Capitolo 37

Erano passate settimane da quell’insolito pranzo nella tana dei leoni. Aveva rafforzato il legame con Duke e Elisabeth, che ormai avevano preso a preoccuparsi per lui: adesso aveva due nuovi segugi di Charlie a controllarlo a scuola. Per fortuna, con la loro inesperienza riusciva ancora a farla franca, a mentire spudoratamente sulla propria salute precaria. Non aveva più parlato con Margaret, ma sapeva che un rapporto amicale tra loro sarebbe stato impossibile; dopo averla vista, Vick continuava a sentire un bruciore alla bocca dello stomaco simile a quello che sentiva quando si relazionava con suo “padre”. Dal canto suo, Thomas lo chiamava ogni sera, ma erano state rare le volte in cui il teppista rispondeva al telefono. Di fatti, la maggior parte delle volte l’uomo era stato costretto a parlare con Charlie per essere aggiornato sul suo stato. Però, per quanto la situazione fosse migliorata, percepiva che qualcosa gli stesse sfuggendo. Come un bambino che rimaneva ad osservare il proprio palloncino volare via senza riuscire a recuperarlo, Victor si sentiva allo stesso modo con Christopher: come se non riuscisse ad afferrarlo. Nonostante ciò, il ragazzo rimaneva ancora al suo fianco. Scrutò la propria mano aperta e solitaria, seduto sul lettino in una stanza asettica e più vuota di come ricordasse. Per lui era divenuto strano non avere al suo fianco la presenza del Signor Stalker, che quella volta non aveva potuto autoinvitarsi perché nessuno era a conoscenza della sua presenza in ospedale. Aveva da poco concluso gli esami specifici di cui aveva parlato Barlow nell'ultima visita che aveva prececuto il ciclo di Chemioterapia, nonché l'unica volta in cui lo aveva scoperto a tossire sangue.

Price sospirò, a causa dell'anestesia locale al torace non sentiva dolore, ma solo del formicolio e pregò mentalmente che l'effetto lenitivo non passasse mai. Chiuse gli occhi e strinse il pugno di quella mano che avrebbe tanto voluto percepire il calore di quella di Chris. Quella mattina, nascondere di dover andare in ospedale era stato più complicato del previsto. Con suo zio Charlie era stato semplice perché, giorni addietro, lo aveva informato che sarebbe stato una giornata intera fuori città per lavoro, mentre con il suo ragazzo non era riuscito a trovare una scusa che giustificasse l'assenza da scuola.

Di fatti, quella stessa mattina, White, non vedendolo arrivare, gli aveva inviato un messaggio che lo aveva reso inquieto, non avendo una menzogna credibilmente pronta.

Stai bene?

Cosa avrebbe potuto rispondergli Price? Se avesse adottato la scusa del sentirsi poco bene, era sicuro che se lo sarebbe ritrovato dentro casa come se Chris fosse dotato di teletrasporto.

Perciò, optò per un: Sto bene, ho solo fatto tardi. Nel caso, entro la seconda ora.” Mentì, non sarebbe mai entrato. Non preoccuparti.

Ti aspetto ed entriamo insieme? provò a proporgli Christopher, ma per quanto lo desiderasse, Victor si costrinse a non cedere.

No, Bodyguard. Non dovevi consegnare il tuo tema di letteratura la prima ora?

Non me ne fai passare una, eh? Maledetto teppista da strapazzo.

Nessuna, Principessa Susie.”

Quella conversazione di norma lo avrebbe rallegrato, quasi alleggerito da quella preoccupazione opprimente della visita con la successiva attesa dell'esito di quegli esami, se non fosse stato per quell'ultimo messaggio. D'accordo mamma chioccia, ci vediamo a pranzo.

Quella promessa di ritrovarsi in mensa era stata come una secchiata d'acqua gelida. Non aveva avuto il coraggio di rispondere, di fingere ancora che avrebbe potuto mantenere quella implicita promessa di vedersi. Era rimasto a fissare il display fino al suo spegnimento, quando lo schermo gli resistuì il suo riflesso non più suo da molto tempo e l’impellenza di distogliere lo sguardo sovrastò quei sensi di colpa. Lo sapeva che aveva solo rimandato l'inevitabile, lo avrebbe scoperto quando non si sarebbe presentato nel luogo del loro appuntamento quotidiano.

«Il Dottor Barlow la attende nel suo ambulatorio.» La voce dell’infermiera lo riportò con i piedi per terra, trascinato altrove dalle proprie colpe.

