Capitolo 39
Victor non tornò a scuola, era stato categorico; non avrebbe mai sopportato di vedere Christopher senza di lui. La sola idea avvolgeva il suo cuore in una coperta di fredda solitudine. Aveva la sensazione di essere rimasto indietro, che tutti i ragazzi della sua età, Chris compreso, fossero andati avanti lungo il cammino, mentre lui restava immobilizzato, da una malattia che gli impediva di guardare il futuro, incastrato in un passato che non poteva più vivere, ad osservare le loro schiene allontanarsi; la percepiva come un senso di pesantezza perenne intorno al costato.
Victor abbassò lo sguardo sulle sue converse nere e consunte, seduto su una di quelle sedie scomode che corniciavano i corridoi degli ospedali, attendendo il suo turno per l'ennesima visita medica. Se si fosse arreso, in quel momento sarebbe stato steso nel letto in camera sua, probabilmente a leggere un libro o a piangere. Invece era lì, a sperare che il suo dolore non fosse e non sarebbe stato vano. Un fine esisteva, ne era quasi certo, ma a lui era precluso conoscerne il significato. Solo il tempo che scorreva troppo velocemente gli avrebbe dato le risposte che cercava; ne avrebbe soltanto voluto di più. La sua unica consolazione era che, se fosse morto, lo avrebbe fatto senza il rimpianto di non aver provato a vivere, ad aggrapparsi con tutte le sue forze fino all'ultimo istante.
Si guardò il palmo aperto rivolto verso l'alto. Era vuoto. Non c'era nessuno a stringergliela, non c'era lui e non ci sarebbe stato più. Era solo. Se fosse sopravvissuto, nulla sarebbe tornato come prima. Perché certi rapporti, per quanto preziosi, una volta spezzati non potranno mai tornare allo stato originale, all'equilibrio primario. Sarebbe impossibile ristabilire il medesimo rapporto tra due persone mutate con esso, no? Come tentare di ricongiungere i pezzi di un vetro rotto con dello scotch scadente. L'unica soluzione era abituarsi a vivere senza di lui, anche se non riusciva a ricordare come si facesse. Com'erano le sue giornate senza Christopher? Come le trascorreva? Sorrise dolcemente nel constatare che non gli importava; loro erano stati e questo gli bastava. Nulla era ancora stato scritto, del dopo se ne sarebbe occupato nel futuro presente.
«Eccoti qua!» una voce e dei passi che si facevano più vicini lo ridestarono, riportandolo sulla terra ferma.
Victor sollevò lo sguardo, avrebbe riconosciuto quella voce familiare ovunque. «Daniel?» sbattè le palpebre velocemente un paio di volte, con la magra speranza che davanti a sé non ci fosse il suo ex, bensì fosse vittima di un'erronea allucinazione. Che ci faceva Daniel Mcdaniel lì, in ospedale? Perché al suo posto non c'era Christopher o una sua illusoria figura? «Che ci fai qui?» Non doveva venire suo zio a prenderlo?
Daniel si sedette al suo fianco. «Mi sono perso un paio di volte, questo ospedale è un labirinto.» commentò invece, ignorando la legittima curiosità del teppista.
Vick sbuffò lasciandosi andare sullo schienale della sedia. «Chi ti ha detto dov'ero?»
«Tuo zio, mi ha chiesto di tenerti sotto controllo mentre lui è a lavoro.»
«Come...» Da quando si parlavano? Perché erano rimasti in contatto? «Voi... Perché?» cercò di sciorinare tutte quelle domande che gli affollavano la testa, ma vi rinunciò con un sonoro sospiro.
«Il mondo è piccolo, Vick.» disse, probabilmente deducendo alcune domande da quei frammenti scomposti.
Era un modo molto velato per affermare che ormai era costantemente controllato da spie, nascoste in ogni angolo e anfratto della città? Price non pensava di averla fatta così grossa. Victor non era solo, ma ci si sentiva. Era strano, voleva stare solo ma allo stesso tempo non voleva sentirsi tale. Sbuffò chiudendo il pugno, percepiva la mano così gelida.
«Come stai?»
Victor voltò repentinamente il capo verso di lui. «Mi prendi per il culo?» chiese arcuando le sopracciglia e sbarrando leggermente gli occhi.
