Capitolo 38
Victor chiuse la porta appoggiandovisi con tutto il corpo mentre il silenzio dell'appartamento, lo avvolse come una coperta di neve. In una mano stringeva una busta di plastica del supermercato semi vuota. Scivolò, strisciando con le spalle sulla superficie del portone, fino a sedersi sul pavimento freddo. Era solo. Completamente solo. Aveva lasciato Christopher, vedere il suo volto ferito per colpa sua faceva male, ma sapeva che sarebbe stato più doloroso se lo avesse lasciato con il cuore appesantito dal lutto proprio come il suo. Si strinse il berretto lasciandosi andare ad un pianto disperato e rumoroso, tra lacrime amaramente salate e singhiozzi che gli mozzavano il respiro.
Adesso, senza nessuno a guardarlo, poteva crollare. Adesso, senza alcuna speranza di sopravvivere, si poteva permettere di arrendersi. In fondo, i suoi polmoni erano destinati alla polvere. Lui era destinato a spegnersi. Era così che si era sentita sua madre quando le hanno riferito che era una malata terminale? Eppure, quella piccola parte di sé che non riusciva ad accettarlo, sembrava aggrapparsi con le unghie e con i denti pur di non arrendersi alla fine imminente. Quella situazione gli sembrava tanto ingiusta. La presa sul cappello si fece più stretta. Se lo sfilò e lo gettò da qualche parte con tutta la forza che possedeva. «’Fanculo!» sbraitò con il viso paonazzo e bagnato mentre il berretto, come la sua imprecazione, veniva inghiottito dal silenzio dell'appartamento. Si strinse le ginocchia al petto abbracciandosi le gambe per cercare un minimo di conforto, un qualche tipo di calore che potesse lenire il dolore interiore. Vi poggiò la fronte, era tutto inutile. Niente poteva equiparare gli abbracci di Chris, le battute sarcastiche di Charlie o le carezze di Hanna. Già, Hanna. La sua mamma.
«Mamma», singhiozzò in un sussurro.
La donna usava accarezzargli dolcemente i capelli con un sorriso dolce sul viso mentre, con orgoglio, gli ricordava che il suo bambino era cresciuto ed era diventato un bel bravo ragazzo. Quasi d’istintoVick si toccò il capo, in cerca di qualche rimanenza di quel calore fantasma. Solo in quel momento si ricordò che non aveva capelli e gli dolette quanto un ceffone in pieno viso.
«Ma-mamma» singhiozzò più forte, come se la donna potesse sentirlo e correre da lui. Tirò sù con il naso e senza asciugarsi le lacrime si alzò da terra con fatica, quasi inciampando sui propri piedi. Voleva sentirla vicina, almeno lei. Camminò lungo il corridoio, ingrigito dalla luce fioca che bagnava le pareti, fino a fermarsi davanti alla porta della camera che ultimamente utilizzava suo zio: la camera da letto di sua madre. Dalla sua morte non aveva avuto il coraggio di entrare, a malapena riusciva a sostare sull'uscio che il dolore della perdita iniziava a graffiargli la cassa toracica. Ma adesso, in quel momento, poteva finalmente permettersi di pensarla, di soffrirne, di esternare tutto. Non doveva più essere forte per nessuno, non doveva più mentire, nemmeno a sé stesso, che tutto andasse bene. Per troppo tempo aveva soffocato il suo dolore, insieme alle urla nel cuscino bagnato di lacrime. Afferrò la maniglia e spalancò la porta velocemente, come se volesse togliersi un cerotto. Si bloccò. Il letto coperto da una trapunta a fiori, l'armadio in legno scuro, i libri maltrattati sul comodino… Tutto era come lo ricordava. Charlie abitava lì da mesi, ma di lui sembrava non esservici traccia, se non qualche indumento sulla sedia e qualche profumo sul comò. Tutto sembrava come se Hanna fosse ancora in vita e dovesse tornare da un momento all'altro, come se anche Charlie la attendesse inconsciamente. Ogni dettaglio della stanza sembrava scavargli sempre più nel petto fino a formare una grossa voragine e comprese che il vuoto che aveva lasciato la perdita non lo avrebbe mai abbandonato, non sarebbe mai stato colmato. La voragine sarebbe sempre rimasta lì. La morte, anche se era ancora vivo, era entrata a far parte del suo essere.
«Non si guarisce, vero mamma? A questo dolore non c'è cura.» domandò agli oggetti di sua madre, come se potesse ottenere risposta. Stava impazzendo? Non gli importava, presto tutto sarebbe finito. «È possibile abituarsi al dolore?» domandò afono.
Entrò nella camera senza far rumore e si sedette al lato del letto matrimoniale, dove suo zio aveva avuto la forza di dormirci. Anche se il suo odore era ormai svanito, era stato un allocco ad evitare di entrare nella sua camera. Aveva scelto un palliativo, un allontanamento fisico dal niente. Il dolore era sempre vivo in lui, il che rasentava l’ironico. I ricordi di Hanna erano vividi, usavano sfiorare la sua mente come a dargli degli schiaffi improvvisi, in qualsiasi momento. Lo seguivano come un ombra. Accarezzò la morbida trapunta e la strinse osservando la propria mano eseguire quel gesto. Non gli bastava, quella vicinanza era troppo poca, rasentava lo zero. Quel letto, anche se identico, non era più di sua madre. Aveva bisogno di qualcosa che le appartenesse ancora.
Sollevò lo sguardo. «L'armadio.» I suoi vestiti. Si precipitò ad aprire le ante, sperando che quel Vecchio con una crisi di mezz’età non li avesse tolti o gettati. Le spalancò e rimase deluso: Charlie li aveva sostituiti con i suoi. Le lacrime, che sembravano non dargli tregua quel giorno, iniziarono a tagliargli nuovamente il volto. Victor iniziò comunque a cercare, doveva essere rimasto qualcosa, qualche indumento doveva essere sfuggito alla cernita. Frugò ovunque, senza degnarsi di rimettere a posto, di raccoglierli se cadevano a terra, senza preoccuparsi del disordine che iniziava a circondarlo. La stanza sembrava sempre più rimarcare i pensieri ingarbugliati, che aveva sempre avuto la premura di tenerli lontano da sé, nella sua scatola cranica.
Il ricordo del viso smunto e pallido di sua madre sul lettino ospedaliero, al suo ritorno da quella inutile fuga, sembrò dargli un ceffone a piena potenza sullo zigomo. Le parole confuse, fumose, allora distanti da lui, sembravano gridare rabbiose nella sua testa solo in quel momento, come se si fossero stancate di essere ignorate.
«Victor, va bene piangere. Soffri, vivi la perdita, accogli il dolore, attraversalo, ma non lasciarti incatenare. Vai avanti.» gli disse Charlie al suo fianco, stringendogli una spalla. «Devi vivere. So per certo che Hanna mi darebbe ragione.»
