Capitolo 34 (Prima parte)
Non era abituato a quel silenzio prolungato, i pensieri erano così forti da impededirgli di dormire. In quei quattro giorni di auto-reclusione in camera sua, non aveva fatto altro che girarsi nel letto e tentare inutilmente di chiudere occhio, riuscendo per sole poche ore a notte. Era come se fosse rimasto bloccato, i ricordi di quella lunga e pessima giornata da dimenticare erano ancora vividi davanti ai suoi occhi e nella sua mente. Quella sera, dopo aver salutato Phil, senza riuscire ad incrociare il suo sguardo per l'imbarazzo, era entrato in casa pregando e cercando modi fantasiosi di evitare i suoi genitori e Dean. Non poteva evitare domande con quell'ematoma sul viso e la scusa del pensile o delle scale non avrebbe retto. Perciò, cercò di aprire la porta d'ingresso il più silenziosamente possibile. Se i vicini si fossero affacciati, sicuramente lo avrebbero scambiato per un ladro. La chiuse con altrettanta cura per poi voltarsi e trovarsi di fronte a quella pettegola rumorosa di suo fratello con un pacchetto di patatine in mano.
Lo vide spalancare gli occhi, indicare il suo viso ed aprire la bocca. Non fece in tempo a tappargliela che esclamò: «Che cazzo ti è successo alla faccia?»
Sapeva che i signori Mcdaniel erano a casa. Sperava solo che la sua buona stella arrivasse in suo soccorso, ma quando sentì dei passi sempre più vicini e intravide la figura alta ed ingombrante di Dennis, suo padre, capì che la sua buona stella, con buone probabilità, si stava sbronzando in qualche locale a luci rosse. Fulminò suo fratello con lo sguardo mentre imprecava mentalmente.
«Per Giove, che ti è successo?!» esclamò il padre. Dean aveva preso quell'abitudine di parlare con parole ed espressioni desuete proprio dal padre. Ogni volta che il padre litigava con sua madre, per lui era impossibile non scoppiare a ridere. Quando litigava con Dean, gli sembrava di assistere ad una litigata tra vecchiette di paese. Peccato che dopo se la prendessero sempre con lui.
«Scale.» provò a dire, forse avrebbe funzionato.
«"Scale" un paio di zebedei!» sbottò, «Rubby, vieni a vedere tuo figlio!»
La situazione gli era leggermente sfuggita di mano. Rubye apparve subito dopo con la fronte aggrottata. «È figlio mio solo quando ti fa comodo!» spostò lo sguardo sul ragazzo e anche lei sgranò gli occhi. «Danny, che cosa cazzo ti è successo?»
Era ancora fermo all'ingresso e già voleva sotterrarsi, se avesse fatto dietrofront e fosse scappato via, lo avrebbero scambiato davvero per un ladro. La prigione non sembrava una cattiva opzione, dopotutto. «Non ho mai ricevuto un'accoglienza così calorosa», provò a sfoderare uno dei suoi sorrisi, ma gli uscì solo una smorfia di dolore. Era stanco, il livido gli faceva male e voleva solo chiudersi in camera senza dare spiegazioni a nessuno, ma sapeva che non avrebbe più potuto fuggire. Chiuse gli occhi, fece un respiro profondo e li invitò a sedersi sul divano.
Dean doveva aver intuito, perché annuì una sola volta mentre lui gli rivolgeva uno sguardo irritato. Era stato troppo rumoroso. Lo era sempre stato, ma per una volta avrebbe potuto fare un'eccezione.
Daniel si sedette sul tavolino da caffè in legno, dinanzi a loro. Poggiò i gomiti sulle ginocchia e cercò di farsi coraggio. Ora o mai più. «Ho lasciato il college.»
«Tu cosa?!» esclamò stupito il padre ma la moglie lo bloccò sul nascere alzando una mano.
Il cenno con il capo da parte di Rubye lo convinse a continuare. «Ho lasciato il college perché non era la strada giusta per me. Volevo dirvelo prima, ma sapevo già come avreste reagito, perciò ho cercato lavoro». Addocchiò Dean che dondolava nervoso sul posto, accanto alla donna seduta tra lui ed il padre.
«Hai trovato lavoro?» domandò quest'ultima.
«Cosa c'entra con il livido?» il padre aggrottò la fronte, sempre più confuso ed irritato.