Il teppista annuì impercettibilmente mettendosi in piedi con lentezza e s’incamminò lungo i corridoi. Aveva passato un’intera mattinata nel posto che odiava. L'odore del disinfettante nelle narici, le pareti anonime e anodini inevitabilmente gli ricordavano il giorno in cui aveva visto sua madre spegnersi, dopo una estenuante lotta per la vita contro quella malattia che stava divorando anche lui. Ma se Hanna, la persona più forte che conoscesse, non ce l'aveva fatta, come poteva farcela lui? Stazionò dinanzi alla porta dello studio, prese un profondo respiro e tossì. Bussò sbrigativo ed entrò senza attendere l'invito dell'uomo all’interno che, circondato da documenti mentre si aggiustava con un dito gli occhiali scesi sul ponte del naso, non distoglieva lo sguardo da Vick.

«Victor.» esordì Mark, dopo aver osservato il paziente accomodarsi nella sedia di fronte, al di là della scrivania, e schiarisi la gola. Strinse le labbra in una linea sottile.

L'uomo aveva ripreso a chiamarlo per nome, riaccorciando la distanza che Price imponeva nel loro rapporto. Il ragazzo aggrottò la fronte mentre si sistemava il berretto nero sul capo e molleggiava nervosamente il ginocchio. Dall'espressione del medico, sentiva che la morte non era rimasta a guardarlo e ad accarezzarlo distrattamente ogni tanto. «Dalla sua espressione sembra che stia cercando di ricordare se ha dimenticato il gas acceso in casa, Dottor Barlow.»

«Dammi del tu.» sospirò il medico, scollando finalmente lo sguardo da lui e poggiandolo sulle scartoffie. Aveva ignorato la sua solita battuta sardonica, non prometteva nulla di buono. «Sei stato un incosciente, se non avessi avuto un emottisi* davanti a me, non avresti detto nulla e non avremmo potuto agire per tempo.» lo apostrofò mentre il teppista si lasciava andare sullo schienale, massaggiandosi distrattamente il punto dove era stato inserito l'ago, durante la biopsia polmonare*, uno degli esami diagnostici specifici svolti quel giorno, coperto da una medicazione.

«Quindi?» Iniziava a sentire un formicolio nella zona antecemente anestetizzata, probabilmente l'effetto stava svanendo. Vick si morse il labbro inferiore, era impaziente di sapere l'esito, ma allo stesso tempo voleva rimanerne all'oscuro. Era finito in uno di quei strani loop di pensieri poco coerenti tra loro, come se gli arti fossero stati legati a dei lupi con delle corde e iniziassero a correre in direzioni opposte e differenti.

Come se non bastasse, Mark si tolse gli occhiali e si sfregò gli occhi con l'indice e il pollice, aumentando la suspense e il nervosismo di Price. «Victor, la Chemioterapia non sta funzionando come dovrebbe.» lo informò rimettendosi gli occhiali. «Il valore dei biomarcatori tumorali* è aumentato.»

Un fischio sordo gli trapassò il cranio da un orecchio all'altro, come una freccia. Sgranò gli occhi e il resto si fece confusionario.

«Dalle analisi non c'è stato un miglioramento, il tumore ha continuato ad avanzare prendendo gran parte del polmone.»

Perfino la voce di Barlow, dinanzi a lui, gli appariva lontana, quasi un sussurro, un borbottio sempre più fioco ed incomprensibile. Mentre il ticchettio dell'orologio appeso alla parete, sembrava sempre più forte e fastidioso. Il respiro sempre più pesante, l'aria che si rifiutava di entrare nei suoi polmoni irrecuperabili. Strinse le ginocchia tra i palmi sudati. Era stato tutto inutile, ogni ciclo di Chemioterapia, ogni corsa in bagno per vomitare il cibo, ogni momento di dolore. Tutto. E in quel momento comprese a pieno sua madre, come si fosse sentita alla notizia di essere una malata terminale. D'altronde, se non era riuscita lei nell'impresa di sconfiggere il cancro, come poteva lui? Quella domanda retorica lo tormentava di continuo, come un tarlo nella testa. In quel momento, sembrava occupare gran parte dei propri pensieri: lui era un debole, non poteva.

«Ma non è tutto perduto, non è troppo tardi.» continuò Barlow con gli occhi bassi sulle analisi e accertamenti di Victor, che stava avendo un attacco di panico in piena regola. «Faremo una pneumonectomia*. Dopo l'intervento faremo una Chemioterapia adiuvante per ridurre il rischio di recidiva ed eliminare le eventuali cellule tumorali rimaste.» Sollevò il capo aggrottando la fronte, «Victor?» lo richiamò, riuscendo a scoppiare quella bolla di panico.

