Capitolo 33 (Seconda parte)

Era fuori dall'Edera con le spalle rigide, le mani nelle tasche dei pantaloni neri più comodi che avesse nell'armadio e la sigaretta accesa tra le labbra. Dopo quella chiamata, Daniel aveva incominciato a sentire i mormorii dei clienti sempre più acuti e fastidiosi, la voce di Diana, al suo fianco, distante e ovattata. Era entrato nel panico, non sentiva Kevin dal giorno del coming out e di certo non si aspettava di risentirlo così presto. Non era pronto. Lo sarebbe mai stato? Da codardo qual'era gli erano venute in mente diverse opzioni per evitare quell'incontro: attraversare velocemente la strada, comprare un biglietto aereo di sola andata per il Messico e far perdere le proprie tracce; gli sembrava l'idea più sensata. Se non fosse stato in preda alla confusione più totale, se ne sarebbe vantato con Dean dandosi del genio. Era totalmente distratto dai suoi pensieri che, se Patricia non lo avesse bloccato in tempo, avrebbe frantumato almeno una decina di tazze da caffè.

«Little boy», lo apostrofò con sguardo duro, «Prenditi una pausa, prima che ti metta a giocare a domino anche con le tazzine da Tè e non ti venga in mente di domandarti se le Edere siano infiammabili». Strinse la presa sugli avambracci di Mcdaniel per poi lasciar cadere le mani sui propri fianchi, «Perché la risposta è si ed è meglio che tu non ti faccia prendere da queste curiosità da piromane.» gli puntò un dito sul pettorale, «Ed ora, Little boy, vai a prenderti una pausa o ti licenzio.»

Danny aveva annuito lentamente, senza proferire parola. Ed adesso si trovava lì, a fumare l'ennesima sigaretta. Al suo fianco, il posacenere su uno di quei tavolini anonimi. Non riusciva a sedersi, in verità non riusciva a muoversi se non compiere quei gesti abitudinari ed automatici di fumare. Il fumo gli danzava dinanzi al viso teso e pallido. Le labbra stringevano il filtro più di quanto lo facessero solitamente e le sue iridi verdi fissavano incessantemente la crepa del marciapiede. Non avrebbe dovuto essere agitato, non aveva fatto nulla di sbagliato. Aveva solo deciso di essere finalmente sé stesso e smetterla di evitarsi. Inspirò la nicotina ed allontanò il bastoncino di tabacco dalla bocca afferrandolo con due dita. Sollevò lo sguardo, come se sapesse e dopo tanto tempo incontrò le sue iridi marroni. Nulla sembrava cambiato in lui, era ancora innamorato. Pensava gli fosse passata un po', il tempo non faceva sbiadire le cicatrici? L'odio che gli aveva riversato l'ultima volta avrebbe dovuto aiutarlo a metterci una pietra sopra.

Kevin si fermò davanti a lui ed infilò le mani nelle tasche. Rimase in silenzio ad osservarlo e Daniel si sentì nudo. Era la prima volta che lo guardava senza che lui indossasse alcuna maschera. «È da un po' che non vedo la tua brutta faccia», si decise a prendere parola.

«Già», fece un altro tiro cercando di ricordarsi come respirare. Stava trattenendo il respiro senza rendersene conto.

Thompson lo squadrò, lo scrutò lentamente da capo a piedi. «Barista, eh?»

«Kev», la voce gli uscì incerta, «Sappiamo entrambi perché non hai più visto la mia brutta faccia. Nel caso non lo ricordassi, la mia brutta faccia ha rischiato di essere presa a pugni da te. Te lo immagini il mio bellissimo viso coperto da ematomi? Come avrei fatto a rimorchiare? I tizi con una benda sull'occhio non sono così affascinanti e misteriosi.»

«Vedo che il tuo umorismo non è arrugginito.»

«Kev...»

«Ho riflettuto molto», lo interruppe, «Sulla nostra amicizia e su quello che mi hai detto. Io... Io non riesco a capirti e parlare con Price non ha migliorato le cose. Ma mi manca il mio amico, a patto che eviti di raccontarmi le tue... "avventure", vorrei che tornasse tutto come prima. Tra noi.»