«Ci sto arrivando.» deglutì sonoramente, la gola era diventata secca. Con la scusa di prendere un bicchiere d'acqua avrebbe potuto svignarsela, vero? Si strinse le mani e puntò il suo sguardo sulla punta delle scarpe, pur di evitare il loro. «Lavoravo nell'officina dei Thompson, ma sono stato licenziato perché...» la voce gli morì in gola, la pressione sembrava sembrava fischiargli nelle orecchie. «Perché mi piacciono i ragazzi ed ho fatto coming out con Kevin, il figlio dei Thompson». Non doveva dir loro proprio tutto, no? «Adesso lavoro in un bar.» Quel silenzio che ne seguì lo mandò letteralmente in pappa. I muscoli erano tesi, ma riuscì a sollevare lo sguardo su di loro.
I loro volti avevano un espressione imperscrutabile.
«E la storia del livido?» Dean ruppe il silenzio indicandogli la guancia, «Questa mi è nuova.»
«Kevin è venuto dove lavoro per parlarmi.» non doveva aggiungere altro, non ce n'era bisogno. Aveva spesso portato Kev a casa, sapevano del suo carattere irruento. Aveva davvero un pessimo gusto in fatto di uomini. Riabbassò il capo e strinse le mani.
Il silenzio che ne seguì sembrò gravare sulle spalle di Daniel come se un elefante avesse deciso di posare le zampe sul suo petto per premerlo sul pavimento del soggiorno.
La madre gli mise una mano sulle sue e le accarezzò con il pollice facendolo sussultare. «Io lo sapevo già.» disse dolcemente. «Una madre lo sente.» aggiunse una volta che Danny la guardò.
«Se, come no!» sbuffò ironico il padre alzando gli occhi al cielo per poi esortire: «Dean, figliolo, scalda l'Aprilia. Io vado a prendere il fucile.»
Entrambi fecero per alzarsi, ma si bloccarono quando Daniel uscì dal mutismo in cui si era chiuso. «Smettetela!»
«Danny ha ragione, così vi riconoscono. Vi serve un passamontagna!» fece notare Rubye, cercando di alleggerire la tensione. Sapeva quanto tutto ciò pesasse su di lui, aveva visto il figlio perdersi e non era riuscita a fare nulla.
«Ha ragione» convenne Dean.
«Sei un genio, è per questo che ti amo tesoro.» Dennis le lasciò un bacio a stampo sulle labbra, era follemente innamorato di quella donna che assecondava sempre le sue stranezze e i suoi scherzi.
«Mamma!» Daniel allargò le braccia e sgranò i suoi occhi verdi, «Non assecondarli!»
Sospirò, «Hai ragione, scusami. Ma mettiti nei nostri panni, vederti così è dura per noi.» strinse nuovamente le mani del figlio, «Dovremmo denunciarlo, penso tu lo sappia già.»
Non voleva denunciarlo, «Voglio solo lasciarmi questa storia alle spalle.»
«Aspetta, non tu vuoi denunciarlo!?» Dean era incredulo. Era a conoscenza dell'amore che il fratello provava per quello schifoso omofobo, ma non lo avrebbe mai detto ai suoi genitori. Non sarebbe stato giusto. Ma il sapere questo dettaglio, non indifferente, diede alle loro parole un ulteriore significato.
«No.»
«Non puoi fargliela passare liscia!» la rabbia lo spinse ad alzarsi finalmente dal divano.
«Non... Voglio solo andare avanti.» Voleva dimenticarlo.
«Non stai andando avanti, stai solo cercando di scappare!»