Il teppista sollevò lo sguardo dalle proprie dita che arpionavano, come se avesse bisogno di un appiglio, un ancorà di salvezza, le ginocchia. Le lacrime premevano per uscire, ma non avrebbe pianto. Non davanti a Barlow, non davanti a qualcuno. Se doveva crollare lo avrebbe fatto da solo. Non era forte come Hanna, ma poteva fingere di esserlo. Deglutì a fatica il groppo in gola e sperando che la voce non risultasse tremante, fece per parlare, ma fu interrotto sul nascere.

«Capisco che tu sia scosso. L'intervento andrà bene, farò tutto il possibile. L'ho promesso ad Hanna.» Il medico gli rivolse un sorriso rassicurante, ma non fu lenitivo.

«Mi prendi per il culo?!» gracchiò Vick acido. Il viso emaciato si era sformato in una smorfia mista rabbia e stanchezza. Non voleva sottoporsi ad un'operazione inutile. E poi, chi l'avrebbe pagata? Con quali soldi? Parlava come se la sua assicurazione sanitaria coprisse le spese. Si rifiutava di chiedere aiuto e indebbitarsi futilmente: lui non si sarebbe salvato, la morte lo reclamava ormai da troppo tempo.

«Perch—»

«Mi dici che è stato tutto inutile e poi nomini mia madre?!» lo interruppe urlando, il viso sempre più paonazzo, la voce che graffiava in gola. «Non farò nessun intervento!»

«Victor, per favore, ragiona. So che non è una notizia facile da digerire, soprattutto per un ragazzo giovane come te.» Il medico tentò di farlo calmare con tono pacato. «Farò in modo che vada tutto bene.»

«Smettila!» Price si alzò di scatto dalla sedia come se all'improvviso scottasse. «Smettila di comportarti come se tenessi a me! Come se fossi mio padre, perché non lo sei! La relazione tra te e la mamma non mi riguarda, non me ne frega un cazzo se le hai promesso di prenderti cura di me! Io non sono tuo figlio!»

La confessione lasciò l'uomo pietrificato con gli occhi sbarrati e increduli. «Tu… Sapevi…» biascicò.

Il sorriso amaro e beffardo che solcò il viso del giovane lo confermò. «Non sono stupido.»

Anche Barlow lasciò la sedia senza distogliere, nemmeno per un istante, le pupille dalla figura di Vick. Allora perché non aveva detto nulla?, fu la domanda implicita che gli si leggeva sul viso tirato.

«Non sei mio padre.» ripetè per evitare che Mark desse voce a quell’interrogativo. Non voleva rispondere, non aveva più importanza perché Hanna li aveva lasciati entrambi. «E a quanto pare non salverai nemmeno me!»

Era stato meschino a rinfacciargli la morte della donna, come se la colpa fosse della sua incompetenza e non della malattia. Lo sapeva benissimo, ma lo comprese appieno dall'espressione ferita e costernata che si palesò sul volto del medico. Forse era meglio così, farsi odiare gli avrebbe tolto la pressante preoccupazione, l'impiccio di volerlo guarire. Strinse le labbra in una linea sottile e prima che Mark potesse aggiungere altro, scappò via dall'ambulatorio, come quel giorno, da debole vigliacco.

§

Sembrava che tutto si fosse mosso rapidamente, che il tempo fosse scivolato via velocemente tra le dita prima che arrivasse il totale buio. Victor sostava lì, nella sua auto, con soltanto il silenzio dell’abitacolo a fargli compagnia, senza ricordare come ci fosse arrivato, né cosa avesse fatto dopo essere fuggito via dall'ambulatorio di Barlow. Da interminabili minuti fissava da oltre il parabrezza l'ingresso del cimitero. Avrebbe voluto scendere e andare a trovare sua madre, farle sapere che presto, se un dopo esisteva, l'avrebbe riabbracciata. Non era riuscito nemmeno a scendere dalla macchina e poggiare il piede sull'asfalto. Fu quella consapevolezza che lo fece scoppiare in un pianto rumoroso, pieno di singhiozzi e lamenti sconnessi, che gli rubò il respiro. Le lacrime che tratteneva da tanto tempo solcavano prepotenti le sue guance pallide ed emaciate. Era venuto a farle visita quel giorno con Christopher, per spuntare il quarto punto della lista. Ma adesso che al proprio fianco non c'era nessuno, capì che si era illuso, che in quella lettera per Chris aveva mentito ancora; lui non aveva superato il lutto. Si era nascosto dal dolore, era fuggito come quel giorno con sua madre, come quella mattina con Barlow. Si strinse il tessuto del berretto sulla testa ed iniziò ad urlare, a battere i piedi colpendo in modo casuale i pedali. Colpì violentemente con i palmi il volante per poi stringerlo tra le falangi fino a farsi sbiancare le nocche. Il corpo sussultava per i singhiozzi di quel pianto a tratti infantile.