Victor si era limitato ad annuire distrattamente, come fosse vittima di un’ipnosi, con gli occhi puntati sul corpo senza vita della donna che gli aveva dato la vita, che lo aveva cresciuto da sola, senza vederlo davvero.
I suoi ricordi si interrompevano lì. Una coltre nebbiosa gli impediva di ricordare cosa fosse accaduto, almeno fino funerale. Quello era nitido nella sua memoria. Hanna sdraiata sul tessuto rosso, nella bara di legno chiaro, evidenziava il viso pallido come carta. Le palpebre chiuse; sembrava fosse assorta in un sonno senza sofferenze, pieno di sogni felici, in quel vestito bianco con gli orli in pizzo. Il cielo annuvolato che copriva il cimitero le ingrigiva la pelle, i fiori recisi parevano appassire celeri. Si era rifugiato in un mutismo concentrato, alienato dalla realtà.
Nessuna lacrima uscì mentre la bara si chiudeva.
Tentava di ingoiare e mandare giù quel nodo in gola, che sembrava strozzarlo, mentre la cassa scendeva per poggiarsi sul fondo, a qualche metro sotto terra.
Divorò quel dolore atroce dentro di sé, lontano da tutto e tutti, mentre il legno lucido scompariva sotto metri di terra.
Non era riuscito a proferire parola per giorni, come se parlando quella matassa enorme che aveva inghiottito, potesse uscirgli dalla bocca e mostrare tutto. Inconsciamente aveva cercato di tenere il dolore anche lontano da sé. Il funerale doveva essere un modo, un occasione per chi restava, di mettere un punto, salutare la persona che li aveva lasciati. Andare avanti con la propria vita perché il tempo non smetteva di scorrere, non gli importava di niente e di nessuno. Non era facile, Victor lo sapeva.
Non ci era riuscito. Aveva provato a metterci un punto facendo visita alla sua tomba insieme a Christopher, ma a nulla era valso lo sforzo. Il dolore continuava a paralizzarlo e ne aveva avuto la conferma quando, quello stesso giorno, dopo essere corso via dall'ospedale per il disastroso esito degli esami, non aveva avuto il coraggio nemmeno di poggiare un piede sull'asfalto del parcheggio davanti al cimitero.
Una gonna. Si era salvata una gonna. L’afferrò con urgenza per stringerla al petto. Il tessuto era leggero, morbido, grigio con dei piccoli fiori rosa sparsi. «Mamma», sibilò rauco prima di affondarci il viso e annusare in cerca di qualche reminescenza del profumo confortante di sua madre. Si sedette di peso ai piedi del letto. Si separò dall’indumento solo per poterlo scrutare, poggiato sulle sue gambe. Lisciò il tessuto, cercando di togliere delle grinze. Ci fu un senso di rammarico quando Vick si accorse che l'aveva bagnata con le sue lacrime.
Tirò su con il naso, il silenzio asfissiante fu crepato dallo squillo del telefono. Sussultò, era immerso nel suo mare di buia sofferenza e lo avevano appena trascinato con forza in superficie. Tentò di riprendere il respiro, di incanalare tutta l'aria che i suoi polmoni riuscivano a contenere, ma sembrava che fosse entrata solo l'acqua. Si sentiva annegare.
Chi era? Non voleva né parlare né sentire nessuno. Estrasse lentamente il cellulare dalla tasca: era Christopher. Per quanto la suoneria gli risultasse fastidiosa, si perse nel leggere lettera per lettera il suo nome lampeggiare sullo schermo. Non stavano più insieme, lo aveva lasciato. Nessuno dei due voleva mettere fine a quella relazione, ma era stato necessario. Forse, pensò Victor, si erano incontrati e innamorati nel momento sbagliato, se per loro un tempo giusto esisteva. Quello, forse, non era il loro tempo. Chiuse lentamente gli occhi, ormai rossi e gonfi. Se avesse saputo che quegli abbracci sarebbero stati gli ultimi, l’avrebbe stretto più forte. Se avesse saputo che quei baci sarebbero stati gli ultimi, l’avrebbe baciato più a fondo, assaporato con più minuziosità il suo sapore nella sua bocca. Se avesse saputo che sarebbe stata l'ultima volta che avrebbe potuto accarezzargli il viso, i capelli, il corpo lo avrebbe fatto con più attenzione. Invece era stato uno stupido, quegli attimi non sarebbero più tornati. Schiuse le palpebre, riagganciò senza rispondere e lo bloccò, così che non potesse più contattarlo in alcun modo. Lanciò il telefono sul letto prima di abbassare la testa fino alle ginocchia e rannicchiarsi su sé stesso. La fronte toccava l’indumento mentre il tessuto si impegnava sempre più di lacrime. Singhiozzò ed urlò.
«Mamma, ti prego, aiutami!» gridò disperato. «Aiutami! Fammi accettare la mia morte e la tua, non farmi soffrire più! Dammi conforto, ho il cuore a pezzi!» Anche se era stato lui a mettere fine alla loro relazione. «Ho appena detto addio alla persona che amo», sussurrò poi. Arpionò tra le dita il tessuto, fino a stropicciarlo. Il suo cuore non stava beneficiando di quella blanda vicinanza, non diveniva più leggero, bensì si appesantiva allo scorrere dei minuti.
Si alzò in piedi e indossò la gonna. Se qualcuno lo avesse visto, avrebbe pensato fosse impazzito, ma non gli importava. Ormai non gli importava più di niente. La morte gli stava togliendo tutto, gli stava strappando via ogni cosa. Si sentiva così solo, cullato tra le sue braccia. Il silenzio lo soffocava, gli urlava forte nelle orecchie. Strinse le labbra, era stanco. Afferrò il telefono e fece partire “Don’t Look Back In Anger” degli Oasis, la canzone preferita di Hanna, o almeno così credeva. Non glielo aveva mai chiesto. La ascoltava spesso però, la canticchiava sempre mentre cucinava. Usava sentirla alla radiolina, poggiata sul ripiano della cucina dopo una giornata lavorativa. Inseriva la cassetta consunta, si legava i suoi capelli rosso rame in una coda alta e la stanchezza sembrava abbandonarla per un po'. La riproduceva sopratutto nell'ultimo periodo, quando la malattia l'aveva ghermita tra le sue fauci, fino a quando la radio non si ruppe scivolando a terra. Era stata colpa della malattia di sua madre, le aveva tolto le energie e l'aveva fatta cadere trasciandola con sé. Quando Vick era tornato, l'aveva trovata a terra, incapace di rialzarsi con le proprie forze e, i resti della cassetta e della radio, costellavano il pavimento.