«Mi piacerebbe, ma no.» rispose Mcdaniel sardonico con quel solito ghigno sghembo sulle labbra.
Price avrebbe voluto rispondergli che non stava bene, che era perennemente sul punto di scoppiare a piangere in qualsiasi momento, anche in mezzo alla strada tra una folla di passanti che, camminandogli accanto incuranti, continuavano a vivere la loro vita. «Sono un po' stanco.» disse invece; anche se non era del tutto falso, stanco lo era davvero ma non si limitava solo a quello.
«Sai, ho saputo che sei di nuovo su piazza.»
«Le voci girano in fretta», constatò, arreso all'idea che non se ne sarebbe andato nemmeno se lo avesse ignorato. «Da chi?»
«Da quella pettegola di Dean.»
«Quindi sei venuto per provarci con me?» domandò Victor, sfonderando il suo solito sarcasmo come difesa. Si dipinse il suo solito sorrisetto ironico sul volto scavato e continuò: «Mi dispiace, ma adesso voglio solo godermi la mia vita da scapolo. Passare le serate in discoteca, bere, avere avventure di una notte...»
«Se vuoi ti accompagno io per locali a inzuppare il biscottino, ti faccio da spalla.» Daniel lo spalleggiò amichevolmente.
«"Biscottino" sarà il tuo.» stette al gioco, Price, allusivo. «Dovresti saperlo.»
«Sei un maledetto egocentrico narcisista.» commentò divertito.
Subito dopo tra loro cadde il silenzio. Per quanto gli riguardava, Vick non aveva più nulla da dirgli. Percepiva la sua presenza inopportuna, come se si fosse appropriato di un posto e un ruolo non suo. In quei momenti di estrema fragilità lui non c'era mai stato, nemmeno quando erano in una relazione, e non aveva alcuna intenzione di condividerli con lui adesso.
«Dean mi ha raccontato anche che Chris mangia poco e niente, che è spesso distratto...» riprese Danny mentre si osservava distrattamente intorno, esplorando quel luogo per lui nuovo e ignoto. Dal suo tono, sembrava stesse elencando la lista della spesa.
«Zitto», ordinò lapidario.
«Ha spesso gli occhi gonfi, capelli in disordine...» continuò invece, ignorandolo.
«Stai zitto!» alzò la voce. Perché Daniel gli stava raccontando quelle cose su Christopher? Gli faceva male saperlo in quello stato. Prendere coscienza che era responsabile della sua sofferenza, era doloroso. Daniel stava gettando sale sulle ferite aperte.
«Non vuoi sapere in che stato è il tuo ex per colpa tua?» girò il coltello nella piaga. Daniel voleva e doveva farlo ragionare, anche se non lo riguardava. Non erano affari suoi, ma nel profondo della sua codardia, non avrebbe mai accettato che Victor rinunciasse all'amore per cieca stupidità.
«Lo sapevo che eri venuto qui per rompere le palle.» constatò irato alzando gli occhi al soffitto, meledendo il codice penale che gli impediva di percuoterlo, ucciderlo ed insabbiare il tutto.
«Sempre in prima fila.»
«Gli passerà.» disse più per convincere se stesso, che il ragazzo al proprio fianco. Il teppista si aggrappò con tutte le sue forze a quella speranza, anche se allo stesso tempo non voleva che lo dimenticasse, almeno non così facilmente come millantava. Abbassò le palpebre e si odiò per il suo insensato egoismo. Riaprì gli occhi, poggiando istintivamente lo sguardo ancora sul proprio palmo della mano.
«Tu credi?» Mcdaniel sbuffò un sorriso ironico negando lentamente il capo con finta accondiscendenza. «Siete due idioti, vi siete trovati.»
«Ci siamo persi.»
«Ti sei perso. Stai facendo una cazzata, Vick.» Danny si voltò con il busto verso di lui per guardarlo in faccia. «E te lo sto dicendo io, che porto la bandiera.»
«Sta zitto.» gracchiò di nuovo in un soffio acido, «Ciò che faccio non ti riguarda.» Prima che lo chiamassero, una patina lucida gli annebbiò la vista.