Bruscamente iniziò a tossire e fu costretto ad interrompere quello sfogo angoscioso. Si coprì la bocca con la mano, mente con l'altra massaggiava il petto. La gola bruciava, sul petto percepiva un peso che gli comprimeva i polmoni. Allontanò la mano dalle labbra quando il suo apparato respiratorio ormai da cestinare gli diede finalmente tregua, ma la visione del colore rosso gli mollò un ceffone in pieno viso che gli fece più male della faringe in cui sembrava passarvi un porcospino ad ogni deglutizione, più male della testa che pulsava*, più fastidiosa del formicolio al disotto della medicazione.

La consapevolezza di non avere futuro, di non poter scoprire cosa la vita gli avrebbe riservato, perché stava per giungere al capolinea lo spinse a sussurrare: «Non è giusto», privo di voce. «Non voglio morire.» gracchiò ancora tra sé e sé, come se avesse timore che la sua stessa voce spezzata, che il suo desiderio, arrivasse alle proprie orecchie per illuderlo. Non si sarebbe sottoposto all’intervento, era un tentativo inutile e fallace tanto quanto lo era stata la Chemioterapia. Con quali soldi, poi? Era sicuro che la propria assicurazione sanitaria non coprisse l'operazione e si rifiutava di far spendere soldi alle persone che gli erano rimaste accanto, perché il suo destino era già stato scritto. Basta illusioni, miraggi, abbagli, sogni…

Con occhi liquidi cercò un fazzoletto e tolse il sangue dal palmo. Forse, se non lo vedeva, poteva dimenticarsene. Si ingannò, ancora, per avere qualcosa a cui aggrapparsi con le unghie, come fosse un tessuto caldo e avvolgente. Come se non si fosse ripromesso di non ubriacarsi di mere illusioni e speranze pochi secondi prima. Si lasciò andare sul sedile, le lacrime erano divenute mute. Se avesse continuato a piangere non sarebbe stato in grado di guidare verso casa.

Il suono di due notifiche di fila, lo destarono dal torpore del caos che aveva nella testa, attirando l'attenzione sul telefono, poggiato sedile passeggero con lo schermo rivolto verso il basso. Titubante lo afferrò: erano due messaggi da quella persona che gli ricordava ogni volta che solo non era. Mai. Perché lui era al suo fianco.

Sono arrivato in mensa, ti aspetto.” Citava il primo messaggio, dall'orario non era recente. Il Signor Bodyguard Iperprotettivo lo aveva inviato all'inizio della pausa pranzo e Victor non ricordava di aver udito quella notifica

Lesse l'ora, la pausa doveva essere ormai agli sgoccioli e lui non ricordava nemmeno cosa avesse fatto in quel lasso di tempo. Vuoto totale.

Dove sei?

Ho controllato in bagno e non ci sei.

Di seguito, ne arrivarono altri due intrisi di preoccupazione: “Dove sei?“ e “Stai bene?

Se chiudeva gli occhi, Vick poteva quasi immaginarlo, il suo Signor Stalker, andare nel panico. Al pensiero che qualcuno potesse preoccuparsi per lui, un sorriso lieve e involontario si disegnò sulle sue labbra arrossate, ma s’infranse nell'immediato quando si ricordò di averlo riempito di fandonie.

D’un tratto il telefono prese a squillare, facendolo sussultare. “Principessa Stalker”, il simpatico nomignolo con cui aveva salvato il numero di Christopher, lampeggiò in sovraimpressione. Price non si era reso conto di aver fissato la loro chat senza dargli risposta. Era confuso, scostante dalla realtà che involontariamente non riusciva e non voleva accettare totalmente. Se avesse risposto, sapeva che White sarebbe riuscito a leggere e capire dal tono della sua voce che qualcosa non andava. E Vick era stanco di mentire e fingere che tutto andasse bene, di fingere di essere forte. In quel momento voleva solo rifugiarsi tra le sue braccia, sentire il suo calore, il suo profumo. La sua voce calda mentre lo rassicurava.