«Mi dispiace, l’ho rotta.» gli aveva detto con un sorriso costernato sulle labbra. «Per favore, potresti aiutarmi ad alzarmi?» gli aveva chiesto poi, senza guardarlo negli occhi. Aveva vergogna, anche se non doveva. Non era stata lei a volere il cancro, ma il contrario. La malattia le aveva strappato anche quella cassetta intrisa di ricordi.
Adesso che ci pensava, Victor avrebbe tanto voluto ricomprargliela.
«”She knows it’s too late as we're walking on by
Her soul slides away”*», canticchiò Victor, con voce spezzata, lungo il corridoio.
Era morta da mesi, eppure scorgeva la sua sagoma viva ovunque tra la folla, sulle strade, nei vicoli... I primi tempi correva verso di lei, ebbro di illusioni per poi rimanere deluso. Con il passare del tempo si era limitato a guardarla da lontano, senza nemmeno salutarla. Negli ultimi tempi, invece, aveva tentato di ignorarla, di dimenticarsi che non ci fosse più.
«””But don't look back in anger" I heard you say”», continuò prendendo la busta che aveva lasciato davanti alla porta d'ingresso.
Era inutile rimuginarci. Non poteva tornare indietro e cambiare le cose, come non poteva vivere nel futuro perché non ci sarebbe mai stato.
«”Take me to the place where you go”». Si sedette sul piano cucina, di fianco al lavandino. Rovistò nella busta in plastica semivuota, estrasse un accendino e uno dei dieci pacchetti di sigarette che aveva comprato tornando dal cimitero. Era un malato terminale, tutto aveva perso importanza. Poteva fumare quanto voleva, no?
«”Where nobody knows if it's night or day”» canticchiò seguendo la canzone, mentre scartava il pacchetto per infilarsi una sigaretta tra le labbra. Poggiò il cellulare vicino alla busta, tirò la testa indietro fino a poggiarla sulle piastrelle fredde della parete. Di lui non sarebbe rimasto nulla, se non un cumulo di ceneri come quelle delle sigarette catramose di cui amava intossicarsi i polmoni.
La accese, aspirò e tossì forte. Ma non gli importava se il suo corpo non lo gradisse, era stato lui il primo a tradirlo. Fece un altro tiro guardando fuori dalla finestra. Non aveva alcuna intenzione di circondarsi dei suoi cari, pieni di compassione per lui, e dar loro conforto. Non sarebbe mai riuscito a dir loro che sarebbe andato tutto bene, che lui sarebbe stato felice, che andava bene così. Lui voleva vivere, voleva essere felice in quella vita e non dopo la morte, nel vuoto buio dell’incognita. Si sentiva impotente dinanzi alla morte ancora una volta. Chiuse le palpebre e pregò che, siccome quella vita non era destinata a loro, di poter incontrare di nuovo Christopher in una vita futura, se ci fosse stata. Di potersi innamorare di lui ancora una volta.
Aprì gli occhi, il fumo catramoso accarezzò il vetro della finestra. Le nuvole ingrigivano il cielo, fuori l'odore di pioggia.
§
Guardava le nuvole scure, l'aria era umida. Sperava che la pioggia non lo colpisse, aveva dimenticato di prendere l'ombrello in ufficio; dopo aver ricevuto la chiamata da Barlow, Thomas era uscito di corsa parlando al telefono con Charlie, per decidere sul da farsi. Aveva anche provato a chiamare Victor, ma i tentativi furono falimentari: non aveva ricevuto risposta. Gli aveva lasciato un paio di messaggi sulla segreteria telefonica, consapevole che non li avrebbe ascoltati, soprattutto se erano i suoi. Aveva provato a cercarlo nel locale di Bob Harden e all’Edera, ma si erano rivelati un buco nell'acqua. Aveva fatto un tentativo anche al cimitero, collezionando l'ennesimo insuccesso. Victor era riuscito indirettamente e inconsapevolmente a fargli visitare, per la prima volta, la tomba di Hanna. Thomas non avrebbe mai immaginato sarebbe successo in quelle peculiari cicorstanze.
«La sua macchina è qui, dev'essere a casa.» dedusse Charlie, tornato a Boston rischiando delle multe per eccesso di velocità, andandogli incontro.
Thomas era appoggiato con il sedere alla carrozzeria della propria auto, parcheggiata davanti al palazzo in cui abitavano Vick e Clark, dove aveva aspettato pazientemente il ritorno in città di quest'ultimo. «Ci hai messo troppo tempo, potevo provare a parlarci.» rispose seccato, per lui era stato snervante aspettare con le mani in mano, era a un passo da suo figlio e non poteva aiutarlo. Non si era mai sentito così impotente come in quel momento.
«Certo, perché ti avrebbe aperto se avessi suonato il campanello.» esordì con ironia Clark, mentre faceva strada nel palazzo. «Ti avrebbe sicuramente dato retta.»
«Sempre meglio di starsene con le mani in mano.» sottolineò Price, seguendolo fino all'appartamento. Non sarebbero mai andati d'accordo, i dissapori erano troppo amari anche solo da deglutire.
Charlie lasciò cadere la provocazione e cadde il silenzio. Estrasse le chiavi e le inserì nella toppa.
Quando la porta dell'appartamento fu spalancata, li accolse la figura fragile di Victor circondata dal fumo. Il ragazzo inerme, con occhi abbacinati fissava il vuoto, seduto accanto al lavello mentre la sigaretta gli si consumava tra le dita. Le lacrime, ormai secche sulle gote scavate, lo avevano svuotato di ogni. Saturo di pensieri, sembrava non essersi accorto della presenza dei due uomini.
Charlie chiuse la porta con forza e il boato fece sussultare Vick, che sembrò fare ritorno nel suo corpo; sembrava un fantasma. «Ti lascio per un cazzo di giorno da solo e mandi tutto a fanculo?!» gridò lo zio che in un paio di falcate gli fu vicino, gli strappò la sigaretta di mano e la getto nel lavandino insieme alle altre cicche.
Victor lo osservò, sembrava si fosse appena imbattuto in un alieno. Corrugò la fronte, «Non dovevi essere fuori città?» gracchiò. Gli Oasis in sottofondo, che cantavano incessantemente “Don’t Look Back In Anger” ormai da ore, furono zittiti da Clark. Eppure, a Vick gli erano parsi giorni, mesi perfino. Il tempo si era ghiacciato in quell'appartamento, come l'ingranaggio di un orologio che si blocca, arrestando il normale funzionamento e rompersi.
«Solo questo hai da dire?!» Charlie stava ricorrendo a tutto il suo autocontrollo, ormai al limite, per non dare di matto. Era cosciente che con quel testa di rapa di suo nipote avrebbe sortito l'effetto contrario. «Ti trovo con indosso una gonna di Hanna, a fumare sigarette anche se hai il cancro, e mi chiedi perché sono già tornato?!»