Cosa? «Cosa?!» sgranò gli occhi. Aveva parlato con Vick? E cosa si erano detti? L'ultima volta che lo aveva chiamato non aveva nemmeno lontanamente accennato a questa presunta chiacchierata. Se era lì, probabilmente Victor aveva cercato di aiutarlo. Ancora. Oppure si stava vendicando. «Cosa ti ha detto?» non fece in tempo ad impedirsi di chiederglielo.

«È questo quello che ti interessa di quello che ho detto?!» allargò le braccia, con i palmi aperti, incredulo. «Sei serio?!»

«Rispondi.»

«Puoi benissimo chiederlo a lui, no? Stavate insieme.»

«Stavamo», sottolineò. Un sorriso amaro apparve sulle sue labbra mentre spegneva la sigaretta nel posacenere. Non era cambiato, dubitava potesse farlo. Quella parte di sé che lo amava si stava aggrappando con tutta sé stessa a questa convinzione. Non aveva bisogno di illusioni, scosse lentamente il capo. «Nulla tornerà come prima, mai.»

«Perché?» aggrottò la fronte, «Ti accetto per quello che sei.»

«Non c'è nulla da accettare. La mia sessualità riguarda solo me.»

Sbuffò, gli sembrava di sentire Price.

«Hai detto che non riesci a capirmi, che devo evitare di parlarne. Esattamente, a cosa avresti riflettuto?» fece un respiro profondo, cercando di prendere il coraggio che non aveva. «Io sono stanco di nascondermi, Kev. Non ho più intenzione di figermi ciò che non sono, tanto meno con le persone a cui tengo. Sto cercando di cambiare, sono cambiato.»

«Non ti ho detto di nasconderti, Danny!» esclamò.

«Si, mi hai detto di evitare di parlarne. Vuoi tornare come prima e fingere che non sia successo nulla! Come puoi chiedermelo dopo che ti ho detto che sono innamorato di te?!» lo aveva detto ad alta voce, ancora. Lo aveva urlato.

«Piantala», tuonò. Il volto di Thompson s'indurì, le sue labbra si strinsero in una linea tesa.

«Di fare cosa? Di amarti?» domandò ironico, «Non posso farlo a comando, per quanto mi piacerebbe.»

«Io rivoglio solo il mio amico!» urlò Kevin. Dei passanti si voltarono a guardarli e Macdaniel era sicuro che Patricia stesse ascoltando senza intervenire, sentiva il suo sguardo bucargli sulla nuca.

Poteva farlo? Poteva tornare ad essere suo amico? «Non posso», sussurrò afflosciando le spalle. La risposta gli apparve così nitida, ma così difficile. Non poteva, non voleva. Non voleva più scappare, mentire, fingere che nulla fosse accaduto. La fuga era stancante, esasperante. Era stato un latitante di sé stesso per troppo tempo. «Non posso più essere tuo amico», negò con il capo.

«Non dire cazzate!»

«Non posso essere me stesso con te e non posso accettarlo», faceva male. Il cuore sembrava collassare su sé stesso e gli occhi iniziavano a pizzicare.

«Non c'è nulla da accettare.» lo citò con ironia con un sorrisetto sfottente sulle labbra, ma non si aspettò che anche sulla bocca dell'altro ragazzo ne apparisse uno simile. Amaro.

«Hai ragione, non c'è nulla da accettare» ripeté. E quella frase acquistò un nuovo significato, con un peso del tutto differente. Sostenne il suo sguardo e capì di essere riuscito a metterci un punto. Sperava solo che con il tempo quei sentimenti sarebbero sbiaditi portandosi via il dolore.

Il cazzotto arrivò, improvviso. Le nocche di Kevin Thompson, il suo ex migliore amico, l'uomo di cui si era innamorato, lo colpirono sullo zigomo. Un dolore sordo seguì quel gesto. Lo afferrò per il colletto della maglietta con la stessa mano e gli sibilò parole dure ad un palmo dal naso, che arrivarono dritte al petto come lance, anche se l'impatto lo aveva leggermente stordito: «Vaffanculo, frocio!» e lo lasciò con una spinta, facendolo sbattere con la schiena contro la parete. Andò via prima che Daniel potesse anche solo reagire.