Deglutì a forza il nodo all'altezza del pomo d’adamo, si asciugò distrattamente le lacrime come se potesse vederlo, si schiarì la voce e rispose. «Principessa.» tentò di utilizzare un tono neutrale.

«Cazzo, dove sei? Stai bene?» chiese allarmato Chris, dall'altro capo della chiamata. Aveva il fiatone? «Non stai bene.» si corresse, subito dopo.

«Non sono a scuola.» ammise afono, come se se ne vergognasse.

«Perché? Anzi, no. Dimmi dove sei, vengo da te.»

«Non fare il coglione.» Il teppista chiuse le palpebre alla consapevolezza che sarebbe corso da lui, ovunque fosse stato.

«Vick.» soffiò perentorio.

Poteva essere egoista? Poteva dirgli tutto? Poteva tenerselo tutto per sé, anche se gli avrebbe solo procurato un dolore al centro del petto simile al proprio? «Che ne dici se vengo da te, dopo le lezioni?»

«No, dov—»

«Dopo scuola, a casa tua. Devo parlarti.» lo interruppe, lapidario.

«Promesso?» acconsentì Christopher, dopo un sonoro sospiro arrendevole.

«Promesso.»

Gli avrebbe detto tutto, lo voleva al suo fianco. Non aveva alcuna intenzione di lasciarlo andare. Voleva passare i suoi ultimi giorni in sua compagnia, nonostante tutto.

Il detto che se si ama una persona bisogna lasciarla andare, in quel momento, gli sembrò una gran cazzata.

§

Victor si perse ad osservare la residenza White attraverso il finestrino della propria auto, parcheggiata di fronte all’abitazione, parallela al marciapiede. Aveva avuto delle ore per prepararsi mentalmente un discorso, destarsi e nascondere crepe evidenti, di quel crollo di cui non ne avrebbe fatto parola con nessuno, sul suo volto emaciato. Si sentiva come un vaso di terracotta sul bordo di un mobile che stava per schiantarsi al suolo e rompersi in mille pezzi. L'emicrania continuava ad impedirgli di concentrarsi come avrebbe voluto. Era consapevole che in quel momento non era in grado di affrontare alcun tipo di conversazione. Si inumidì le labbra, la bocca ancora impastata dal pianto. Chiuse gli occhi e provò a respirare profondamente, a farsi coraggio.

Risollevò le palpebre. Poteva farcela, lo aveva promesso: se la morte fosse stata imminente, Chris voleva saperlo in un abbraccio. Quel momento era arrivato. Chissà se, sussurrando la propria sconfitta contro il cancro, entrambi si sarebbero illusi che non fosse reale.

Il teppista si costrinse a scendere dalla macchina e dirigersi alla porta d'ingresso, che si spalancò ancor prima che potesse suonare il campanello.

Sul volto di entrambi si dipinse un'espressione di stupore misto a confusione. Ellen non era stata informata della sua visita?

«Vick

Dal suo tono apprensivo, il teppista comprese che sul suo viso traspariva più di quanto avesse voluto. «C'è Christopher?» chiese come se non sapesse che la sua principessa lo attendeva impaziente.

«Si, è in camera sua.» La ragazza indicò le scale con un cenno del capo e si fece di lato per farlo entrare. «Josh mi ha detto che oggi in mensa era molto preoccupato per te. Ho cercato di calmarlo.»

«Lo hai sedato con la cerbottana per animali?» accennò un sorriso. Ma il suo viso continuava ad apparire spento e pallido. Era diventato difficile non far trasparire ciò che si portava dentro.

«No, ma c'è mancato poco che lo strozzassi con le mie stesse mani.» La ragazza corrugò la fronte, mentre con le pupille ispezionava il suo volto così distante dalla quotidianità, ma non seppe definire in cosa lo fosse. «Stai… Stai bene?» domandò titubante.

«Si, sono solo un po' stanco.» si forzò di sorridere, sperando di non sembrare Joker in procinto di incontrare Batman.

Ellen cercò conferme sui suoi lineamenti, Victor non riuscì a capire se le avesse trovate, forse le risposte che vi lesse furono esaustive perché l’irrequietezza abbandonò le sue spalle tese. «Ora scusami, ma sono di fretta!» Diana l'avrebbe sicuramente sgridata per il suo ennesimo ritardo. Ellen White non era nota per la puntualità. «Ci vediamo!» lo salutò e senza attendere alcun tipo di riscontro, abbandonò l’uscio di casa chiudendosi la porta alle spalle.