«Giusto…» il ragazzo abbassò gli occhi, costernato della sua dimenticanza. «Morirò presto.»
«Non morirai, ho parlato con Mark.»
«Allora ti ha detto anche che la Chemio non sta funzionando.» il nipote alzò la testa per sostenere lo sguardo di Clark. «Ti ha detto anche che devo operarmi?! Dimmi, con quali soldi dovrei pagare l'intervento?!» gradualmente iniziò ad alzare la voce, gli graffiava in gola. «È tutto inutile, non capisci?!» urlò.
«Non è tutto inutile, Victor.» s’intromise il padre, ottenendo l'attenzione di entrambi su di sé. Dalla loro espressione, pareva si fossero dimenticati della sua presenza.
Lo sguardo di Vick s’indurì all'istante. «Che ci fa lui qui?!» si rivolse a Charlie, scendendo dal ripiano mentre indicava la figura dell'uomo con cui, per sua sfortuna, condivideva soltanto il suo stesso cognome e qualche somiglianza estetica. «Ti sei portato i rinforzi per… per cosa?! Per affrontare un terminale?!»
«Smettila di definirti terminale, non lo sei!» ribadì Clark.
«Perché sono tuo padre.» affermò Thomas lapidario nello stesso momento, sovrastando il suo ex cognato.
Il silenzio che ne seguì, sottile e imbarazzante, si protrasse per alcuni minuti, prima di essere squarciato da un’afona risata sarcastica di Victor. Il suo viso si era distorto in una smorfia tirata di sorriso mentre le sue iridi sembravano non aver colto l’ilarità. «Ah, si?» gli si avvicinò di qualche passo, «E allora dov'eri quando la mamma ha dovuto lasciare il lavoro? Dov'eri quando era tutto sulle mie spalle? Te lo dico io dov—»
«È qui adesso.» lo interruppe Charlie prima che, in quel momento di estrema fragilità e privo di lucidità, il ragazzo potesse dire qualcosa di cui pentirsi. «E anche io sono qui. Non sei solo.»
Con sorpresa, il teppista si voltò di scatto verso Clark. Era la prima volta che suo zio prendeva le parti di suo padre. Che diavolo stava succedendo? Si erano coalizzati? Ormai, poco importava. «Non ho bisogno di nessuno, adesso. Non più.» mentì perdendosi a guardare lo spigolo del tavolo. «Non m'importa se non ci credete, io morirò presto e non potete farci niente.»
«So cosa stai facendo.»
Vick guardò suo padre con uno stanco e sardonico sorriso. «Cosa sto facendo? Sentiamo».
«Stai cercando di mantenere, in modo quasi ossessivo, il controllo per evitare di soffrire di più di quanto tu non lo stia facendo già.» affermò Thomas avvicinandosi di un passo. Stava cercando di mantenere la calma, anche per Charlie, che aveva miseramente fallito entrando come una furia e gridando contro il ragazzo.
«Non capisci un cazzo.» Strinse le labbra in una linea sottile e serrò la mascella. Cosa ne sapeva lui, che era pressoché uno sconosciuto? Perché mostrava quella presunzione?
«Invece ho ragione, Victor. La terapia non ha funzionato, ti sei ritrovato a dover fare un intervento e questi mesi sofferti ti sono sembrati uno spreco di tempo.» il padre si avvicinò ancora, sembrava un cacciatore in una battuta di caccia che si avvicina lentamente a un cervo spaventato. «E hai pensato che se ti fossi lasciato andare, se non avessi fatto un altro tentativo, sottoponendoti all'intervento, avresti evitato altre delusioni e sofferenze.»
Gli occhi di Victor divennero lucidi, pensava che ormai le avesse esaurite tutte, le lacrime. Arrendersi era più semplice e liberatorio di continuare a lottare. Fuggire dai problemi e sopportare i “se” gli appariva di gran lunga più sopportabile. Sbattè le palpebre per impedirsi di esternare qualsiasi tipo d’emozione. Era una diga a cui all'acqua sarebbe bastato poco per zampillare fuori da quelle crepe che tappezzavano la superficie e farsi strada per riprendere la sua corsa naturale. Ma non era solo in quel momento, in quell'appartamento c'erano due paia d’occhi che potevano scorgere i cocci di ciò che era rimasto di sé, nascosti sotto al tappeto. Rimase in silenzio. Cosa poteva dire? Dargli ragione era fuori discussione, sarebbe stato un errore che avrebbe rimpianto nell'immediato futuro.
«Io e tuo padre ti stiamo dicendo che c'è speranza, che tutto ciò che hai passato sarà stato inutile solo se non farai l'operazione.» intervenne Charlie. «Smettila di scappare, non sei mai stato uno che si arrende.»
«Forse lo sono», ammise il teppista con voce sommessa, «o forse lo sono diventato» quando la stanchezza aveva avuto il sopravvento sul resto.
«Non lo sei.» Thomas gli poggiò una mano sulla nuca nuda, stranamente il figlio non si sottrasse al contatto.
«Lo sono, invece.» il mento tremava mentre il ragazzo non osava sollevare il capo. «Ho rotto con Christopher, una delle poche cose belle che mi siano capitate nella vita.» ammise con la voce che s’incrinava fino a spezzarsi.
«E lo hai allontanato?» Charlie non riusciva a comprenderlo fino in fondo, come non era riuscito a capire il medesimo comportamento di Hanna; Perché allontanare la persona amata?
«È per questo che l'ho fatto.» Victor, nel tentativo di celare le lacrime, tentò di asciugarsi goffamente il volto con la manica della felpa. Percepì il pollice della mano di suo padre, poggiata ancora sulla nuca, accarezzarlo con delicatezza. Non sapeva che l'uomo ne fosse capace. «Mi sono fatto odiare, ho detto cose orribili, così quando sarei morto non avrebbe…» singghiozzò. Non ce la faceva più.
«Che ne dici se ne parliamo dopo? Sempre se vorrai.» cercò di sviare il discorso, Thomas.
Il silenzio si ripresentò come un vecchio amico caotico e rumoroso, interrotto solo dai singulti che facevano sussultare le spalle di Vick; era la prima volta che si faceva vedere in quello stato.
Clark si avvicinò e prese ad accarezzargli la schiena con movimenti circolari.
Il teppista tirò sù con il naso. «La farò, okay?»
«Cosa?» domandarono i due all'unisono, presi alla sprovvista.
«L'operazione. Farò l'intervento.» pulì il moccio con la manica umida della felpa, «Contenti?»
«Non siamo scontenti», rispose lo zio con un ghigno sornione.
«’fanculo.»