«Price Victor.» lo chiamò Barlow dall'uscio dell'ambulatorio.
Il teppista muto balzò in piedi, era arrivato il suo turno.
§
La mente rincorreva quel doloroso ricordo simile al presente mentre lui era seduto sulla sedia in quello studio medico, dinanzi alla scrivania e al Dottor Barlow. Lo aveva salvato da una situazione spiacevole con Daniel, era consapevole che altrimenti sarebbe scoppiato; non riusciva più a tirare sorrisi, usare il sarcasmo e a far finta che tutto era come doveva essere. Era arrivato al limite.
Victor si guardò attorno distratto, molleggiando una gamba, come se vedesse lo studio con occhi diversi, mentre l'uomo aveva iniziato a dargli informazioni sull'operazione. Avrebbe dovuto ascoltarlo, lo sapeva bene, ma non riusciva a concentrarsi. Solo dopo alcuni minuti di silenzio, si rese conto che Mark aveva smesso di parlare. Forse gli aveva posto una domanda e lo aveva colto sul fatto.
«Victor.» lo richiamò il medico prima di cacciare un sospiro, sembrava esausto. Con lente movenze si tolse gli occhiali tenendo le pupille puntate su di lui. «Non hai ascoltato una parola di quello che ho detto, vero?»
Era inutile mentire. «No.»
«Devo parlare con tuo zio Charlie?»
Il teppista annuì infilando le mani nelle tasche del giubbotto. Forse era meglio così.
«Sembri un adulto,» continuò Barlow come se ad un tratto, nel mezzo, avesse deciso di dare voce al proprio flusso di pensieri. «Ma sei solo un ragazzo che si è trovato in una situazione che non gli appartiene. Come mettersi di forza una scarpa sinistra, ma di un numero più piccolo al piede destro.»
Mark era sempre stato gentile nei suoi confronti, sin dal primo incontro e Vick notò solo in quel momento che non aveva mai ricambiato quella gentilezza, quella premura che aveva avuto nei suoi confronti anche dopo la morte di Hanna. «Mi dispiace.»
«Non è mica colpa tua se ti sei trovato in questa situazione, anzi...» si abbandonò sullo schienale. «Al posto tuo, molti ragazzi sarebbero crollati e avrebbero mollato ogni cosa.»
Le labbra di Price curvarono in un'ironico sorriso; era carino da parte sua pensare che non fosse crollato, da un po' di tempo pensava gli si leggesse in faccia. «Intendo che mi dispiace per tutto. Per come mi sono comportato con te, in ambito medico e personale. Dopo la morte di mamma ti ho sempre allontanato, ma come suo compagno ti ho accettato fin da subito. Per questo, anche se sapevo, non ho detto niente.» Prese a giocare con le proprie dita, ad intrecciarle distrattamente, «Sei riuscito a renderla felice e serena, dove io non potevo arrivare. Ti amava, mamma ti amava molto. Anche nell'ultimo periodo parlava spesso di te con il sorriso e dal modo in cui ti guardava era evidente che quel sentimento si fosse esaurito. Mi dispiace non averti reso le cose facili, hai sempre solo cercato di aiutarmi. E scusami, soprattutto per... Per essere scappato quando mi hai detto dell'operazione.» Nel mentre aveva abbassato il capo; era un gesto che non gli apparteneva, lui le affrontava le persone, con o senza sarcasmo. Eppure, davanti al compagno di sua madre, si ritrovava a sfuggirgli. Si preparò mentalmente per una sfuriata da parte del medico, ma che non arrivò.
«Victor,» la voce che accarezzò le pareti era incrinata.
Il ragazzo sollevò la testa solo per trovarsi dinanzi a sé la figura di Barlow in lacrime. S'irrigidì, non voleva farlo piangere, non era sua intenzione. Non riusciva ad afferrare le parole adatte per quel contesto, come si conforta un uomo che aveva una relazione amorosa con la propria madre ed è sempre stato gentile? Provò a dire qualcosa, ma dalla gola uscirono solo versi strozzati e vocali sconnesse senza senso.
Mark, vedendolo a disagio, ridacchiò asciugandosi le lacrime. «Non avevi mai visto un uomo piangere?»
