Capitolo 34 (Seconda parte)

Era quasi ironico come fossero finiti a fare riunioni di famiglia in bagno. Quel luogo ormai ricorreva sempre nei momenti importanti per il teppista: era in bagno quando per la prima volta quel ragazzo popolare e impiccione lo aveva stalkerato ed importunato, sempre in bagno Christopher lo aveva aiutato in uno dei suoi primi attacchi di tosse, a casa di Nick. Era in bagno che aveva parlato la prima volta con Duke, ed ora anche con Elisabeth. Osservò distrattamente la porta, poggiandosi sul davanzale della finestra. Se fosse entrato anche Thomas Price, avrebbe dato di matto. Saettò lo sguardo da Duke, muscoloso e di qualche centimetro più alto di lui, che aveva gli occhi puntati sulla sorella, a quest'ultima, che non faceva altro che mirare le mattonelle del pavimento mordendosi una pellicina sul pollice.

Vick sospirò rumorosamente, a quanto pareva toccava a lui rompere il ghiaccio. Fece per dare fiato alla bocca con il suo solito sarcasmo fuori luogo, ma fu anticipato da Duke.

«Mi dispiace, Victor.»

«Per cosa ti stai scusando, Maschione?» sollevò un sopracciglio.

«Per l'ultima volta», si passò le dita tra i capelli, gli occhi verdi come le foglie di un albero in piena estate erano puntati nei suoi. «Sono stato indelicato, ero arrabbiato con Beth...»

La ragazza sussultò, sentendo il proprio nome. Ma Vick non le diede peso. «Non preoccuparti. Non ho reagito nel migliore dei modi», si massaggiò la nuca nuda, «La verità può ferire più delle bugie.»

«Anche l'ignoranza può ferire», s'intromise Elisabeth dopo quel periodo di mutismo in cui si era rifugiata fino a quel momento. «Il non sapere, può ferire le persone. Ed io non sapevo e...» addocchiò di sfuggita Duke, «Non sappiamo ancora nulla. Mi dispiace per come mi sono comportata con te, Victor. Sono stata immatura, maleducata, superficiale e cattiva.»

Il teppista si limitò ad annuire lentamente inumidendosi il labbro inferiore e deglutendo un paio di volte. Non aveva distolto nemmeno un secondo gli occhi dai suoi, aveva assorbito ogni parola ed aveva letto tra le righe. «Non sono qui solo per delle scuse, vero?»

«Pensavo fossi nel torto, stai facendo soffrire papà e lui ha sempre parlato di te. Io voglio capire, vorrei sapere la verità». La ragazza sentiva perennemente lo sguardo del fratello maggiore su di sé che si stava, sempre più velocemente, trasformando in uno sguardo infuocato: Duke era furioso e contrariato. Lo comprendeva, loro c'entravano poco nella storia tra i loro genitori, ma come il teppista, anche loro avevano diritto di sapere.

Anche Victor era irritato, la sorellastra aveva toccato un nervo scoperto. «Ed io che pensavo che avessi paura tornassi a vendicarmi sottoforma di zombie o mi reincarnassi in un Chihuahua rumoroso per fare pipì sul tappeto di camera tua. Perché non la chiedi a lui?» la domanda gli uscì con un tono di voce strano, con quella punta di rabbia che non voleva trapelasse.

«Farò anche questo, ma per sapere la verità devo sentire entrambe le versioni, no?»

Si pietrificò sul posto. Entrambe le versioni della storia. Era per questo motivo che provava tante rabbia per Thomas? Non aveva mai sentito la sua versione, non gli aveva mai dato modo di spiegarsi. Lo avrebbe rimpianto? «Mia madre non può raccontare la sua versione della storia», pigolò flebile, nonostante ne fosse venuto a conoscenza orecchiando di nascosto le lunghe conversazioni con lo zio e con il medico. Il solo pensiero di sua madre gli formava un nodo alla gola, per fortuna era poggiato al davanzale.

Duke gli poggiò una mano sulla spalla e la strinse. Quel ragazzone non era il duro che voleva apparire.