«Cosa cazzo ne sai tu di come mi sento?!» La verità bruciava, si era ripetuto così tante volte di voler fuggire come un codardo che sentirselo dire ad alta voce, faceva tutt'altro effetto. Faceva male più di quanto lo facesse quella consapevolezza. Pensava che almeno suo fratello potesse capire come si sentisse in quel momento, che stava cercando di fare del suo meglio. Gli rivolse uno sguardo ferito. «Sai che c'è? Vaffanculo, Dean» sibilò. Si alzò e senza attendere risposta salì le scale per chiudersi in camera, sbattendo sonoramente la porta. Lì era rimasto a marcire per i giorni a seguire, uscendo solo per andare in bagno e fare degli spuntini notturni. Non era uscito nemmeno per andare a lavorare, chiedendo a Patricia qualche giorno di riposo che, dopo l'accaduto, era stata più che felice di concedergli. Quei giorni di finto riposo erano stati un inferno; non aveva fatto altro che rimuginare, rimuginare e rimuginare. Pensare, pensare e pensare. Un pugno può spazzare via un sentimento come l'amore? Era ancora innamorato di Kevin dopo ciò che aveva fatto? Non riusciva a darsi risposta, ma sapeva che Dean aveva ragione riguardo la denuncia. Doveva iniziare ad affrontare i problemi, non tentare di lasciarseli alle spalle come se non fossero mai accaduti. Aveva cercato di farlo anche con Vick? Si coprì il viso con le mani ed un suono gutturale, frustrato ed esasperato uscì dalla gola. Non era cambiato nulla, nonostante stesse cercando di farlo. Sbuffò mentre ripoggiava mollemente le braccia lungo il corpo, sul letto sfatto. «Chi l'avrebbe detto che il mio fratellino sarebbe cresciuto prima di me?» mormorò tra sé e sé prima di alzarsi pigramente dal letto. Si trascinò, con le sue solite ciabatte con i calzini, fino alla cucina dove trovò Dean a fare colazione. Da solo. Erano soli. Non sapeva come comportarsi con lui dopo quella litigata, aveva cercato di evitarlo. Si trascinò fino alla macchinetta del caffè e si versò una tazza di caffè americano. Sospirò, doveva affrontare anche lui. Si voltò bevendone un sorso e si sedette di fronte a lui. Doveva iniziare lui a parlare, giusto? Esortire con un banale saluto, come se nulla fosse successo, non avrebbe funzionato.
Dean, sentendosi osservato, sollevò lo sguardo dal telefono puntandolo su suo fratello. Alzò un sopracciglio mentre continuava rumorosamente a masticare i cereali con il latte. «Perché mi fissi?»
Da quanto tempo lo stava guardando? Si riscosse, era grato del fatto che avesse preso lui la parola per primo. «Sei troppo rumoroso perfino mentre mangi degli stupidi cereali.» borbottò sorseggiando. Sentiva che aveva appena sprecato un ottima occasione per riappacificarsi. Si fissarono per alcuni minuti, poi sbuffò. Doveva prenderlo di petto, «Avevi ragione, okay?»
«"Avevo"?»
«Hai ragione.» si corresse il maggiore.
«Lo so. Ora dimmi, per quale delle tante cose ho ragione?»
«Sei una cazzo di suocera, Dean.» ringhiò esausto, «Per la denuncia e per...» non pensava fosse così difficile dirlo ad alta voce. Prese un lungo sorso di caffè, cercando di temporeggiare il più possibile e sciogliere il nodo alla gola che iniziava ad occludergli la trachea. «Stavo solo cercando di scappare, come al solito.»
Dean si limitò ad annuire leggermente.
Seguì un silenzio teso. «Mamma e papà come l'hanno presa?» le spalle di Daniel erano tese e rigide mentre faceva piccoli sorsi. Non riusciva a guardarlo in faccia.
«Vorrebbero che tu denunciassi Kevin Thompson, volevano parlartene ma ci hai evitati in tutti i modi.»
Annuì sovrappensiero e all'ennesimo silenzio capì che l'ammissione di avere torto non era sufficiente. «Mi dispiace.»
«Danny», sospirò, «Non devi chiedermi scusa per questo. Posso solo lontanamente immaginare come ti senti, ma non voglio che torni ad essere uno stronzo. Non dopo che stiamo ricostruendo un rapporto.»
«E allora perché continui ad avercela con me?»
«Perché a volte delle semplici scuse non bastano.»
Danny fissò i suoi occhi verdi in quelli cerulei del fratello. Non si riferiva solo alla loro litigata, ne era certo. «Cosa sai?»
«So della tua visita a casa di Price.»
Serrò le labbra in una linea sottile ed annuì lentamente soltanto una volta.
«Ho parlato con Chris», aggiunse.
«E cosa ti ha detto?» strinse il manico della tazza, il pomo d'adamo si mosse lentamente, come se avesse timore di deglutire. Christopher non avrebbe dovuto immischiarsi.
«Che sei stato insensibile». Quando Daniel aggrottò le sopracciglia, continuò: «Non ci arrivi? Hai pensato solo a te stesso. Sei andato a trovarlo il giorno stesso in cui aveva un ciclo di Chemioterapia, non potevi scegliere momento peggiore per chiedergli scusa.»