Price si mordicchiò il labbro inferiore, gli sembrava strano ritrovarsi solo in un ingresso estraneo. Fece per salire le scale che lo avrebbero condotto dal suo posto sicuro, quando udì uno stralcio di conversazione che lo spinse a fermarsi.

«Cara, continuo a non essere d'accordo con la sua decisione.» ribadì Charles, il padre di Chris, al di là della parete che divideva l'ingresso dall’open space.

«Eppure devi accettarlo, è una sua scelta.» rispose Melanie White.

Sembrava che entrambi non si fossero accorti della sua presenza e Vick ebbe un familiare brutto presentimento. Un fastidiosissimo deja vù che gli fece salire la bile acida allo stomaco.

«Come posso accettare che mio figlio si prenda un anno sabbatico per stare con il suo ragazzo? Potrebbero continuare a stare insieme, ad amarsi, anche se Chirs andasse al college.» continuò accondiscendente.

Victor chiuse le palpebre per impedirsi di scoppiare, frantumarsi. Strinse la ringhiera in legno, il piede destro ancora sostava sul primo scalino. Al fischio che non aveva mai del tutto abbandonato i suoi timpani, alla sensazione perenne di essere immerso in acqua, si aggiunsero i battiti accelerati del proprio cuore. Eccola, la verità. Scoperta ancora una volta nel peggiore dei modi: per puro caso, origliando frammenti di conversazione dalle scale.

«Victor è malato, anche tu avresti fatto lo stesso per me. Ci siamo conosciuti più o meno alla loro età, ricordi?» tentò di rabbonirlo, la moglie.

Quindi loro sapevano del cancro? Da quanto lo sapevano? Christopher non aveva mantenuto il segreto. Si morse il labbro inferiore e la confusione navigò in lui. Non sapeva se esserne amareggiato, deluso, arrabbiato. Ormai non sapeva più niente.

«Ma lui ha la sua famiglia, no? Mel, io voglio solo il meglio per nostro figlio. Non voglio che sprechi questa ottima opportunità per costruirsi un futuro con basi solide. A me il college ha dato tanto.»

Price si costrinse ad aprire gli occhi per poggiarli sulla parete che lo separava dai signori White. Uno strato lucido gli coprì parzialmente la vista. Anche lui voleva il meglio per il suo Signor Stalker. Solo in quel momento comprese ciò che andava fatto, adesso sapeva cosa fare. Era stato uno stupido egoista, accecato dall’ingordigia di tenerlo al proprio fianco. Non era nemmeno certo di riuscire ad arrivare al diploma, l'anno intero che Christopher era disposto a sacrificare per prendersi cura di lui era a lui precluso fin dall’inizio. Gli avrebbe risparmiato una perdita di tempo: Chris sarebbe partito per il college senza voltarsi indietro. Gli avrebbe evitato di vederlo spegnersi, lo avrebbe protetto dal lancinante dolore della perdita. Si sarebbe fatto odiare.

Se si ama una persona bisogna lasciarla andare, no? Forse, solo in quell’istante, ne aveva compreso il vero significato. Non implicava la mancanza di desiderio egoistico di volerlo accanto a sé, soltanto che avrebbe sofferto lui per il bene di Chris. L'idea di saperlo felice, anche quando sarebbe uscito definitivamente dalla sua vita, gli provocava una stretta al cuore fastidiosa. Era già invidioso delle persone che sarebbero rimaste con Christopher, di quelle che avrebbe incontrato lungo il cammino, comprese quelle che avrebbero avuto la fortuna di incrociarlo, conoscerlo, vederlo sorridere, sentirlo ridere, abbracciarlo, parlargli. E lui sarebbe rimasto nel passato, forse dimenticato nei meandri della memoria ad intristirlo al proprio ricordo.

Si asciugò con violenza le lacrime in procinto di scendere prepotenti e sollevò il capo. Era deciso, doveva mentire. Al diavolo tutto, al diavolo ciò di cui aveva bisogno lui, della promessa. Dell'abbraccio. Salì le scale silenziosamente, facendo attenzione a non disturbare i signori White. Si fermò davanti alla porta della camera del suo Bodyguard iperprotettivo e fissò il pomello con risentimento, come se desiderasse che scomparisse per evitare che la sua missione autoimposta andasse a compimento. Avrebbe voluto riavere quella sicurezza che ormai sembrava non appartenergli più. Sembrava essere divenuto un altro sé diverso, stentava a riconoscersi. Si forzò a bussare un paio di volte e udì una voce irritata dall'altra parte.

«Ellen, lasciami in pace! Ti ho detto che non posso accompagnarti da Diana!»