«Ti sto chiedendo la tua» sottolineò Elisabeth strofinandosi il braccio. Aveva intravisto per la prima volta il dolore del fratellastro, nonostante negli ultimi tempi lo vedesse come un fiore che stava appassendo lentamente. Era abituata allo scherno, al sarcasmo, ma non a quel dolore che sentiva non riuscire a comprendere appieno.

Il respiro di Victor era forzato e lento, pesante. Come se volesse controllarsi dall'avere qualsiasi reazione eccessiva. «Ho dovuto cavarmela da solo, cos'altro c'è da sapere?» Minimizzò, «Si è fatto vivo quando ha saputo del cancro. Non so altro.» Mentì, in parte. Stava cercando di proteggere suo padre?

I due fratelli si cambiarono uno sguardo interrogatorio, entrambi si aspettavano che far parlare il teppista sarebbe stato più semplice. «Tutto qui?» domandò Beth.

«Tutto qui» ripeté. Avrebbe tanto voluto una sigaretta, in quel momento. Strinse il pianale del davanzale, «Dovreste chiedere spiegazioni a lui, non a me.» Ricordava l'euforia con la quale tornava da scuola, la speranza di trovare suo padre a casa, che sarebbe rimasto con loro. Erano solo le illusioni di un bambino a cui mancava una figura paterna, un bambino che aveva ancora quella scintilla di speranza negli occhi. Un bambino invidioso degli altri che ne avevano uno. Poi arrivò la malattia di Hanna e tutto precipitò, sulla sua schiena adolescenziale. Aveva sperato tornasse per dargli una mano, che lo alleggerisse da quelle responsabilità. Ma la verità lo aveva schiaffeggiato e svegliato da quella illusione. Le cose non sempre, più corretto dire raramente, o mai, vanno come vorremmo. Una persona non torna perché ci si sente soli, non viene ad aiutarti perché sei sull'orlo del precipizio e stai per cadere. Alla fine, non aveva avuto bisogno di nessuno. Si era rialzato, si era rimboccato le maniche e aveva fatto tutto ciò che era stato possibile. Nonostante i sensi di colpa di non aver fatto abbastanza fossero lì a far compagnia al senso d'impotenza.

«Anche tu dovresti chiedergliele, Victor.» gli fece notare Duke dopo quei minuti rumorosi di silenzio.

Avrebbe dovuto dargli occasione di spiegarsi? Era da troppo che ci pensava. Si strinse nelle spalle con un sorrisetto tirato. «Dovrei avvicinarlo con questa scusa e poi prenderlo a calci, che ne dici Maschione

Beth sospirò alzando gli occhi al cielo. «Hai un interruttore per spegnere il tuo sarcasmo fuori luogo?» Domandò ma un sorrisetto lieve era sulle sue labbra.

Duke sospirò un sorriso. «Potrebbe funzionare, sono settimane che aspetta una tua chiamata e mi chiede sempre di te. Si porta il telefono perfino in bagno.» Lo aveva sentito lamentarsi con Margaret, al riguardo. Più che lamentarsi, sembrava impaziente, preoccupato e dall'esterno appariva perfino disperato.

Silenzio. Era una quiete diversa da prima, una di quelle gelide che penetrava fin dentro le ossa.

«Ha fatto domande anche a me, non pensavo fosse per questo.» la ragazza sembrava più riflettere tra sé e sé ad alta voce, che confrontarsi con loro.

La tentazione di sapere cosa chiedesse loro, cosa voleva sapere e cosa sapeva, era forte. Ma a cosa sarebbe servito? Il teppista allentò la presa sul davanzale, che solo adesso si rese conto di stringere così forte da sbiancargli le nocche. Anche l'invidia e la rabbia che aveva provato verso di loro era sempre stata inutile. Era ironico come Duke l'avesse provata nei suoi confronti. «Ditegli che faccio i salti mortali all'indietro con doppio avvitamento», rispose ironico. Anche se per capire, quel bastardo di Thomas Price, avrebbe dovuto leggere molto tra le righe.

Duke si limitò ad annuire lentamente; aveva afferrato.