Patricia corse subito fuori, aveva la preoccupazione nel volto. «Little boy», nella voce si percepiva anche rammarico per non essere riuscita ad intervenire prima, per non aver impedito ciò. «Mi dispiac-»

«Sto bene», mentì interrompendola. «Ho solo bisogno di andare in bagno», si forzò di sorridere ma nel tentativo sul suo volto si formò una smorfia. «Devo incipriarmi il naso», il sarcasmo non riuscì ad alleggerire l'atmosfera. Cazzo.

§

Il bagno del bar era decisamente piccolo, se Mcdaniel avesse sofferto di claustrofobia era certo che non sarebbe riuscito ad entravi. Era dotato di un semplice water ed un lavandino, su cui era chinato mentre stringeva i bordi del lavabo fino a farsi sbiancare le nocche. Il tutto circondato da piastrelle, con delle Edere disegnate, sulle pareti. Non aveva avuto il coraggio di guardarsi allo specchio, di guardare l'ematoma che lo avrebbe costretto a raccontare tutto ai suoi genitori e al suo fratellino. Quello che faceva più male, però, era il petto.

«Mi sembra di morire», sussurrò mentre fissava il dispenser del sapone. Avrebbe dovuto sentirsi meglio, con il cuore più leggero anche se ammaccato. Invece perché si sentiva come se una morsa lo stringesse così forte sulla cassa toracica? Gli occhi erano sicuramente rossi, una volta chiuso in bagno, si era concesso di piangere. Alzò finalmente il capo, il suo sguardo si posò immediatamente sul suo riflesso sullo specchio sopra il lavandino. Aveva i capelli neri in disordine, il labbro inferiore spaccato, la guancia era violacea fino allo zigomo sotto l'occhio. Il verde delle iridi risaltava, contornato dal rossore. «Posso dire di essermi fatto una canna», si disse alzando le spalle, come se non gli importasse. Stava cercando di rassicurarsi, a modo suo. Ma cosa avrebbe detto del livido? Aveva ancora qualche ora per pensare ad una scusa, quando sarebbe stato pronto avrebbe detto tutta la verità. Negò lentamente con la testa, quel momento non sarebbe mai arrivato. Stava solo procrastinando l'inevitabile. Si leccò il labbro inferiore ed una smorfia apparve sul suo volto mentre apriva la cassetta del pronto soccorso che Patricia gli aveva portato. Lui si era chiuso in bagno, erano passati solo una manciata di secondi prima di sentirla bussare alla porta.

«Little boy, ti ho portato la cassetta del pronto soccorso», disse al di là della porta, apprensiva. Ma non ricevendo risposta, aggiunse: «Se non apri subito la porta mi costringi a scassinarla e trascinarti fuori per un orecchio.»

Danny sapeva che quelle minacce si sarebbero avverate, fu costretto ad aprirla con le lacrime che gli rigavano le gote. Si era preparato a delle domande, ma la donna si limitò a stendergli semplicemente la cassetta.

«Ti aspetto fuori», asserì per poi tornare al bancone. Quella donna lo terrorizzava leggermente, sentiva che era capace di ogni cosa.

Afferrò il ghiaccio istantaneo e lo poggiò sul livido. Strinse gli occhi, «Cazzo» sibilò a nessuno. Uscì dal bagno con l'impacco freddo sulla guancia e la cassetta nell'alta mano. «Grazie», bofonchiò al suo capo mentre riponeva la cassetta al suo posto e tornava dietro al bancone.

«Dovresti tornare a casa», sollevò un sopracciglio.

«Così spaventerai i clienti», ridacchiò Diana cercando di alleggerire la tensione che si percepiva tra loro. Entrambe avevano compreso cos'era successo, ma nessuna delle due aveva il coraggio di chiedere i dettagli al ragazzo. Era una situazione fin troppo delicata ed era evidente che non se la sentiva di toccare l'argomento.

«Non mettermi in testa strane idee», cercò di assecondarla e fare finta di nulla. «Sto bene», cercò di rassicurarle ma non sembrarono crederci, «Davvero!»

«Sei testardo», disse Patricia mentre negava con il capo alzando gli occhi al soffitto. «Torno in ufficio a sistemare delle carte e tu», lo indicò con l'indice, «Rimani al bancone, chiaro?»

«Si, signora!» fece il saluto militare.

