il segreto».

«È per questo che non viene mai a scuola?», Daniel annuì poggiando la tazza nel lavandino.

«Non fare il pettegolo come al solito e tieni questa informazione per te» ribadì.

Dean alzò gli occhi al cielo «Ho capito», disse esasperato.

«Adesso vado a salutare Kevin, buona scuola fratellino», lo salutò prendendo le chiavi della macchina ed uscendo di casa.

Non poteva crederci, quel teppista aveva più scheletri nell’armadio di chiunque altro. Chissà cos’altro nascondeva, doveva indagare. Non per lui, ma per il suo amico Chris. Non voleva si mettesse nei guai.

«D-Dean» lo chiamò insicura, Wendy. Il moro si voltò verso quella figura gracile e minuta.

«Buon giorno» la salutò con tono distaccato. Doveva spingerla nelle braccia del suo amico, non importa se l’avesse odiato.

«Riguardo ieri…», non la fece finire.

«Dimentica quello che è successo ieri, ero ubriaco. Ti pregherei di essere discreta e non parlarne con nessuno».

«Ma-»

«Niente “ma”, è stato un errore. Mi dispiace», una lacrima rigò quel viso delicato. Faceva male.

«Ho capito.» la voce risultò tremolante e, senza aggiungere altro, corse via. Aveva litigato con la sua migliore amica e adesso era stata rifiutata dal ragazzo di cui era innamorata. Cos’aveva fatto di male per meritarsi tutto ciò? Scoppiò letteralmente a piangere quando fu abbastanza lontano da casa Mcdaniel.

§

Era nuovamente davanti a quel grande edificio sterile ma familiare. Fece un respiro profondo e si diresse verso quelle porte scorrevoli. Al varcare della soglia, l'odore di disinfettante gli invase le narici. L’ospedale non gli era mancato affatto. Camminò lungo la reception fino ad arrivare all’ascensore e premette il pulsante contro voglia. Quel luogo era pieno di brutti ricordi che, lentamente erano stati sostituiti con altri altrettanto pessimi. Sospirò pesantemente entrando nella cabina, premette il tasto del piano facendo chiudere le porte ma una mano le bloccò.

«Aspetta!» esclamò affannato.

«Christopher?!», le iridi azzurre di Victor sgranarono allo scorgere quella figura slanciata. «Che ci fai qui?» chiese incredulo mentre il biondo entrava in ascensore.

«Non ti libererai di me.»

«Sei proprio uno stalker.» ribadì al chiudersi della porta.

«Vuol dire che hai la sindrome di Stoccolma allora.»

«Ma ti senti?» scoppiò a ridere seguito dall’altro. Se prima era teso come una corda di un violino, adesso, le spalle erano rilassate. Quel ragazzo riusciva a distrarlo per quanto possibile. «Perché sei qui?» riprovò, serio.

«Ero preoccupato» ammise, «Non mi aspettavo fossi solo».

«I miei genitori lavorano a quest’ora» mentì.

«Allora vorrà dire che ti dovrai accontentare di me», il sorriso gli illuminò il volto. Gli occhi color miele sembravano più chiari, quasi dorati. Si perse a guardarlo ma il suono delle porte scorrevoli che si aprivano lo riscuosero. Camminarono lungo i corridoi fino ad arrivare davanti a quel fatidico studio. Si sedettero sulle sedie di plastica scomodissime ed attesero.

«Price» lo chiamò il medico alla porta dopo aver atteso per una buona mezz’ora il proprio turno, in silenzio. Victor si alzò seguito da Chris. «Non puoi entrare per questioni di privacy» gli disse guardandolo.

«Va bene, è con me» intervenne il paziente, «Può entrare». I due si lanciarono uno strano sguardo fino a che il medico non sorrise.

«Va bene, accomodatevi» concluse sedendosi alla propria scrivania. «Allora, come ti senti? La frequenza dei sintomi?» chiese.

«Ho avuto un attacco ieri sera, per il resto solo tosse».

«Va bene, allora… » aprì la cartella clinica dandogli una fugace occhiata. «In attesa dei risultati delle analisi specifiche, inizieremo la chemioterapia generale. La somministrazione avverrà tramite flebo. Per prassi dovremmo inserire una cannula* fissa. Appena arriveranno i risultati decideremo se continuare con questa chemioterapia o modificarla» esordì.

«Quando inizierò la cura?»

«Adesso. Chiamo l’infermiera ed iniziamo.» sollevò la cornetta e premette un numero interno.

§

White non faceva altro che camminare in tondo davanti a quella porta dove Victor stava iniziando la chemioterapia. Gli avevano chiesto di rimanere fuori il tempo necessario per inserire la cannula. Era agitato, preoccupato per l’azzurrino. La sera prima non era riuscito ad addormentarsi, aveva trascorso la notte a svolgere ricerche su internet al riguardo. E, se prima era preoccupato, adesso ne era terrorizzato, di più! Per questo motivo, a costo di risultare invadente, si era imposto nell’accompagnarlo senza accettare repliche. La porta finalmente si aprì mettendo sull’attenti l’ansioso biondino. L'infermiera ed il dottore uscirono dalla stanza.

«Adesso può entrare» lo avvisò il medico, «Appena la flebo starà per terminare, la preghiamo di chiamare me o la mia collega» aggiunse riferendosi all’infermiera al suo fianco.

Chris annuì frettolosamente per poi precipitarsi dal teppista. Era steso su un lettino con la flebo collegata al braccio sinistro. «Vick!»

«Signor Stalker, mi sembri preoccupato», il suo tono canzonatorio non lo abbandonava mai, neanche in situazioni del genere.

«Perché lo sono, teppista da strapazzo», il diretto interessato ridacchiò debolmente, sembrava sofferente. «Ti fa male?» chiese sedendosi sulla sedia vicino a lui.

«Per il momento sento solo un po' di dolore», mentì in parte per tranquillizzarlo.

«Ti senti già debole?»

«Qui qualcuno si è informato», lo punzecchiò con un ghigno sul volto prendendosi un’occhiataccia.

«Quanto dura?»

«All’incirca mezz’ora, al massimo un’ora.» lo scrutò. I suoi pozzi oceano avevano una patina lucida. «Se vuoi puoi andare a scuola, faresti in tempo a seguire le lezioni».

«Io non vado via! Non ti lascio solo, stupido!» abbassò il capo e, titubante, gli afferrò la mano destra. «S-Se hai più dolore puoi stringerla»,balbettò. Mentalmente si diede dell’idiota. Cos’avrebbe fatto se avesse scansato malamente la mano, infastidito da quel contatto? Eppure, non era riuscito ad impedire alle sue gote si colorararsi leggermente di rosso.

Le riridi color miele non facevano altro che sfuggirgli, superato lo stupore iniziale, strinse delicatamente la mano del biondino. «Grazie» sibilò Price con un sorriso stanco.

———
*Cannula: l’ago-cannula è un tubicino inserito nella vena del braccio o nell’avambraccio per avere un accesso venoso sempre aperto.

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