La porta del bagno si aprì e quel bullo di Ronald Mitchell entrò calciando la porta, come suo solito, con una sigaretta in bocca ancora spenta. Si bloccò sul posto quando vide gli sguardi dei fratelli Price su di sé. Rassegnò ognuno di loro fino a posare gli occhi su Elisabeth ed aggrottare la fronte, confuso. La porta era ancora aperta, lesse per sicurezza se fosse il bagno giusto. «È il bagno degli uomini», tentennò con ovvietà e confusione.

«Senza di te saremmo persi, Ronald» lo schernì il teppista prima di fargli cenno di uscire con il capo. «Cambia bagn-»

«Tranquilli», lo interruppe la ragazza, «Stavo per andarmene. Victor, puoi contare anche su di me.» Gli sorrise sincera ed uscì senza guardarsi indietro, passando accanto a Mitchell ancora confuso.

Ricevette anche una pacca amichevole sulla spalla. «Per qualsiasi cosa non esitare a chiamarmi, tienilo a mente.»

Victor sbuffò un sorriso «Grazie, Maschione.» Se qualche mese fa gli avessero detto che avrebbe avuto dei fratelli, che avrebbe avuto dei rapporti con quei fratelli che tanto lo odiavano, gli avrebbe riso in faccia. Dopo aver parlato con Elisabeth, si sentiva alleggerito da quel peso che non credeva di avere.

§

La chiave che stringeva tra le sue dita era a metà strada tra lui e il chiavistello della porta d'ingresso. Era come bloccato da quella matassa informe di pensieri che facevano compagnia alle sue paranoie. Lesse i loro nomi incisi, vicini, uno sopra l'altro. Come se fossero ancora una famiglia. Lo erano mai stati? Il proprio nome, "Joshua Lloyd" inciso sotto quello dei suoi genitori. Ne seguì il solco con gli occhi, come se lo stesse scrivendo lui in quel preciso istante. Il suo nome non era solo, ma lui ci si era sentito. La notte scorsa ne aveva parlato con Ellen, stesi sul suo letto, nella sua camera in disordine che parlava di lei. Dalla finestra entrava solo la luce flebile dell'illuminazione esterna, disegnando sulle lenzuola un motivo ordinato e sfatto allo stesso tempo.

«Ellen», interruppe quel momento di pace, «Come si fa?»

Lei si voltò tra le sue braccia per guardarlo in volto, la penombra gli permetteva di scorgere il profilo delicato del suo viso. «A fare cosa?»

«Ad accettare cose che non si possono cambiare.» Non faceva altro che ripensare all'ultima discussione con i suoi genitori. Aveva vomitato loro tutta la rabbia e la solitudine che si era trascinato per anni ed ora non sapeva cosa fare. Pensava si sarebbe sentito più leggero, ma la frustrazione e l'amarezza erano rimasti a fargli compagnia nella bocca dello stomaco.

«Non... Non lo so.» rispose incerta, mordendosi distrattamente il labbro inferiore. «Credo ci voglia tempo, ma bisogna comunque andare avanti.»

"Andare avanti". Erano giorni che non faceva altro che rivivere quelle discussioni nella sua testa. Andare avanti significava perdonarli? Non credeva di riuscirci, almeno non in quel momento. Doveva affrontare la situazione o nulla sarebbe cambiato. Né nei suoi genitori, né in lui. «Domani torno a casa», asserì semplicemente nel silenzio.

Era deciso ad affrontarli, e allora perché stava esitando? Di cosa aveva timore? Deglutì a vuoto e si fece coraggio. Entrò. Nulla era cambiato in casa, le mura erano le medesime, il silenzio immutato. Eppure, non la percepiva come al solito, non sentiva quella solitudine che lo accarezzava sulla pelle. Percepiva il vuoto, una casa non vissuta. Non erano le mura ad essere cambiate, ma qualcosa in lui. Strinse la spallina dello zaino lasciandosi la porta chiusa alle spalle. In salotto non c'era nessuno, non udiva rumori in cucina. Che la casa fosse vuota? Probabilmente erano a lavoro, come al solito. Sperava che il coraggio non svanisse al loro ritorno.

«Joshua», la voce alle sue spalle lo fece sussultare mentre poggiava lo zaino a terra.