«Ti ha terrorizzato per bene», mise il dito nella piaga, Diana. «Questo posto era fin troppo tranquillo prima che arrivassi tu.»

«Mi dispiace, okay?» sospirò allargando le braccia.

«Oh, non devi scusarti! Sono io che devo ringraziarti», gli fece l'occhiolino per poi andare a sistemare i tavoli. Non si sarebbe mai aspettato fosse una ragazza divertente, quelle pcihe volte che l'aveva incrociata gli era sembrata timida, di fianco ad Ellen. Ultimamente aveva imparato fin troppo bene che le apparenze non sono mai veritiere e che lui aveva un pessimo senso di osservazione.

Sospirò per l'ennesima volta, riavvicinando il ghiaccio istantaneo allo zigomo.

«Hai sbattuto contro un pensile?»

Danny sussultò per la terza volta quel giorno. Quando era arrivato Phil Garrow? Lo osservava con un sopracciglio alzato e i gomiti poggiati sul bancone. «No, sono caduto dalle scale», rispose ironico con un sorriso sghembo, «Il solito?»

Il ragazzo annuì. Poteva sentire perennemente il suo sguardo addosso mentre preparava una tazza di caffè con caramello e cioccolata. «Cosa ti è successo davvero?» domandò, cauto. Quella domanda che nessuno aveva avuto il coraggio di porgli, gli diede fastidio. La ferita, figuartivamente e letteralmente, ancora bruciava.

«Dopo la triste perdita del criceto Larry il suo migliore amico, Ferdinando il fenicottero, non ha ancora superato la sua dipartita.» si voltò e poggiò la tazza pronta sul bancone, «È entrato da quella porta come una furia dicendo che voleva ingozzarsi di ciambelle ripiene di mirtilli. Ma sappiamo tutti che è allergico, perciò ho cercato di fermarlo e nella colluttazione mi ha colpito.»

«Capisco», fece prima di bere un sorso della bevanda.

Aveva davvero capito? Avrebbe fatto cadere il discorso o si era offeso? In tal caso, non gli importava.

«Usi il sarcasmo come meccanismo di difesa. Fammi indovinare, hai paura di mostrarti vulnerabile? Vuoi apparire stronzo, non è così?»

«Non ti facevo anche psicologo», lo rimbeccò sarcastico. «Mi ferisce che non credi alla storia di Fernando il fenicottero», si poggiò una mano sul petto asciugandosi una lacrima immaginaria con l'altra mano.

«Si, sei proprio stronzo oggi», bevve un sorso con tutta tranquillità. Sembrava che il comportamento di Daniel non lo ferisse affatto.

«Non ho mai negato di esserlo», Mcdaniel si ripoggiò l'impacco freddo sullo zigomo. «Non sono un santo, né un agnellino timido e spaventato.»

«Tutti fanno degli errori, è umano.»

Quindi sapeva? Sapeva il modo in cui aveva trattato Victor? Glielo aveva raccontato? Ne era certo, non poteva fuggire dal passato e questa ne era la prova. Se lo avesse fatto, il passato con tutti gli errori commessi gli sarebbero corsi dietro. L'avrebbe pagata, la stava già pagando. «Sembra quasi che tu non sappia nulla», sbuffò con un sorrisino ironico e all'espressione interrogativa di Phil continuò: «Sono l'ex di Price. Sono sicuro che vi conoscete, lavorava nel tuo stesso locale da anni e so che ti ha raccontato tutto.»

Garrow sgranò gli occhi, sembrava avesse ricevuto una secchiata di acqua gelata. Aveva appena dato un volto alla persona che aveva fatto star male il ragazzo che gli interessava. Lo aveva visto spesso con le sopracciglia aggrottate, quando litigavano. Con gli occhi leggermente rossi quando lo feriva. Aveva avuto il coraggio di chiederglielo, ma ogni volta Vick lo liquidava rivolgendogli un sorriso smagliante e triste, negava con il capo e sussurrava il suo nome. Danny. «Ci conosciamo ma non mi ha detto nulla. Si capiva lontano un miglio che lo facevi soffrire.»

Lo sapeva. Cazzo. Si passò le dita tra i capelli ed inspirò con il naso. «Già», la voce uscì strozzata. Era una giornata da dimenticare quella, era al limite.