«Ma io non lo sapevo.» sussurrò notando solo in quel momento quei segnali che gli erano sfuggiti. Victor che non si era mosso dal divano, il respiro pesante ed il viso pallido. Mentre parlava delle smorfie di dolore che non riusciva a camuffare solcavano il suo viso in modo rude. «Cazzo», sibilò coprendosi il viso con le mani, «Cazzo.»
Dean sospirò, «Ce l'ho con te perché cerchi sempre delle scorciatoie, anche fare lo stronzo lo era. Dov'è finito quel Danny che affrontava tutto di petto e a testa alta?»
Negò lentamente con il capo, mentre abbassava le mani e fissava la tazza. «Non lo so», sussurrò. Avrebbe voluto dirgli che da quando era caduto in quel burrone rumoroso, non aveva fatto altro che tapparsi le orecchie cercando di ignorare il problema. Era da molto tempo che non affrontava la vita a testa alta, senza scorciatoie. Rimise le mani intorno alla tazza e passò distrattamente i pollici sulla ceramica tiepida. Non era più quel Danny da quel giorno negli spogliatoi della squadra di Football della scuola, quando il suo sguardo si era soffermato troppo su un suo compagno. Sulle spalle sudate, sul movimento delle scapole mentre era di schiena... Chiuse gli occhi, ricordava perfino il momento in cui aveva preso coscienza dei suoi pensieri ed aveva distolto, il più velocemente possibile, lo sguardo. Non era il momento. Inspirò, «Pensi che dovrei scusarmi ancora?»
«Penso che tu debba smetterla di cercare di alleggerirti la coscienza per i tuoi errori.»
Riuscì finalmente a sollevare lo sguardo, aveva gli occhi lucidi. «Perciò non potrò mai togliermi questo peso di dosso? Dovrò continuare a stare male? Per quanto tempo dovrò scontare per i miei errori?»
«Fino a quando non avrai imparato da loro.»
Sapeva che non riusciva ancora ad accettarsi del tutto? Si morse il labbro inferiore.
«So che Price ha accettato le tue scuse. Probabilmente nel tuo stato attuale commetteresti gli stessi errori. Arriverà il momento in cui potrai andare oltre senza dimenticare, ma non sarà facile né tantomeno vicino.»
Aveva ragione, doveva smetterla di tapparsi le orecchie ed ascoltare l'eco per poter uscire dal buio. «Mi sono girato un secondo e sei già diventato un uomo», lo scrutò fiero, con quel nodo in gola che non lo aveva abbandonato.
In tutta risposta, Dean ricominciò a mangiare i suoi adorati cereali. «Perché ora non mi spieghi di Ferdinando il Fenicottero e di questo Phil è solo un cliente Garrow?» ammiccò muovendo ritmicamente le sopracciglia con un sorrisetto strafottente.
Sollevò gli occhi al cielo e, dopo giorni, un sorriso solcò le sue labbra. «Non era "Phil Fustacchione Garrow"?»
«Pensavo non mi stessi ascoltando l'altra sera, troppo preso da lui.»
«E invece si, Dean Pettegola senza speranze Mcdaniel», sospirò rumorosamente prima di aggiornarlo su tutto ciò che gli era successo in quel giorno da dimenticare, ma che avrebbe sempre ricordato.
§
La mensa scolastica era gremita di studenti, nonostante ciò Chris individuò con facilità Joshua e Dean che erano riusciti ad occupare il loro solito tavolo. Strinse la presa sul vassoio con pietanze di dubbia provenienza della mensa scolastica mentre lanciava un'ultima occhiata alla porta. Vick era tornato a scuola dopo pochi giorni dall'ultimo ciclo di Chemio. Nonostante comprendesse i sentimenti di quest'ultimo, era contrario al suo precoce ritorno a scuola. Aveva cercato di farlo ragionare, ben sapendo che si sarebbe arrabbiato come l'ultima volta che si era autoinvitato alla seduta di Chemioterapia. Aveva esposto il suo dissenso e, alla fine, avevano litigato ancora. Per rimediare, quella stessa mattina, lo aveva aspettato nel parcheggio della scuola. Price era sceso dall'auto squadrandolo con un sopracciglio alzato. Non si aspettava di trovarlo lì.