Il ragazzo si voltò lentamente, sperando non fosse un fantasma con la stessa voce di suo padre. Ma quando incrociò la sua figura, si accorse che avrebbe di gran lunga preferito lo spirito. «Pensavo non ci fosse nessuno a casa.»

Richard sembrò deluso dalla constatazione del figlio. Strinse le labbra in una linea sottile e dura. «Quindi non...»

Sapeva cosa voleva dire. «Sono tornato a casa», confermò vedendo le spalle dell'uomo rilassarsi. «Roy?»

«È dovuto partire, ci ha chiesto di chiederti scusa per non averti salutato.»

«Capisco», annuì. Avrebbe voluto ringraziarlo per l'aiuto, senza di lui non avrebbe mai avuto il coraggio di affrontare i suoi genitori. C'era troppo silenzio, tra loro c'era tensione ed imbarazzo. Joshua notò solo in quel momento che lui non aveva mai conversato così tanto con lui, escluse le ultime due volte in cui si erano visti. In quegli anni, l'uomo gli aveva rivolto poche parole e la conversazione era sempre a senso unico: Josh si era sempre limitato ad annuire. «La mamma?»

«Credo sia a lavoro, non so quando rincaserà.»

Il ragazzo si limitò ad annuire, fece per riprendere lo zaino a terra ma le parole del padre lo bloccarono.

«Ti va di parlare davanti ad una tazza di caffè?»

Quella domanda lo metteva a disagio, Richard stava tentando di ricostruire, o meglio costruire, un rapporto inesistente. «E di cosa vorresti parlare?» sollevò lo sguardo sull'uomo, «Io non vi ho perdonati per l'indifferenza di tutti questi anni, non riesco a farlo.»

L'uomo si limitò ad annuire deciso, una sola volta. «Ma sei tornato a casa.»

«Si», rispose anche se non era una domanda, «Perché altrimenti non sarebbe cambiato nulla. Affronterò una cosa alla volta, dal mio ritorno a casa, al rapporto con voi, al divorzio.»

«È molto maturo da parte tua, Joshua.» Nello sguardo di Richard c'era un misto di orgoglio e rammarico nel vedere il figlio, ormai divenuto uomo sotto ai suoi occhi senza che se ne rendesse conto.

Il padre non si scusò né lui, né il figlio erano pronti per quel passo. Come non lo era Kristen, sua madre. Anche se delle scuse non avrebbe ridato a Josh un'infanzia felice, una famiglia con dei genitori presenti, né avrebbe annullato quei momenti di completo abbandono e solitudine. «Vado... Vado in camera.» annunciò prendendo lo zaino e svignandosela al piano superiore, mentre si ripeteva mentalmente che andava bene così, per il momento. Che gli serviva del tempo, che doveva fare un passo alla volta.

§

Il sudore colava sul volto di Thomas mentre il cielo si apprestava a scurire. Solitamente faceva Jogging di mattina, ma ultimamente non riusciva a stare fermo. I pensieri, i sensi di colpa, il passato che lo inondava. Le parole di Charlie che non facevano altro che rimbombargli nel cervello come uno schiaffo. Victor era diventato un uomo, senza il suo aiuto. Victor aveva bisogno di tempo. Sapeva di avergli fatto del male, di averlo abbandonato. Faceva ancora fatica ad ammetterlo a sé stesso, perché quella consapevolezza faceva male e per lo stesso motivo non riusciva a darsi pace. Arrivò davanti la porta di casa con il fiatone della corsa, controllò se avesse ricevuto notifiche ma tranne alcune mail di lavoro, quella che tanto attendeva non c'era. Entrò a casa dirigendosi deciso in cucina, Margaret era seduta sullo sgabello dell'isola mentre Duke era davanti a lei, dall'altro lato, in piedi e con le mani poggiate sul bordo di marmo. Elisabeth era seduta accanto al primogenito e quando Thomas entrò, la cucina si dipinse di un silenzio forzato.

Tre paia di occhi erano puntati sull'uomo sudato che aggrottò la fronte. Aprì il frigo, «È successo qualcosa?»

«Abbiamo parlato con Victor», asserì asciutto Duke.