«A proposito, dove hai preso la gonna di Hanna?» cambiò discorso Clark, preso dalla curiosità. Ricordava di aver trasferito tutto il vestiario della sorella in degli scatoloni e depositati momentaneamente nel garage di Bob.
«Nell'armadio; ti è sfuggita.»
«Aspetta, aspetta.» lo fermò con un gesto della mano. «Sei entrato in camera mia?»
«È la camera della mamma.» lo corresse Vick incrociando finalmente il suo sguardo con occhi rossi e gonfi. «E si, sono entrato in camera per prendere qualcosa che mi ricordasse di lei, ma hai buttato via tutto senza dirmi niente.» Sapeva che era appropriato disfarsi di alcuni oggetti ma, se avesse avuto modo di frugarvici, ne avrebbe conservato qualcosa. Qualsiasi cosa: un fermaglio, un elastico per capelli, una maglia… Nello stato in cui si trovava, però, era ben conscio che avrebbe avuto l’impellente bisogno di conservare tutto, senza cambiargli luogo.
«Non ho gettato nulla, sono da Bob. Avevo bisogno di spazio, mi ero trasferito qui da mesi ed aspettavo che mi proponessi di aiutarti a mettere via le cose di Hanna, ma non è mai successo. So che non eri pronto e, quasi sicuramente, non lo sei nemmeno adesso, allora ho dovuto farlo da solo.»
Victor ne fu sollevato: suo zio non aveva buttato via niente. Ma aveva dolorosamente ragione, non riusciva nemmeno ad affacciarsi alla sua stanza.
«Ciò non toglie che hai frugato nella mia roba.» lo riprese infastidito incamminandosi verso la propria stanza. «Spero tu l'abbia lasciata come l’hai…»
«Ci siamo», mormorò il ragazzo accarezzandosi distrattamente il capo.
Thomas corrugò le sopracciglia con bailamme, prima di udire le urla del suo ex migliore amico intrise di cieca rabbia.
«Brutto pezzo di Testa di rapa!» le grida oltrepassavano il corridoio e le pareti. Il teppista sperò che le mura fossero abbastanza spesse da evitare lamentele da parte dei vicini. «Sembra ci sia passato un uragano! Cazzo!»
Padre e figlio sghignazzarono, poi si ammutolirono nell'immediato nel sentire il rumore di passi pesanti e irosi farsi più vicini fino allo scorgere la figura di Clark.
«Thom», esordì e il diretto interessato sussultò. Non lo chiamava con il suo soprannome da quando… da quel giorno. «Metti a letto tuo figlio, fallo riposare prima di cena e toglimelo dalla vista!», lo indicò iracondo, «Prima che lo appenda e lo venda ad una scolaresca come piñata.» E senza attendere repliche, certo che l'ordine sarebbe stato incontestabilmente eseguito, tornò in camera borbottando parolacce di dubbia esistenza.
I Price sentirono sbattere la porta.
«L'hai fatto proprio incazzare», sottolineò Thomas impressionato.
§
«Non c'è bisogno che mi segui.» soffiò acido Victor con Thomas alle calcagna, lungo il corridoio. Si fermò davanti alla porta della propria camera, il padre lo imitò. Lo guardò in cagnesco con la mano sulla maniglia, in sottofondo i borbottii ovattati di Charlie e qualche tonfo che provenivano dalla stanza di fronte. «Non sono più un bambino, non devi mettermi a letto. E poi, cosa più importante, non ti voglio in camera mia.»
«Non mi pare di averti chiesto cosa vuoi», replicò l'uomo con le mani conficcate nelle tasche. «So che non dormirai e non ho intenzione di lasciarti da solo con quei pensieri opprimenti e autodistruttivi che ti ritrovi.»
Ma che gli era preso tutt’ad un tratto? Da quando riusciva a comprenderlo a quel modo? Gli si leggeva così bene in faccia? Credeva d’essere molto più pragmatico e imperscrutabile. Solitamente le persone non capivano mai a cosa pensasse, tanto meno come stesse, fatta eccezione per Christopher, ovviamente; lui faceva sempre eccezione. «Bhe, non hai pensato che ormai ci sono abituato, a questi pensieri?» spalancò la porta. «Sono sicuramente una compagnia più gradita della tua.»
Thomas lo seguì senza fiatare, fingendo che il teppista, somigliante più ad un porcospino acciambellato su sé stesso che mostrava gli aculei per difendersi, non avesse proferito parola. Tracciò con lo sguardo ogni centimetro della stanza di suo figlio, in cui non aveva mai avuto modo di metterci piede. Si chiuse la porta alle spalle mentre osservava suo figlio stendersi sul letto con lenti gesti. Ormai si stava facendo buio, le nuvole scure coprivano il tramonto.
«Bene, sono a letto.» esordì celere, «Ora puoi andare. Bye Bye, sayonara, arrivederci, au revoir, auf wiedersehen, addio. A mai più.»
«Non fare il deficiente», Thomas sbuffò un sorriso prima di stendersi supino al suo fianco. Le spalle si sfioravano dando un senso di calore in quella stanza cupa e gelida. L'uomo poggiava il piede destro a terra per non cadere, mentre l'altra gamba era stesa accanto a quelle di suo figlio, senza toccarsi.
I loro respiri erano regolari, l'aria umida sembrava essere impregnata di dolore, era quasi soffocante.
«Hai paura che cambi idea?» domandò d'improvviso Victor.
«Riguardo cosa?»
«L'intervento.»
«Vuoi arrenderti?» Thomas si girò a guardarlo da sopra la spalla inarcando un sopracciglio.
Vick si limitò ad inumidirsi distrattamente le labbra senza degnarlo di una risposta.
Il padre sospirò ripuntando il viso verso il soffitto. Avrebbe voluto essere capace di alleggerirlo dalle preoccupazioni troppo grandi per le sue spalle da adolescente. Era solo un uomo, ed era impotente. «Sai, ci sei riuscito.»
«A fare cosa?»
«A farmi visitare la sua tomba.»
Il teppista si sollevò su un gomito e finalmente incrociò il suo sguardo. «Cosa?»
«Ho fatto visita ad Hanna, mentre ti cercavo per tutta la città senza trovarti.» si giustificò quasi, «Pensavo fossi lì.»
Il ragazzo replicò con una risata flebile mentre si rimetteva giù. «Sei meno codardo di me.» Lui non era nemmeno riuscito a scendere dall’auto.
«Se non fosse stato per te, non avrei avuto il coraggio. Non sarei mai andato sulla sua tomba.» ammise Thomas, pacato. «Le ho parlato.»
«Davvero?» sussurrò Victor con occhi obnubilati fissi al soffitto.
«Le ho chiesto scusa, anche se non può più sentirmi.»