«Buon giorno» lo salutò, tentando un approccio di riappacificazione.
«Sono ancora arrabbiato con te, Christopher.»
Sbuffò. «Lo so, ma mettiti nei miei panni!» Victor lo faceva diventare iperprotettivo, lo faceva preoccupare in continuazione.
«E tu mettiti nei miei.» Il tempo sembrava scorrere troppo velocemente, per lui. Voleva vivere, voleva godersi ogni attimo e non starsene disteso a fissare il soffitto in attesa che il dolore passasse. «Non voglio perdere tempo prezioso stando a letto, riesco a muovermi e- »
«Riesci a muoverti con difficoltà», precisò interrompendolo.
«Anche se fosse? Zio Charlie è tornato qui a Boston per farmi licenziare da lavoro e concentrarmi sullo studio, ma se non torno a scuola come pensi che riesca a superare le verifiche?! Come pensi che possa vivere come un normale ragazzo della mia età da casa?!» Quando rimaneva da solo, la stanza sembrava riempirsi di pensieri negativi. Sembrava che degli elefanti riempissero la sua camera ed iniziassero a barrire all'unisono. Quei pensieri sembravano sgusciare tra le fessure, sotto la porta, sotto il letto... Per ricordandogli che la morte poteva essere vicina.
«Così fai preoccupare chi ti sta intorno!»
«Tutti non fate altro che trattarmi come Il Victor malato! Io voglio essere trattato come al solito!» urlò incurante degli sguardi dei pochi studenti intorno. Ormai tutti sapevano, quegli sguardi gli si erano appiccicati addosso già da tempo.
Se la prima intenzione era riappacificarsi, non stava funzionando. «Non capisci che non ti sto trattando come un malato?! Mi stai solo facendo preoccupare perché fai sempre di testa tua come se fossi solo!»
Il teppista sussultò, si leccò velocemente il labbro inferiore distogliendo lo sguardo in basso. Il berretto nero faceva maggior contrasto con il viso pallido, era evidente che non si fosse totalmente ripreso. «Lo so», si morse il labbro, «Eppure non riesco.»
«A fare cosa?»
«A non fare tutto da solo.» sollevò le sue iridi azzurre puntandole su quelle ambrate del ragazzo, «È come se avessi costantemente paura che tu vada via, ma allo stesso tempo volerlo. Non darò mai per scontata la tua presenza al mio fianco, mai. Perché non lo è. Lo so io, lo sai tu.»
«Sembra che per te sia così facile credere di meritare la sofferenza e poi credere che le cose belle siano solo un'illusione.» gli sfiorò la guancia con le dita, delicatamente. Osservandole come se la sensazione del calore di Price sotto ai polpastrelli non bastasse, come se avesse bisogno di carpirne di più guardandole. «Rimarrò al tuo fianco finché lo vorrai», sussurrò come se avesse paura di essere udito.
«Tu fai sicuramente parte della prima opzione», sogghignò con sarcasmo, facendo spostare l'attenzione di White, dalle sue dita sulla gota alle labbra che s'incurvavano. Come apparve, il sorrisetto si spense, «Mi dispiace.»
«Dispiace anche a me, e per farmi perdonare... » iniziò a frugare nello zaino, estrasse un barattolino di vetro trasparente e glielo porse. «Questo è per te», sorrise.
Price lo scrutò attentamente tra le proprie mani. Era un barattolo di vetro con un tappo argentato in metallo. Su un lato c'era attaccato con il nastro adesivo un foglietto e all'interno c'era un solo cioccolatino. Sorrise senza rendersene conto. «"Barattolo delle parolacce"», lesse passandoci sopra il pollice con lentezza. La scrittura era frettolosa ma ordinata, tipica della Principessa Susie. Spostò lo sguardo sull'unico cioccolatino incartato, sollevò un sopracciglio e ghignò. «E il cioccolatino?»
«Quello è perché ti abbono tutte le parolacce di prima.»
«Mi pare di averne dette più di una, dove sono gli altri?» lo osservò leccarsi le labbra frettolosamente. Si guardò attorno, furtivo, per poi avvicinare il volto al suo. Il respiro caldo del biondino gli solleticava le labbra, «Posso baciarti?» sussurrò.