«A dire il vero no, o almeno non ricordo di averlo mai visto.» ammise, ancora leggermente frastornato. Da bambino era convinto che gli uomini non piangessero. Osservandoli da lontano, carente di una figura paterna da poter seguire da vicino, li aveva sempre percepiti forti e privi di debolezze. Così, quando Victor si era ritrovato in quella scarpa stretta e si era scoperto estremamente fragile, aveva preso a nasconderla: doveva essere, nel suo caso apparire, forte per le persone intorno a lui. Forse era per quello che gli avevano fatto notare, positivamente sorpresi, che "ormai era un uomo", lo definivano maturo e spesso si dimenticavano che lui era ancora un adolescente privato dell'adolescenza. Era solo una mera fallacea imitazione di un adulto maturo.
«Anche gli uomini piangono. Siamo umani. Ognuno di noi ha dei lati fragili, esposti o meno.» Mark indossò i suoi occhiali da vista e li aggiustò con un dito fecendoli passare lungo il setto nasale. «Ti ringrazio.»
«Per cosa?»
«Per le tue parole.» prese a sfogliare le cartelle, «Farò il possibile affinché l'intervento vada a buon fine e per farti vincere questa guerra contro il cancro. Non perché l'ho promesso ad Hanna, cioè anche, ma sopratutto perché, anche se non sono tuo padre, sei il figlio della donna che ho amato e amo tutt'ora, e tengo a te quasi come fossi mio figlio.» La sua intenzione non era mai stata fargli da padre, perché lui ne aveva già uno anche se latente, ma l'affetto nei suoi confronti era inevitabilmente cresciuto con il loro rapporto.
Vick che si sentiva così solo, non avrebbe mai immaginato di essere circondato da affetto; sempre bendato dalla sua arte testarda di voler fare sempre tutto da solo, unita al voler proteggere gli altri dal dolore che avrebbe potuto causare loro. Ultimamente tutti non facevano altro che preoccuparsi per lui e si ritrovava ad esserne spaesato. «Mi fido di te, Mark. Sono nelle tue mani.»
§
Quando era uscito dall'ambulatorio, Daniel era rimasto lì ad attenderlo contro la sua volontà. Victor aveva cercato di ignorarlo con tutto se stesso, ma dagli sguardi degli estranei appariva che stesse sotto un programma di protezione della polizia. Mcdaniel lo aveva riaccompagnato a casa, lungo il tragitto non avevano parlato molto; il teppista gli serviva risposte monosillabi con la fronte poggiata sul finestrino dell'auto, mentre Danny non faceva altro che parlargli delle condizioni, a detta sua disastrose, in cui versava Chris per colpa esclusivamente sua, come se non avesse abbastanza sensi di colpa.
Quando arrivarono davanti al palazzo dove abitava, Price scese dall'auto e lo salutò con un maestoso dito medio e un «Fottiti, stronzo», prima di sparire dietro la porta dell'edificio.
Ultimamente gli sembrava che stesse rincorrendo il tempo nel vano tentativo di trattenerlo, cercava di riafferrare quella sabbia che gli scivolava via tra le dita senza successo. Nel caso fosse morto, era rimasta solo una cosa in sospeso: consegnare la lettera a Charlie; quella destinata a Christopher era già arrivata e letta dal destinatario senza il suo consenso. Aprì la porta di casa e, notando suo zio in cucina che gli rivolgeva le spalle, la chiuse sbattendola.
Charlie sussultò, gli tirò un'occhiataccia torva da sopra la spalla, «Ma che cazzo ti prende?»
«Si può sapere che ti passa per la testa?!» esclamò raggiungendolo tra i fornelli. «Perché hai mandato Daniel a controllarmi? Non bastavi già tu?»
«Lui è più veloce a correre.» lo punzecchiò, riferendosi a quando il teppista era scappato e aveva dato di matto. Non gliel'aveva ancora perdonata per avergli messo a soqquadro la stanza, Victor ne era certo. «Vuoi un caffè?» gli urlò dalla cucina mentre Vick, andato in camera sua, frugava nel cassetto della scrivania tra i pacchetti di sigarette intonsi, che aveva promesso di non fumare, e afferrava la lettera.