«Gia…» Lei ormai non poteva più sentirli, ovunque fosse. Rimanevano solo i loro ricordi, i loro rimpianti. Rimaneva l'impotenza di Victor dinanzi alla morte e i suoi “perché”. Perché era morta? Perché lo aveva lasciato? Perché il cancro aveva colpito la sua mamma? Perché proprio lei? «Anche se ormai non credo le servano più, le tue scuse. I morti sono morti, sono vivi solo nei ricordi dei vivi. A volte nemmeno lì.»
«Le ho promesso che avrei fatto il padre, che mi sarei preso cura di te e avrei fatto di tutto per aiutarti ad essere felice.»
«È un po' troppo pretenziosa come promessa, non credi?» Il ragazzo sollevò entrambe le sopracciglia arcuando la bocca verso il basso. «Dalla facilità con cui hai fatto la promessa, sembra che la felicità sia cosa facile da raggiungere. Molti non riescono in una vita.»
«Cazzo, più parlo con te, più mi sembri un uomo adulto in un corpo da adolescente!» esclamò tra la sorpresa, l'ironia e la presa di coscienza che, se era così maturo, era perché la vita lo aveva costretto a crescere in fretta. «A tratti parli come un vecchio.»
«È un complimento?»
«D'altronde, poi fai cazzate come quella di rifiutare di sottoporti all'intervento, sparire come se ti avesse inghiottito la terra e fumare nonostante il cancro ai polmoni.» elencò, ignorando il breve intervento di Victor, continuando il suo flusso di riflessioni espresse ad alta voce.
Sbuffò, «Sei sicuro di volermi rinfacciare tutto ciò? Perché non torniamo a quanto sono maturo, responsabile e bellissimo?»
«Bellissimo?», per Thomas diventava difficile quando sfoderava il sarcasmo come scudo. «Victor» lo ammonì in un sospiro.
Il silenzio inondò la camera mentre lentamente i mobili che li circondavano diventavano ombre scure, semplici contorni.
«Adesso…» Vick tirò su con il naso ringraziando mentalmente il cielo caliginoso e il calar del sole che gli permettevano di indossare una maschera che celava gran parte del vero se. «Sei felice?»
«È difficile dirlo», meditò, «Non lo sono perché hai il cancro, ma in questo momento, al tuo fianco, mi sento in pace. Lo sono perché ho una moglie che mi ama e tre figli in gamba. Sono un uomo fortunato, ma non me n'ero reso conto prima di… Prima che...»
«Prima del cancro» concluse la frase al suo posto. Victor annuì lentamente, il padre lo scorse con la coda dell'occhio udendo il fruscio sul cuscino. Erano ormai diventati una sagoma nera l'uno per l'altro. «Non pensavo si potesse essere felici ed infelici nello stesso momento,» degli ossimori viventi.
«Tu sei felice?» domandò di rimando, a bruciapelo.
«No, ma lo sono stato» con Christopher, replicò omettendo l’ultima parte. Chiuse gli occhi; non faceva differenza tenerli aperti, e si chiese se la felicità potesse ghermirlo anche se non vi era più luce intorno a lui. «Ma ora è solo la pace che cerco.» Non gli rimaneva che sperare in quella, in fondo non si poteva essere sempre felici. L'aria si fece ben presto pregna del peso delle sue lacrime silenti.
Thomas si alzò lentamente, tentando di non rovinare il suo assopimento, ma si rese conto solo dopo aver afferrato la maniglia, che suo figlio non dormiva affatto.
«Non ti odio.» chiosò il ragazzo con voce liquida, «Sono solo arrabbiato.»
Il padre, di spalle, non rispose. Rimase fermo per qualche minuto, prima di uscire e chiudersi la porta alle spalle.
Thomas lo lasciò finalmente solo. Victor aveva pianto nel buio, al suo fianco; non sapeva se l'uomo avesse fatto volutamente finta di nulla, di non aver percepito i suoi lievi singulti, il fruscio delle lenzuola quando si era portato le mani ad asciugarsi il viso, ma lo apprezzò. Sperò che, quando e se avesse avuto la forza di aprire la finestra, l'aria trascinasse via con sé una parte di quel dolore di vuoto lancinante che gli comprimeva il petto e stringeva il cuore , fino a lasciarlo boccheggiante e desideroso di aria priva di umidità.
§
La porta della camera di Hanna, ora di Charlie, era rimasta socchiusa e il buio faceva capolino dallo spiraglio. Se ci fosse entrato e l'avesse vista, cosa sarebbe cambiato? Thomas percorse il corridoio, senza degnarla più di uno sguardo, in cucina trovò Charlie intento a preparare la cena con gesti meccanici; guardava i fornelli dinanzi a sé senza vederli davvero.
Price si sedette al tavolino in completo silenzio, facendo attenzione a non fare rumore con i piedi della sedia nel tirarla indietro.
La quiete perpetuò per altri pochi minuti, prima che Clark riprendesse consapevolezza del proprio corpo. «Ha esagerato.» esordì poggiando i palmi sul bordo del mobile, continuando a dargli le spalle.
«Ti riferisci al disordine in camera?»
«Mi riferisco a tutto.» Charlie rizzò la schiena. «Caffè?» domandò cominciando a prepararlo.
Thomas non rispose. Sapeva che, anche se avesse rifiutato, si sarebbe ritrovato sotto al naso una tazza di caffè fumante. «Sai,» riflettè ad alta voce, «Non credo di aver visto tanto dolore spezzare così un ragazzo.»
«Sta vivendo e sta buttando fuori tutto il dolore che non si è mai permesso di mostrare.» commentò Charlie portando con se un silenzio riempitivo. Finì di preparare il caffè, lo versò in due tazze.
«Charlie io… Io ho sbagliato molte volte con Victor. L'ho lasciato solo.» continuò Thomas senza preavviso, sembrava proseguire un flusso di pensieri e che avesse deciso di esporli ad alta voce. «Eppure, prima mi hai difeso…» lasciò la frase in sospeso, la domanda implicita.
«Anche io ho sbagliato con lui.» ammise invece l'altro, sedendosi al suo fianco e porgendogli la sua tazza.
«Dove avresti sbagliato, tu?» Aggrottò la fronte iniziando a bere con lo sguardo puntato sul suo ex migliore amico.
«Anche io l'ho lasciato solo.» bevve anch’egli un sorso di caffè fumante. «Spesso ci dimentichiamo che è solo un ragazzo, io stesso lo avevo rimosso»
Price sbuffò un sorriso, «Sembra un uomo nel corpo di un adolescente.»
Annuì. «Non ho intenzione di commettere di nuovo lo stesso errore.»
«Quando lo avresti lasciato solo? Ci sei sempre stato per lui.»