«Lo sai che non serve chiedere e non serve nascondersi, vero?» Le abitudini erano dure a morire. Vide il teppista annuire flebile mentre i suoi occhi azzurri e lucidi saettavano dalle sue iridi color miele alle labbra. Si avvicinò ulteriormente fino a sfiorargliele, con la mano destra gli accarezzò la nuca nuda mentre con la punta delle dita sfiorava il berretto sulla sua testa. Sentì le braccia del ragazzo stringersi intorno al busto, il calore del suo corpo attraverso i vestiti.
Il teppista annullò completamente le distanze tra le loro lingue. Sembravano essere entrati nella loro bolla, priva d'insicurezze, priva di sguardi se non i propri. Ogni bacio che si davano era sempre così, fuori dal mondo. Era un bacio impetuoso, quello, ma dolce. Le dita di Chris erano calde sulla sua pelle, i polpastrelli giocavano con il bordo del berretto ed ogni tanto sfioravano la pelle al di sotto e, per un attimo, lo fece sentire bene con sé stesso anche con la testa rasata. Avrebbe tanto voluto abitare in quel momento che sembrava fermare il tempo, ma si rassegnò a vivere quell'attimo fuggente. «Ecco dov'erano finiti gli altri cioccolatini», sibilò dopo aver interrotto il bacio con estrema lentezza, mordendosi il labbro inferiore per non sorridere.
«Devo regalarti anche il barattolo per le battute sarcastiche fuori luogo, diventeremmo ricchi sfondati.» la sua voce risultò più bassa. Fece scorrere la mano sul suo viso emaciato, le dita sulle occhiaie evidenti.
«Non ho tutti quei soldi», sospirò prima di allontanarsi pigramente di un misero passo. «Alla pausa pranzo, aspettami in mensa.»
«Perché?» aggrottò le sopracciglia.
«Devo parlare con il preside Stewart», si limitò a dire distogliendo lo sguardo e riducendo le labbra in una linea sottile. White poteva immaginare di cosa dovessero parlare, non c'era bisogno che Victor specificasse nulla.
«Ti aspetto» aveva detto.
Ed era per quel motivo che non faceva altro che addocchiare la porta della mensa, con il vassoio in mano, mentre si dirigeva al loro solito tavolo. Si sedette e sospirò mesto mentre iniziava a punzecchiare il cibo sotto gli occhi indagatori di Dean e Joshua. Fu quest'ultimo a prendere parola.
«Dov'è Price?»
«Che succede, Susie?» domandò invece Mcdaniel.
«Vick è dal preside e sono preoccupato per lui.» rispose Christopher poggiando il mento sul palmo della mano, continuando a tenere lo sguardo basso. «Si vede lontano un miglio che non si è ripreso del tutto, ma capisco comunque il perché lui sia tornato.»
«Ciò non ti impedisce di preoccuparti comunque, è normale.» annuì Dean, «Ma non possiamo controllare la vita delle persone, possiamo solo consigliare loro cosa fare.»
White sollevò il capo, puntando gli occhi su di lui, come se ciò che avesse detto il moro lo stupisse. «Da quando dici cose sensate?»
«Da Dean Vecchia Pettegola a Dean Vecchietta Saggia è un attimo», sghignazzò Lloyd.
«Fottetevi, tutti e due!» rispose piccato, «Io dico sempre cose sensate, ho sempre ragione!»
Sia Josh che Chirs scoppiarono in una grassa risata mentre il giovane dei Mcdaniel borbottava tra sé e sé a bassa voce prendendo un boccone di cibo.
«A proposito... » Dean si guardò in giro, prima di propendersi verso il tavolino, come se dovesse dire un grosso segreto. «Ne approfitto adesso che non c'è il tuo Principe», si rivolse a Christopher.
«Dimmi», rispose perplesso il diretto interessato.
«Sei bisessuale? Omosessuale? Price-sessuale? Victor-sessuale?»
«Non credo siano cose da chiedere», sibilò Joshua a denti stretti con un tono che avrebbe dovuto essere basso, ma che lo udirono entrambi.