«Si, arrivo!» Se non gliel'avesse consegnata in quel momento, probabilmente non sarebbe più stato in grado di farlo. Non voleva avere anche questo rimpianto. Tornò in cucina.
L'uomo era seduto al tavolo, con una gamba accavallata all'altra, a bere una tazza di caffè. Gli indicò con il capo quella destinata lui, pronta e fumante, al suo fianco.
Il nipote si sedette, poggiò il foglio piegato sul ripiano in legno e lo trascinò lungo la superficie fino a renderglielo vicino. «Questa è per te, leggila solo quando sarò passato a miglior vita.» chiosò prima di bere un sorso di caffè, non prima di averci soffiato sopra.
«Che cos'è?» Saettò lo sguardo dal nipote alla lettera, scrutandoli entrambi con sospetto.
«Il mio testamento.» mentì, poi beve un altro sorso di caffè bollente, che gli lasciò un calore piacevole fino allo stomaco. «Ti lascio tutti i miei averi, compresa la vecchia macchina di mamma.»
Charlie lo fissò intensamente per un minuto che parve lunghissimo, con l'espressione imperscrutabile sul viso che lo fece sentire spoglio. L'uomo afferrò la lettera e la aprì, senza curarsi delle lamentele di Victor che gli intimava di chiuderla e di leggerla quando sarebbe deceduto.
"Vecchio con una crisi di mezza età" iniziava. "Sono morto." Charlie sollevò lo sguardo dal foglio per un secondo; Vick si era improvvisamente ammutolito.
"Sei appena uscito dalla mia camera, ci siamo appena parlati, e fa davvero strano scriverti una lettera. Se sto attento riesco a sentirti nell'altra stanza."
«Quando l'hai scritta?» domandò senza alzare gli occhi dalle parole d'inchiostro.
«Quando mi hai intimato di rischiare per non avere rimpianti, il giorno prima di incontrare... quello stronzo di mio padre.» continuava a sentirsi a disagio nel chiamare Thomas con quel epiteto che, uscito dalla sua bocca, non gli apparteneva. Gli sembrava di compire un enorme sforzo, le parole gli si incagliavano in gola e si attorcigliavano sulla lingua ogni volta; Victor avrebbe voluto continuare a chiamarlo semplicemente Lo Stronzo o Pezzo di Merda.
"So che ti stai domandando il perché io ti abbia scritto una lettera quando potrei dirti tutto in faccia, ma non ce la faccio. Preferisco la via della codardia. Probabilmente finirei per fare qualche battuta idiota perché non sono abituato a parlare di certe cose. Mi fa sentire a disagio, nudo. Ma prometto che, in questa lettera sarò sincero come non lo sono mai stato nemmeno da solo. Vorrei che tu mi facessi la stessa promessa, almeno nel tempo di questa lettera. D'accordo?
Vecchio, la verità è che io ho paura di quel vuoto. A te non spaventa? So cosa risponderesti:"
«"Si che mi spaventa, ma sono stanco di fuggire."» lesse ad alta voce. «Fuggire non serve a niente, te lo assicuro. I problemi e il dolore si trasferiscono con te ovunque tu vada.» aggiunse annuendo imperecettibilmente, prima di riposare gli occhi sulla lettera.
"In questi ultimi mesi ho imparato tanto sulla felicità. Cose all'apparenza scontate e semplici, ma che ci dimentichiamo sempre. Forse sono un po' banali, ma apprenderle ha cambiato, anche se di poco, il mio modo di vedere ciò che mi circonda. E allora ho deciso che voglio condividere tutto con te, Vecchio pervertito uscito da un film anni ottanta di dubbia qualità. Così, dopo averti procurato tante preoccupazioni e problemi in vita, spero di riuscire ad aiutarti e placare i tuoi tormenti dopo; anche se non sono morto di mia volontà.
Voglio ricambiare il favore."
«Parli come se aiutarti fosse un peso. Credo piuttosto che lo sia più per te, il lasciarti aiutare.» commentò Clark, bevve un sorso di caffè e continuò senza curarsi dell'espressione esterrefatta del nipote.