«Sai, al funerale di Hanna, io e Mark parlammo molto. Ci scambiammo simpatici aneddoti su di lei cercando di ricordarla con un sorriso e di abituarci alla perdita. Di elaborare, insomma.» Charlie accavallò la gamba sull’altra mentre osservava la tazza fumante dinanzi a sé senza vederla. Davanti ai suoi occhi aveva i ricordi che sfracciavano sulle sue pupille come un film, lontano. «Lo feci anche con Leena. Victor no. Victor rimase in silenzio per tutto il tempo, spesso era assente, distratto e pallido.»
«Il dolore è personale, ognuno di noi lo vive in modo diverso.»
«Lo so; lui ha un modo molto riservato, intimo, muto. Pensavo che si sarebbe rialzato, che avrebbe affrontato la perdita e sarebbe andato avanti, ma non ha superato un bel niente e io mi sono illuso che lui stesse bene e sono tornato a Phoenix per fuggire da… Lo sai.» gli lanciò un'occhiata prima di continuare. «L'ho lasciato solo, capisci? Un ragazzo adolescente, che ha perso sua madre, completamente solo.»
«Anche io avrei dovuto esserci.» convenne Price strofinandosi la fronte con i polpastrelli dell’indice e pollice.
«Thomas, sono stato proprio un cieco! Si vedeva che aveva pianto, aveva gli occhi gonfi e rossi, ma non si è mai fatto vedere. Al funerale non ha versato una lacrima, guardava Hanna nella bara con occhi assenti.» si voltò con tutto il busto verso Thomas, «Ed io ho fatto finta di non vedere, perché era più facile.»
«Charlie, non ha senso recriminarsi tutto ciò, non tu. Anche tu stavi soffrendo, era tua sorella. L'importante è che adesso ci sei, ci siamo. Non è più solo e non lo sarà mai più.»
Clark gli sorrise lieve. Lo stava consolando e mai avrebbe pensato che, dopo anni dalla rottura, si stesse sfogando proprio con lui. Eppure, sembrava che il loro rapporto di amicizia fosse stato ripreso da dove lo avevano tranciato. Lo apprezzò e si odiò. «Lui tende a tenere per sé il proprio dolore.»
«Come Hanna.»
«Come Hanna.» confermò Charlie. «Tu? Non ti sei presentato, perché?»
«Non ce l'ho fatta. La ricordavo come una donna forte e piena di energie. È stato un modo tutto mio di negare l'evidenza, non che sia il modo giusto.» Fece una breve pausa bevendo un altro sorso di caffè dopo averci soffiato sopra. «È stata il mio primo amore, Charlie. Ho passato con lei molti anni della mia vita, momenti bellissimi e anche momenti difficili. Se può consolarti, mi rimarrà sempre il rimpianto di non aver provato a sistemare ciò che si poteva sistemare e a non aver assistito al suo funerale.»
«Stai rimediando.»
Prima lo aveva difeso, adesso gli aveva rivolto parole di conforto. Che gli era successo? Qualche alieno si era impossessato di Clark? «Come?»
«Sei qui, a fare il padre.» bevve un sorso di caffè, «Anche se potevi svegliarti prima.» ricominciò a punzecchiarlo: la tregua era finita.
Thomas alzò gli occhi al cielo; aveva parlato troppo presto.
§
Era in camera sua, steso sul letto, inerme a ripercorrere mentalmente ciò che era successo in quella giornata da incubo. Era iniziato tutto quella mattina, quando Victor gli era parso strano nei messaggi. Gli aveva dato buca ben due volte, aveva marinato la scuola per una ragione a lui ancora preclusa; Chris aveva ispezionato di corsa tutti i bagni della scuola, preoccupato che gli fosse successo qualcosa, che avesse avuto una ricaduta, un mancamento o che l’emotissi avesse fatto di nuovo la sua ricomparsa. In camera sua avevano litigato, Vick lo aveva lasciato e aveva visto la sua macchina, percorrere la strada in cui si affacciava casa sua, diventare sempre più piccola fino a scomparire completamente.
Per un attimo aveva percepito il marciapiede scomparire da sotto la suola delle scarpe e una voragine risucchiarlo fino al centro della terra. Senza sapere come, Christopher era riuscito a rincasare. Salì le scale ignorando i suoi genitori che, preoccupati, gli chiedevano cos'era accaduto. Avrebbe voluto urlargli contro che era colpa loro se il teppista lo aveva lasciato, ma non sarebbe stato del tutto vero, né tanto meno giusto. Per fortuna non lo fece, non riusciva a fare nemmeno un fiato; strinse i pugni e testa bassa salì al piano di sopra per chiudersi in camera. Si era buttato sul letto e lì era rimasto fino ad ora, a ripercorrere la giornata all'infinito. Che cosa aveva sbagliato? Perché era andato tutto a rotoli? Perché aveva nascosto una parte della verità a Vick? Era stato uno stupido, stupido, stupido.
«Merda», esclamò afferrandosi le ciocche di capelli. «E adesso?» La sua voce risultò crepata. Non doveva piangere, non sarebbe servito a nulla. Doveva agire, cercare di porvi rimedio: doveva parlare con Victor. Forse non lo aveva lasciato parlare perché era scosso da qualcosa che gli era accaduto, o da una delle due motivazioni che spingevano Christopher a prendersi un anno di pausa. Si tirò sù poggiando la schiena sulla testiera del letto, afferrò il telefono e lo chiamò. Dall'altra parte il telefono squillò un paio di volte prima che Victor rifiutasse la chiamata.
«Dai cazzo, Vick.» Fece un altro tentativo, ma aveva bloccato il suo numero. Non poteva crederci, non riusciva a crederci. Provò ancora, invano.
Balzò giù dal letto e iniziò a camminare nervosamente lungo la stanza, da una parete all'altra. Quando gli occhi furono ricoperti da una patina lucida, in quel momento fu impossibile per lui non lasciarsi andare al pianto. Si ributtò sul letto stringendosi in posizione fetale, le spalle tremavano, le lacrime gli attraversavano il volto in orizzontale fino a bagnare le lenzuola. Faceva male, faceva maledettamente male. Era ormai lontano dal vuoto rassicurante che lo aveva abitato. Eppure, quel dolore, non lo preferiva al non provare niente. Non sentire nulla era peggio di quella sofferenza. Victor gli aveva ridato le emozioni e se n'era andato, ma non si rammaricata di nulla. Christopher non si era pentito di avergli stretto la mano durante i cicli di Chemioterapia, né di averlo spronato a mangiare nonostante l’inappetenza. Non si sarebbe mai pentito di essersi innamorato di lui, né di amarlo ancora. Tirò sù con il naso, non avrebbe potuto dimenticarlo neanche volendolo. Mai. Prima di lui era un guscio vuoto inscalfibile da ogni sentimento umano, esterno o interno che sia, ricolmo di apatia che si trascinava in avanti per inerzia, che trascorreva giornate grigie, monotone e noiose. Poi tutto aveva ripreso significato, quando il ragazzo aveva fatto casualmente irruzione nella sua vita, o meglio il contrario. Aveva ripreso l'interesse nella vita.