Il padre si voltò di scatto, come se lo avessero chiamato. La bottiglietta di acqua fredda in mano, lo sportello del frigo che si chiudeva da solo accompagnavano l'espressione speranzosa di avere notizie e allo stesso tempo, incontrando il viso duro del figlio, confuso. «E...?»

«Da quando tu e la mamma sapevate che Victor ha il cancro?» domandò acida Elisabeth. «Quante cose ci nascondete?»

L'uomo strinse la presa sulla bottiglietta. «Da un po'», la moglie gli venne in soccorso. Sapeva che quell'argomento era delicato e che Thomas faceva fatica a parlarne. «Dopo averne parlato con me, vostro padre gli ha chiesto di venire a vivere qui.»

«Cosa vi ha detto?» interruppe la conversazione e poggiò la bottiglia. Non aveva paura del loro giudizio, lo meritava.

«È questo che ti interessa?!» Beth alzò la voce, come se non riconoscesse più suo padre. «Ci avete tenuto all'oscuro di tutto!»

«Che sei una merda di uomo», intervenne il figlio, «Ma non ha voluto dirci altro.» E non riusciva a capire il perché.

«In questa storia centrate ben poc-»

«Mi sono innamorato di Margaret ed ho tradito Hanna.» Thomas la interruppe, fece un sorso abbondante d'acqua, sembrava avere la gola piena di polvere, la bocca secca. La donna gli strinse la mano e lui ricambiò la presa. «Poi vostra madre mi disse che aspettava te e senza pensarci due volte mi decisi a lasciare Hanna. Poi ho scoperto che era incinta di Victor.»

Duke sembrava una statua di sale. Aveva provato rabbia ed invidia immotivata verso il fratellastro ed ora, scopriva che quello "legittimato" a provarla era lui. I sensi di colpa per la scelta del padre lo inondarono e si incastrarono in gola. Pungevano come spilli. «Perché?» sibilò incredulo, sedendosi sullo sgabello. Le gambe erano diventate molli. «Perché non ti sei preso le tue responsabilità? Perché non ti sei preso cura anche di Victor?»

Margaret chiuse gli occhi lentamente, pronta alla verità, mentre Elisabeth ascoltava rinchiusa nel silenzio.

«Perché si fanno degli errori. Io, vostra madre ed Hanna li abbiamo commessi e a pagarne maggiormente le conseguenze è stato Victor.» lanciò un occhiata a sua moglie. Aveva gli occhi lucidi. Poi scutò i suoi figli con quelle espressioni dure sui loro volti. «Sto cercando di rimediare, sperando che non sia troppo tardi.»

«Stiamo», lo corresse Margaret. Anche lei aveva delle colpe e ne era sempre stata consapevole.

«Stiamo», ripeté il marito annuendo. «Ma, giustamente, Victor non vuole saperne di me. Non vuole nemmeno il mio aiuto.»

«Ora sapete più o meno tutto» concluse Margaret Davis.

Elisabeth scoppiò a piangere mentre Duke abbassò lo sguardo a terra. Non avevano saputo nulla per tutti questi anni e, sapendo la verità, certi comportamenti assunsero un significato che non avrebbero potuto cogliere prima.

Beth tirò su con il naso, cercando di calmarsi, provò a parlare ma nessun suono uscì dalla sua bocca. Si morse il labbro. «Avreste dovuto dircelo» riuscì a dire, «Riguarda anche noi perché siamo una famiglia, Victor compreso.» I suoi genitori erano mutati, non li vedeva più come prima.

«Hai ragione» convenne la madre, accarezzando con il pollice la mano di suo marito, che aveva gli occhi fissi su Duke che non aveva alzato mai lo sguardo. Margaret non aveva mai parlato con il teppista, ma sapeva che tra loro un rapporto senza astio, da parte di quest'ultimo era pressoché impossibile. Nonostante ciò, anche lei avrebbe voluto rimediare con il ragazzo.

«Duke», Thomas lo chiamò con quel tono lapidario che gli fece sollevare il capo. «Non darti colpe che non hai.»

Il ragazzo si passò le dita tra i capelli, alzandosi. «Ho bisogno di riflettere.» Si chiuse la porta della propria camera alle spalle, con la speranza che i sensi di colpa, che ormai gli avvolgevano le membra, rimanessero fuori. Così non fu.

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