Si sentì legittimato ad entrare chiudendosi la porta alle spalle. Non riusciva ad emettere alcun fiato, nessuna parola sembrava volesse uscirgli dalla bocca alla vista del suo ragazzo steso sul letto, rivolto con il viso verso il muro mentre fissava lo schermo del telefono, probabilmente in attesa di un suo riscontro, sembravano esserglisi incastrate sulla punta della lingua.

Christopher, sentendosi osservato, si voltò e finalmente i loro sguardi poterono incrociarsi, prima che il teppista distogliesse il proprio. Ma non gli importava perché il suo Teppista era lì. Chris balzò velocemente giù dal letto e in un attimo gli fu a un passo. «Vick.» sussurrò circondandogli il viso tra le mani mentre lo ispezionava come se non lo vedesse da mesi. La pelle diafana evidenziava maggiormente il rossore che contornava i suoi occhi. La stanchezza era legibile dal luccichio affievolito delle pupille, alle spalle cadenti e la schiena leggermente ingobbita. Aveva pianto, ne era certo. «Cos'è successo? Stai bene? Hai mangiato? No, vero? Stenditi, ti porto io qualcosa da mangiare, okay?» tentò di ristabilire il contatto visivo con Victor, ma quest'ultimo continuava a sfuggirgli. Il ragazzo sembrava immerso in una dimensione di pensieri tutta sua, lo percepiva lontano anni luce da sé nonostante lo stesse guardando, nonostante stesse percependo il calore della sua pelle sotto i polpastrelli. Gli baciò la punta del naso ancora arrossata nel tentativo di riportarlo a sé, in quell'attimo con lui. Perché era più cereo del solito? Perché era evasivo? «Che succede?» domandò corrugando la fronte.

«Succede che sei uno stronzo.» Victor si costrinse a guardarlo, almeno per l'ultima volta. «Mi hai mentito!» si tolse le sue mani di dosso con stizza, già percepiva la loro mancanza.

«Di che stai parlando?! Tu mi hai mentito e mi hai fatto preoccupare!»

«Sto parlando del motivo per cui vuoi prenderti un anno sabbatico!» iniziò ad alzare la voce.

«Te l'ho detto, sono indeciso sulla strada da intraprendere.» allargò entrambe le braccia.

Victor negò con il capo e un sorriso amaro gli arcuò le labbra. «Non dire cazzate, ho sentito i tuoi genitori che ne parlavano, poco fa. Ora si spiegano molte cose, anche il perché tuo padre era contrario all'idea.»

White sembrò freddarsi sul posto, lasciando cadere le mani lungo i fianchi. «Cos—»

«Gli hai detto anche del cancro, cazzo! Non potevi tenertelo per te?! Da quanto lo sanno?!» si strinse il tessuto del berretto mordendosi il labbro inferiore con concitazione. Si sarebbe passato le dita tra i capelli, ormai era una specie di tic abitudinario che stentava a lasciarlo, ma non li aveva più da mesi.

«No, io non…» tentò di giustificarsi ma Victor non lo fece continuare.

«Come ti viene in mente?! Stiamo insieme solo da alcuni mesi!»

«Mi sarei preso comunque un anno di pausa, a prescindere da te, Vick.» Le parole del teppista stavano facendo male. Anche se si conoscevano da relativamente poco, gli sembrava che stessero insieme da una vita. Christopher non ricordava una vita senza lui e nemmeno voleva farlo. «Però non dirmi che non avresti fatto la stessa cosa.» gracchiò in un sibilo abbassando la testa, il nodo in gola che bloccava a stento le lacrime non riuscì ad impedire ai suoi occhi di inumidirsi.

Victor chiuse le palpebre. Certo che avrebbe fatto la stessa cosa, non vi era alcun dubbio al riguardo, alcun tentennamento. Si costrinse a risollevare le ciglia ed essere forte per entrambi, almeno fino a quando non sarebbe stato solo un triste ricordo per Chris. «No, non lo avrei fatto.» Quella bugia gli scivolò sulla sua lingua come mille spilli ricoperti di peperoncino.

Quella stessa bugia fece risollevare di scatto la testa a White e Price potè vedere nitidamente quelle iridi che tanto amava sgretolarsi. «Sei un bugiardo. Non ti credo.»

«Non posso fidarmi di te.» negò, invece lui, con il capo, tastandosi il petto. Il cuore faceva emotivamente male, i polmoni rancidi sembravano arrancare. «Un rapporto senza fiducia non ha alcun senso, non ha fondamenta.»