"Perciò, questo è il mio lascito: sono quasi certo che non si può essere sempre felici, forse sereni si. Però non bisogna aspettare che arrivi la felicità, a volte basta fare un passo e prendersela, altre volte aprire gli occhi e vivere il presente senza posticiparla. Abbiamo così grandi aspettative che sogniamo in grande e veniamo accecati dal sole, quando davanti a noi c'è una Margherita che aspetta solo di essere guardata. Il trucco è riconoscerla quando ci capita. Lo so, anche se dico che è un trucco non è facile. Non per quelli come noi, almeno. Ancorati al passato, ai fantasmi delle persone che non ci sono più e che ci hanno lasciato. Ci hanno lasciato non perché volessero, ma perché è la morte che ce li ha strappati via con violenza quando avevamo più bisogno di loro. Eppure, tu sei ancora su questa terra, vivo. Vivo per la mamma, per zia Leena, per me... e sopratutto per te. Non dimenticarlo, è importante. Sei vivo per te stesso."
«La morte ce li ha strappati con violenza», ripetè come a volersi imprimere quella frase a fuoco nella memoria.
"Il mio lato più egoistico ed egocentrico ti chiederebbe di ricordarmi, ma so cosa si prova. Non voglio che tu ti rattrista guardandoti indietro. Lo hai fatto per anni. Ora basta, non credi? Se devi ricordarmi, vorrei che avessi in mente l'immagine più bella di me. Tipo... Non so, con indosso un mantello svolazzante da super eroe, magari con un piede poggiato su una pietra in una posizione eroica.
Credo di star divagando anche su questo foglio."
Charlie ridacchiò. «Sei prolisso e, anche se mi hai scritto per non divagare e fare battute idiote, l'hai fatta lo stesso.»
Victor gonfiò le guance e sbuffò.
"Non voglio che mi ricordi come io ricordo la mamma, ecco.
So che ci riuscirai, supererai anche questa Vecchio Pervertito. Sei una delle persone più forti che conosco e mi dispiace non aver potuto evitarti anche questa perdita.
Ti voglio bene, zio Charlie. Grazie per essere stato al mio fianco.
Testa di Rapa, tuo nipote. "
Il silenzio che già copriva la cucina si estese anche nella mente dell'uomo. Iniziò a rigirarsi il foglio tra le mani, insoddisfatto in cerca di altro. Arreso la poggiò sul tavolo. «Questa lettera è tutto fuorché sincera fino in fondo, Testa di Rapa. Fa pensare che tu sia felice e guardandoti potrei dedurre di tutto, tranne che tu lo sia.» Aveva avveduto le omissioni di cui la lettera era pregna, dove l'unico obiettivo era soltanto di alleggerirlo. Lo apprezzò, ma allo stesso tempo lo innervosì. «So che non si può essere sempre felici, ma tu non lo sei da tempo, ormai.»
«Ti assicuro che lo sono stato davvero, e di recente.» Victor sorrise al ricordo maliconicamente felice di Christopher, poi lo ammise: «L'ho scritta per te, perché quando avresti dovuto leggerla io sarei stato già morto.»
Charlie sospirò, bevve un sorso di caffè fumante. Tenendo gli occhi fissi sulla lettera, convenne sincero: «Abbiamo una visione della felicità molto simile, noi due.»
«In cosa siamo diversi?»
«Che per me, anche ricordare può rendere felici. Io ricordo Leena e sono felice.» si confidò lo zio, mentre con lentezza ripiegava il foglio su se stesso. Stava evitando di guardare negli occhi suo nipote; erano molto più simili di quanto riuscissero ad ammettere. Anche lui, in quel momento, si sentì nudo. «Lo ammetto, è una felicità un po' malinconica, ma pensare ai momenti felici con lei... Certo, mi sono dimenticato di andare avanti con la mia vita senza di lei, ed è sbagliato. Mi sono aggrappato a quel vuoto dimenticando il resto. Credo che quelli come noi siano accecati dal dolore da non vedere nulla oltre quello.»
«Forse è vero.» tagliò corto, Victor. Lui oltre il proprio dolore vi aveva scorto l'amore, ma lo aveva lasciato volare via, o meglio, lo aveva scacciato in malo modo; adesso gli era rimasto un bruciore al cuore. «C'è chi dice che la felicità è dentro di noi, che è nelle nostre mani,» sviò al discorso principe, «che sia questione di prospettiva. Pensandoci, non sono d'accordo, non del tutto.»