«È okay», lo tranquillizzò, «Siamo tra di noi e sapete già che Vick è il mio ragazzo». In verità aveva fatto molte ricerche al riguardo, non si era mai innamorato di una persona del suo stesso sesso. Sia a livello fisico che sentimentale, Victor lo aveva attratto come una calamita con lo sportello del frigo, fin dall'inizio. Fin dal primo sguardo, anche se aveva fatto fatica a comprenderlo. Anche se si era rifugiato nell'apatia. Non sapeva se si potesse essere omosessuale per una persona sola, perché le ragazze gli piacevano ancora. Alla fine, però, era arrivato ad una conclusione: «Per molte persone è importante darsi un'etichetta, anche io ne ho cercata una. Etero, omosessuale, pansessuale, asessuale... Per me non ha importanza, preferisco non definirmi. L'unica certezza che ho e di cui ho bisogno è sapere che Vick mi piace». Era più corretto dire che lo amava, ma la prima persona a cui doveva dirlo e che doveva saperlo, era proprio il teppista.
I due ragazzi rimasero in silenzio, captando ed assorbendo ogni singola parola di White.
«Ragazzi, vi esce il fumo dalle orecchie e sento cigolare gli ingranaggi del vostro cervello arrugginito», ironizzò Chris. Quel silenzio lo stava mettendo decisamente a disagio. «Dite qualcosa.»
«"Qualcosa"» aprì bocca Dean, facendo sollevare gli occhi al cielo ad entrambi i suoi amici. Fece per parlare, quando vide Victor, con un vassoio in mano, avvicinarsi a loro. «Price!» lo salutò mentre Lloyd si limitò a farlo con un cenno del capo.
«Ciao, ragazzi.» la sua voce risultava più bassa, stanca, come se si sforzasse di parlare. «Principessa Stalker», salutò anche il suo ragazzo, sedendosi al suo fianco. «Di cosa stavate parlando?»
«Del mio orientamento sessuale», rispose tranquillamente White, inforchettando una polpetta che sperava non fosse composta da carne di creatura mitologica. Osservò il teppista sollevare un sopracciglio.
«Gli ho chiesto se sia Omosessuale, Price-sessuale...» intervenne Mcdaniel.
«Non sono domande molto opportune da fare», corrugò le sopracciglia, «Ci sono persone che non se la sentono di fare coming out. Se fai una domanda del genere, si sentirebbero costrette a dirlo o a mentire.»
«È quello che gli ho detto anche io», sospirò Josh.
«Gli ho detto che andava bene, siamo tra di noi e sanno che stiamo insieme», ribadì Christopher, «Gli ho detto che preferisco non etichettarmi». Mentre faceva coming out anche con Price, tenne lo sguardo puntato sui suoi occhi stanchi.
«Io sono gay», rispose tranquillo facendo spallucce. «Christopher, per me non c'è alcun problema se senti il bisogno di etichettarti o meno». Che avesse compreso la preoccupazione del biondino?
Il ragazzo si limitò ad annuire con decisione tenendo puntate le sue iridi color miele sulle sue. Le spalle si rilassarono, non si era reso conto di aver avuto i muscoli in tensione.
A Victor non importava, lui lo amava così com'era. Peccato che non avesse il coraggio di dirglielo, c'era qualcosa che lo frenava e a cui preferiva non pensare. Doveva godersi i momenti, le cose belle che aveva, senza rimuginarci troppo sopra. Prese a punzecchiare il suo cibo nel piatto, sforzandosi ti mandare giù qualche boccone. Le loro ginocchia si sfiorarono sotto al tavolo, White cercava sempre il contatto con lui per ricordargli che non era solo, che lui era al suo fianco. Fece un accenno di sorriso fugace fra sé e sé, ma si spense. La chiacchierata con il preside era stata estenuante, nonostante lo avesse già informato della sua situazione precaria, aveva dovuto portare i certificati e i documenti necessari per non farsi bocciare. In più, avrebbe dovuto cercare di recuperare quei giorni di assenza. Sospirò cercando di seguire la conversazione al tavolo. Avevano cambiato discorso, ma non riusciva a concentrarsi. I pensieri facevano troppo rumore. Viveva il cancro ogni giorno, ma parlarne era stato difficile. Lo aveva stremato, come se ogni parola fosse un sassolino in più sulla sua schiena. Senza contare l'ennesimo attacco di tosse uscito dall'ufficio, era dovuto correre in bagno. Aveva visto il proprio sangue tra le dita. Ancora.
Lloyd addocchiò Ellen di sfuggita, stava parlando e sorridendo con Diana. «Susie», asserì richiamando l'attenzione dei suoi amici, tranne quella del teppista che sembrava essere entrato in una bolla tutta sua. «Credo che sloggerò da casa tua.»