«Aspetta, mi stai lasciando?!» sbarrò gli occhi pieni di incredulità.

«Si, Christopher, ti sto lasciando.» anche se non voleva, pensò Price. «Farai a meno di me.» ma Victor non avrebbe mai potuto fare a meno di lui. «Buona vi—», fece per aprire la porta ma Christopher lo bloccò afferrandolo per il gomito.

«Non fare il drastico! Possiamo risolvere. Mi dispiace, okay?!»

Il teppista lo osservò, era più doloroso della Chemioterapia. Forse sembrava dolergli meno perché non era mai stato solo, c'era sempre stato Chris con lui. Adesso non ci sarebbe stato più e tutto di sé avrebbe sentito la sua assenza. La sua mano stretta nella sua, il suo sorriso, le sue battute, i suoi abbracci che sapevano di casa. I suoi baci che lo facevano sentire il ragazzo più fortunato dell'intero universo. I suoi occhi che lo vedevano in un modo tutto suo e dalla scintilla che navigava nelle sue pupille, avrebbe desiderato essere capace di vedersi, anche solo scorgersi per un attimo, in quel modo.

«Non dovevo nasconderti che uno dei motivi fossi tu, ma sapevo che me lo avresti impedito», come stava accadendo in quell'istante. «Perché sei un idiota che si rifiuta di farsi aiutare, che vuole fare tutto da solo!» urlò, «Ma non pensi alle persone intorno a te che vogliono aiutarti?! Non pensi a me che ti amo?! Cazzo Vick, è normale cercare di aiutare la persona che si ama!»

Merda, Chris aveva iniziato a piangere. Se avesse potuto, Victor gli avrebbe asciugato le lacrime, lo avrebbe abbracciato e non lo avrebbe lasciato per niente al mondo. Mai. Gli avrebbe detto che anche lui avrebbe fatto la stessa cosa, che non era arrabbiato davvero con lui ma che glielo avrebbe impedito comunque da bravo idiota che vuole fare tutto da solo, che si fidava di lui, che anche lui lo amava da morire. Già, morire. Non poteva dirgli che stava per morire, che la Chemio non era servita a niente. Non poteva lasciargli nemmeno un ultimo bacio. Perciò, si tenne la verità per sé. «Hai ragione, sono un egoista debole e non lo voglio il tuo stupido aiuto.» strattonò il braccio per farsi lasciare, «È per questo che non posso accettare la tua scelta!»

«È una mia scelta, decido io per il mio futuro!»

«Questa è la mia, Christopher. Io decido per il mio.»

Price uscì, seguito da White che cercava di farlo ragionare, di fargli cambiare idea in ogni modo tra singhiozzi e lacrime. Fu tutto vano. La vecchia macchina di Victor partì lasciandolo sul marciapiede con una voragine nel petto. In cielo, le nuvole impedivano di scorgere il sole.

———

*Emottisi: tosse con sangue

**Agobiopsia polmonare: La biopsia polmonare è una procedura diagnostica che consiste nel raccogliere e nell'analizzare in laboratorio un campione più o meno esteso di tessuto polmonare, proveniente da un individuo con sospetta malattia grave ai polmoni.
Durante un'agobiopsia polmonare, il prelievo delle cellule polmonari da analizzare in laboratorio avviene per mezzo di un lungo ago inserito nel torace.

***Biomarcatori tumorali: I marcatori tumorali, noti anche con il nome di biomarker o indicatori tumorali, sono delle molecole rilevabili nel circolo sanguigno che possono indicare la presenza di un tumore.
Valori molto superiori rispetto alla norma hanno generalmente il significato di terapia non efficace.

****Pneumonectomia: è un intervento chirurgico che consiste nell’asportazione di uno dei due polmoni.

*****Cefalea: Il dolore nell'emicrania è uno dei sintomi del post anestesia. In questo caso potrebbe essere dovuto anche al pianto.

Angoletto a piè di pagina:

Per questo capitolo devo ringraziare un po' di personcine che mi hanno aiutato:

Ringrazio @Belzebub77 per avermi fatto notare l'errore di questo capitolo (ora corretto dopo ulteriori ricerche), cosìcche potessi correggerlo in tempo.

Ringrazio @sato1603 per il materiale davvero utile che mi ha inviato e per credere in me, anche quando sono il primo che non lo fa.

Ringrazio di cuore Elle_Jenny per avermi aiutato nella revisione del capitolo e per sopportarmi sempre, (sopratutto in questo periodo di... Pupù). 💙

Farò meglio i dovuti ringraziamenti alla fine della storia.

– Aki

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