«Perché?»
«Pensi che se dipendesse da me, non vorrei essere sempre felice? Se io guardo dentro di me, la felicità si allontana. Non riesco a vedere il bicchiere mezzo pieno, sarei stato un cieco a farlo in determinate situazioni.» Vick meditò per qualche secondo circondando la tazza con entrambe le mani. «Sarebbe come se fossi in un mare di merda e guardassi il sole.» Forse non era l'idea che molti avevano della felicità. Probabilmente, se lo avesse raccontato in giro, in pochi sarebbero stati d'accordo con lui. Ma cosa poteva farci? Per Victor, la felicità non era un meccanismo, un interruttore da accendere e spegnere a piacimento. Era più un attimo vissuto, i piccoli gesti fatti e ricevuti con affetto... era il significato che dava loro valore e li rendeva parte della propria felicità. Ciò non significava che fosse costante, tutt'altro. Era per quel motivo che dava a quegli attimi, tutto il valore che poteva affibbiargli, non li lasciava andare, non permetteva che scivolassero via dalla memoria e gli dava la giusta attenzione.
«Il sole secca la merda e la fa puzzare di più.» lo seguì nel ragionamento.
«Esatto.» Il teppista bevve. «Ci sono cose che, per quanto ti sforzi, non puoi vedere in modo positivo. Non si può essere sempre felici.»
«E se la felicità si potesse vivere solo nell'incoscienza del passato, per poi rendersi conto di averla vissuta solo dopo nei ricordi?» Clark gli lanciò un fubro sorriso, prima di coprirsi le labbra con il bordo della tazza e bere.
«Io credo più che, quando si è felici, si è consapevoli di esserlo.» sorrise tra sé e sé fissando il liquido nero senza vederlo davvero. Dinanzi a sé aveva i ricordi, quelli felici, che scorrevano come una pellicola sbiadita ma vivida. «Quei momenti in cui pensi "Non vorrei essere da nessun'altra parte se non qui, in questo luogo, in questo attimo." e vorresti durassero per sempre, viverci dentro, ma il tempo sembra scorrere più velocemente.» Si morse il labbro inferiore. Ne aveva vissuti di momenti del genere, ne era certo, ma ne rimembrava pochi; quelli con Christopher erano molto più numerosi. Aveva passato gran parte della propria adolescenza tra doveri, in completa solitudine. Non aveva mai avuto nemmeno un vero amico a cui affidarsi, con cui confidarsi e Daniel non gli era mai stato emotivamente vicino e di conforto, tanto meno lenitivo in quella solitudine che lo accompagnava.
«Un albero che cade in mezzo alla foresta, se non c'è nessuno a sentirlo, fa rumore?»
Vick aggrottò le sopracciglia, non comprendendone il nesso. «Cosa?»
Lo zio ridacchiò, aveva avuto la medesima reazione quando Leena gliel'aveva posta allo stesso modo.
«La felicità è tale perché va condivisa.» gli aveva detto Leena, divertita dalla sua espressione confusa.
«Nulla», disse Charlie al nipote, negando lentamente con il capo con un accenno di sorriso sulle labbra. «Pensavo solo che potremmo parlarne per ore, giorni, anni... e non troveremmo una risposta universale su come essere felici. Purtroppo, non c'è un manuale. Alcuni non trovano la propria risposta in una vita. Tu cerca di darti la tua e perseguila senza averne paura.» Lo zio si infilò la lettera in tasca, l'avrebbe custodita senz'altro con affetto. Era certo però, che in completa solitudine l'avrebbe riletta fino a consumarla; il sapere che conteneva omissioni non la rendeva meno efficiente all'obiettivo di alleggerirlo.
Il teppista ridacchiò flebile, consapevole che gli fosse sfuggito qualcosa. «Vale lo stesso per te.»
Un silenzio fragile li circondò, crepato dalle lancette dell'orologio appeso alla parete e il ronzio del vecchio frigo, che faceva loro compagnia.
Victor si alzò, si diresse ai fornelli con la tazza ancora piena di caffè, la poggiò sul pianale affianco e aprì il frigorifero.