«Hai paura che ti chieda l'affitto? Perché quando l'ho proposto a mamma e papà mi hanno guardato male.» White continuò con la bocca piena, «Ed Ellen è andata su tutte le furie.»
«Ed hai preferito comunque casa sua», sottolineò tra l'amareggiato e il divertito, la pettegola. «Io non ti avrei mai chiesto l'affitto.»
«No, gli avresti chiesto di farti le treccine ogni mattina», li punzecchiò Christopher con un sorrisino in viso mentre continuava a sentire il calore di Price sul ginocchio. «Comunque, perché te ne vai?»
Joshua ne aveva parlato a lungo con Ellen, in una di quelle notti insonne passate a parlare, sopra al letto sfatto e disordinato della ragazza, nel silenzio della sua camera. «Perché è arrivato il momento di affrontare i miei genitori. Se resto da te, non cambierà mai niente.»
Il suo amico non aveva mai cercato di scappare, aveva solo bisogno di tempo. Mcdaniel si chiese se non fosse stato troppo duro con suo fratello, forse anche lui ne aveva bisogno? «Beth», esordì Dean notandola dirigersi verso di loro e scoppiando la bolla in cui Price si era rifugiato senza rendersene conto.
«Elisabeth», ripeté melenso Chris, osservandola con serietà. Non aveva dimenticato l'ultima litigata tra loro ed il modo in cui si era comportata.
«Ho bisogno di parlare con mio fratello», resistuì il medesimo sguardo al suo ex, per poi posarlo su quello del teppista, che aveva alzato il capo.
Cosa voleva? Se doveva essere sincero, non gli importava. Aveva passato tanto tempo a sentirsi inferiore, il "fratello sfortunato", quello che aveva sempre dovuto lottare per avere ogni cosa. E adesso stava lottando anche per la vita. Vick cercò la figura di Duke e quando lo trovò, seduto a qualche tavolo di distanza, vide che la sua attenzione era rivolta a loro. Aveva le sopracciglia bionde, come le sue e di Thomas, aggrottate. Era confuso, non ne sapeva nulla nemmeno lui. Si voltò verso la sorella e con un sorriso strafottente sul volto le rispose con tono freddo:«Allora hai sbagliato tavolo, tuo fratello è lì». Indicò con il pollice, senza voltarsi, il punto dov'era seduto Duke.
La ragazza alzò gli occhi al cielo e sbuffò platealmente. «Il tuo sarcasmo è proprio irritante, intendo te Victor Price.» calcò con la voce il cognome identico al suo.
«Beth, che stai facendo?» s'intromise il quaterback, dopo averli raggiunti.
«Devo parlare con Victor.»
Vick saettò lo sguardo tra i due. Alla stessa maniera Joshua, Dean e Christopher spostavano l'attenzione tra i tre fratelli. Sembrava stessero seguendo una strana partita di tennis in tre. Duke doveva avercela con il tavolino, perché stava stringendo il bordo fino a far emergere le vene lungo le sua braccia muscolose.
«Io non ho nulla da dirti», sperava che questa risposta le bastasse. Era stanco, non avrebbe avuto la forza di discutere con lei. «Maschione», salutò il fratello con un leggero cenno del capo.
Duke allentò la presa sul bordo del tavolino, sospirò un sorriso al sentirsi chiamare con quello stupido soprannome. Negò lentamente con il capo, era riuscito a farlo calmare.
«Victor, per favore», la sorellina richiamò la loro attenzione, «Se vuoi puoi ascoltare anche tu, Duke.»
Vick sospirò rumorosamente mentre si alzava, «D'accordo». L'unico lato positivo era che avrebbe potuto evitare di mangiare quel cibo disgustoso. Ultimamente era sempre più inappetente e la nausea sembrava non volesse abbandonarlo da quella mattina. Notò le labbra di Chris, strette in una linea sottile ed orizzontale, il suo sguardo duro lo aveva accompagnato nel movimento. «Torno subito, Bodyguard iperprotettivo.» cercò di sorridere e avvicinò il viso al suo.
«Io sono qui», sussurrò deciso prima di lasciargli un bacio a stampo, delicato, fin troppo fugace per Price.
Sapeva che quella frase si riferisse alla conversazione di quella mattina, gli stava ricordando che non era solo, nonostante fosse testardo. Nonostante non fosse abituato a chiedere aiuto. Per un attimo, si sentì il cuore più leggero.
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