Udì bussare alla porta. «Chris, è pronta la cena!» lo avvisò Ellen senza entrare, «Muoviti o si fredda.»
Il ragazzo si schiarì la gola nel tentativo di camuffare il suo stato, si sentiva così patetico. «Non ho fame», la voce risultò leggermente gracchiante, sperò che le pareti riuscissero a camuffarla dove lui aveva fallito.
La sorella non rispose, Chris sentì solo un rumore di passi sempre più lontani. L'aveva scampata, aveva ottenuto un briciolo di fortuna in quella pessima giornata.
Ancora il suono di passi, seguì un lieve bussare. Una voce apprensiva gli arrivò ovattata: «Christopher». Era suo padre.
«Non ho fame», ripetè.
«Sto per entrare.» annunciò abbassando la maniglia.
«No!» esclamò Chris sollevandosi sui gomiti, «Non entrare!» Voleva rimanere solo, era tanto difficile da comprendere? Quando la porta si spalancò comunque, s’apprestò a sedersi e ad asciugarsi il viso in modo raffazzonato.
Charles, sulla soglia, trovò suo figlio con il volto arrossato e sformato dal pianto, i capelli ricci in disordine e gli occhi rossi e gonfi. Aggrottò la fronte chiudendosi la porta alle spalle. «Cos’è successo?»
Il figlio poggiò i gomiti sulle ginocchia piegate e si strofinò i polpastrelli sulla fronte nel tentativo di nascondere il suo stato; si percepì esposto in quel momento di fragilità. Lo sbuffo risultò tremante. «Voglio stare da solo.»
L'uomo avanzò e si sedette sul bordo del letto, il materasso molleggiò. «Allora? È da un po' che non parliamo come si deve, io e te. Che ne dici di una delle nostre chiacchierate padre-figlio?»
Christopher non voleva, ma ne aveva bisogno. Cedette subito. «Io e Vick abbiamo rotto» ammise in un sussurro spezzato. «Mi ha lasciato.» Dal non sentire niente, dal quel velo di apatia di cui si era ricoperto come fosse un lenzuolo da cui poterci vedere attraverso, non avrebbe mai immaginato che l'amore potesse farlo sprofondare in quello stato. Sembrava che Victor lo avesse strappato in due, afferrato il suo cuore e se lo fosse infilato timidamente in tasca mentre andava via.
Charles iniziò ad accarezzargli il polpaccio con affetto.
«Ha scoperto che uno dei motivi per cui voglio prendermi un anno sabbatico è lui.» singhiozzò, «Ma io mi sarei preso comunque un anno di pausa, per capire se quella strada facesse per me! Che male c'è a voler stare al fianco della persona che si ama? A volerla sostenere ed aiutare nella battaglia contro il cancro?» verso la fine la voce s’incrinò fino a sfociare in pianto.
«Aspetta, cosa?» l'uomo spalancò le palpebre, la mano si bloccò con lui. Incredulo lo invitò a ripetere: «Lui cos’ha?»
Chris lo guardò dritto negli occhi. «Lui ha il cancro, papà. Vick ha il cancro ed io volevo stargli accanto. Non m'importa se stiamo insieme solo da qualche mese, so quello che provo e so che, se non gli fossi stato vicino, me ne sarei pentito.» si coprì gli occhi con i palmi delle mani. «Io lo amo, papà. Farei di tutto per lui» affermò con voce rotta, le spalle accompagnarono i singulti con dei lievi tremolii.
Charles non avrebbe mai potuto immaginare che Victor, quel ragazzo così giovane, si trovasse in una situazione del genere, così delicata e complessa. «Io lo so quello che provi.»
«No che non lo sai, altrimenti…»
«Lo so perché anche io mi sono innamorato di tua madre e avrei fatto di tutto per lei, già dopo il primo mese che stavamo insieme, forse anche prima. Ero e sono tuttora innamorato perso di Melanie.» l'uomo ricomonciò ad accarezzargli il polpaccio, «Credo sia una caratteristica genetica ereditaria di famiglia.» ridacchiò.
«E allora perché sei stato contrario sulla mia pausa dal college?»
«Perché non sapevo la gravità della situazione e che lo amassi. Perché sono un semplice padre che vuole il meglio per i suoi figli, lo stesso tua madre. Volevo solo che studiassi ciò che ti appassiona per poter fare un lavoro che ti piace, che ti sistemassi, che fossi felice. Credo sia una cosa normale, no?»
Christopher si limitò ad annuire. «Ormai mi ha lasciato. Ho provato a chiamarlo ma mi ha bloccato e… e… » il solo ricordo della litigata gli si formò un nodo in gola.
«Non vorrai mica arrenderti, spero.» Charles gli sorrise dolcemente.
«Non posso precipitarmi a casa sua» come uno stalker, omise l'ultima parte. Non era più il suo Signor Stalker; quella presa di coscienza gli strinse il petto in una morsa.
«Certe cose vanno chiarite di persona, senza affrettare i tempi. Oggi l'ho visto molto pallido e turbato mentre usciva di casa, dagli modo di ragionare e razionalizzare. Vedrai che domani, con mente fredda, a scuola avrai modo di parlargli e risolvere.»
Aveva notato anche lui che c'era qualcosa di strano in Vick, ma come al solito era stato bravo a distrarlo. Il teppista era abile nell'arte di distogliere l'attenzione da sé e i suoi problemi. «Lo pensi davvero?»
«Certo!»
Christopher si aggrappò con tutto se stesso a quelle parole, a quella convinzione che l'indomani avrebbe rivisto il suo teppista da strapazzo, con la prospettiva di riappacificarsi e continuare ad amarsi, a tornare al suo fianco.
«Ora andiamo a mangiare che ho una fame da lupi!» esclamò suo padre prima di lasciargli qualche pacca sul ginocchio e alzarsi in modo deciso.
*Traduzione: “Sa che è troppo tardi mentre stiamo passando
La sua anima scivola via
“Ma non guardare indietro con rabbia" ti ho sentito dire
Portami nel posto dove vai
Dove nessuno sa se è notte o giorno”.
Angoletto a piè di pagina:
Non preoccupatevi, sarò breve!
Volevo condividere con voi le AI, fatte un po' di tempo fa, della prima scena di questo capitolo, che non ho potuto pubblicare su Instagram perché sono spoiler.
In più, vi condivido il video di "D'ont Look Back In Anger" degli Oasis (adoro questa canzone!)
-3 👀
— Aki
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