«Allora? Vuoi continuare a nascondere le cose e tenerle solo per te?» esordì Charlie senza voltarsi verso di lui.
Il ragazzo rimase in silenzio per qualche minuto, afferrò la tanica del latte con estrema lentezza, per attardarsi nel rispondere. Poi: «Vecchio» richiamò la sua attenzione, «Devo dirti una cosa.»
«Dimmi.»
«Io... Io non riesco a ricordare momenti felici con la mamma.» Gli occhi si inunidirono mentre si versava del latte nel caffè. «O meglio, non riesco a ricordarla senza ripensare anche alla malattia. Non riesco a ricordare momenti felici prima che le fosse stato diagnosticato il cancro. Quest'ultimi, in me sono più vividi di quando li ho vissuti.» Ricordava dettagli che non aveva notato in passato, azioni, i suoni che lo avevano circondato in ospedale sembravano amplificati nella memoria. «Non... non riesco a ricordarla senza la malattia; le sue abitudini prima dei cicli di Chemioterapia, i suoi sorrisi tirati... Ricordo che leggeva tanto, chiusa nella sua stanza.»
Charlie rimase in silenzio, lo seguì con lo sguardo mentre si risedeva al suo fianco.
«So che è sbagliato, che non è giusto. Lei non vorrebbe che la ricordassi in questo modo.» Vick prese a giocare con le proprie dita sotto al tavolo, mentre tentava di mantenere una voce ferma. «Neanche io vorrei essere ricordato così. Cioè, guarda come sono ridotto. Vorrei sorridere, sembrare ottimista, così che voi avreste potuto avere un'immagine felice di me.» un sorriso ironico gli sformò le labbra come una smorfia.
«Anche se non lo sei?»
«Anche se non lo sono», annuì. «Eppure te l'avevo promesso.» In quel momento avrebbe solo voluto poggiare il suo capo sul grembo di Christopher mentre si faceva accarezzare il viso dalle sue calde dita. Invece era lì, a sentire la mancanza di qualcosa che non sarebbe mai più stata.
«Testa di rapa» lo richiamò mentre Victor si lasciava andare in un pianto timido e silenzioso. «Ti ricordi il tuo primo giorno di scuola alle elementari?»
Annuì. «C'eri anche tu», singhiozzò.
«Piangevi come un dannato moccioso perché non volevi andarci. Io cercavo di dirti che ormai eri grande e che non dovevi piangere.»
«La mamma invece non disse nulla.» continuò il nipote interrompendolo. «Mi abbracciò forte, aveva gli occhi lucidi e io le chiesi perché piangesse anche lei. Mi rispose che era solo felice perché il suo ometto stava crescendo.» Un dolce sorriso accennato si stampò sul suo viso emaciato, «Ricordo che aveva i capelli morbidi e mossi e gli occhi gentili. Mi disse che era fiera di me e lo sarebbe sempre stata. Che sapeva che ero in grado di fare qualsiasi cosa volessi, anche entrare a scuola tutto da solo.»
«Tua madre ci sapeva davvero fare con te.» commentò Clark, misto a stupore e compiacimento.
«Mi promise che sarebbe tornata a prendermi alla fine delle lezioni.» tirò sù con il naso.
«Un ricordo felice.» gli fece notare.
«Anche tu non te la cavi male con me, Vecchio.» ridacchiò asciugandosi le lacrime. Charlie era riuscito a ridargli un ricordo della sua infanzia legato ad Hanna; della malattia non c'era traccia. «Mi manca tanto.» sussurrò con occhi bassi e le ciglia umide.
«Manca tanto anche a me.» gli strinse una mano con affetto e la carezzò con movimenti del pollice.
«Grazie, Vecchio. Per tutto.»
Lo zio gli sorrise con occhi lucidi. «Grazie a te, Testa di rapa. Per ogni cosa. Ti voglio bene anche io, anche se me lo rendi spesso difficile.» aggiunse in seguito, riuscendo a strappargli un altro sorrisino.
Il cielo fuori dalla finestra era caliginoso. La pioggia cadeva fitta, bagnando l'asfalto grigio quasi quanto il cielo. Le nuvole scure precludevano l'azzurro del cielo.
Nota a piè di pagina:
Semplicemente.... - 2 👀
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