«Danny, ciò che gli hai fatto è affar vostro. Io volevo solo sapere cosa ti è successo», indicò con un lieve cenno del capo il livido.

«Il mio ex migliore amico omofobo, di cui purtroppo sono ancora innamorato, è venuto per parlarmi dopo che mi sono dichiarato e fatto coming out con lui e alla fine mi ha colpito», sputò di getto. Il petto si muoveva velocemente al suo respiro leggermente affannato, doveva darsi una calmata. Si sentiva maledettamente nudo, esposto e fragile ai suoi occhi.

«Sei stato coraggioso, essere sè stessi non è mai facile». Gli rivolse un sorriso dolce che lo fece sentire compreso.

«Come la felicità», sussurrò tra sé e sé chiudendo gli occhi.

«Di solito mi faccio gli affari miei, ma se hai bisogno di qualcuno, sono disposto a sopportare lo stronzo che sei», Phil gli rivolse un sorriso sghembo.

Riaprì gli occhi. «Allora approfitto della tua gentilezza, pseudopsicologo da quattro soldi»,ricambiò il sorrisino con del sarcasmo. Sapere di non essere solo era confortante, si era appena fatto un nuovo amico?

§

Poggiato con la fronte al finestrino dell'auto, osservava il paesaggio fugace ma familiare di case e negozi. La guancia faceva ancora male, come il suo petto. Era certo che, quando sarebbe tornato a casa, nella solitudine della sua camera, si sarebbe permesso di andare in frantumi. In quel momento, però, nella macchina di Phil, stava cercando di tenere insieme i cocci come un vaso di ceramica raffazzonato con del nastro adesivo. Aveva avvisato Dean che sarebbe rincasato tardi e che lo avrebbe accompagnato Garrow.

«Non mi avevi mai parlato di questo Phil Fustacchione Garrow», aveva detto ammiccante Dean Pettegola Mcdaniel, dall'altro capo del telefono.

Danny aveva alzato gli occhi al cielo ed un piccolo sorriso si era finalmente dipinto sulle labbra che fu immediatamente rotto da una smorfia di dolore. Si sfiorò il labbro inferiore con i polpastrelli. «Erano bei tempi quando ero figlio unico.»

«Ma se mi adori! Sono la ragione per cui ti svegli la mattina.»

«Il Criceto Larry lo era, adesso è Ferdinando Il Fenicottero», specificò ironico.

«Dopo dovrai spiegarmi un po' di cose riguardo questo Ferdinando Il Fenicottero», sghignazzò per poi chiudere la chiamata.

Daniel sapeva benissimo cosa lo attendeva: la verità. Alzò la testa e sospirò quando la macchina si fermò davanti al palazzo. Quei giorni passati a lavorare in quel piccolo bar accogliente, a parlare con Diana, la litigata con Kevin e anche la chiacchierata con Phil, gli avevano fatto capire molte cose che avrebbe dovuto comprendere molto tempo fa. Peccato fosse un codardo zuccone. Rivolse lo sguardo verso il ragazzo al posto di guida, sollevò un sopracciglio. «Non parcheggi? Non vieni con me?»

«Certo, non vedo l'ora di accompagnarti per farti parlare con il tuo ex ragazzo, il quale è stato la mia cotta segreta per anni, con il quale sei stato uno stronzo colossale.» rispose ironicamente poggiandogli una mano sul ginocchio. «E non guardarmi così, percepisco quanto mi stai odiando.»

Mcdaniel aveva aggrottato le sopracciglia nere e lo stava fulminando con lo sguardo. Se avesse avuto il potere di far uscire dalle pupille dei raggi laser, Phil avrebbe perso sicuramente qualche arto. «Ti ringrazio per aver messo il dito nella piaga, sei stato delicato come un elefante che fa un balletto di danza classica con un tutù rosa.»

«Tutù rosa?» chiese confuso.

«Tutù rosa.» confermò, «È di vitale importanza.»

Sbuffò un sorriso stringendo leggermente la presa calda sul ginocchio. «Andrà bene, io sarò qui ad aspettarti. Questa è una di quelle cose che devi affrontare da solo, o non cambierà mai niente.»

«Mi aspetterai davvero qui fuori?»

«Davvero davvero», gli sorrise incrociando le sue iridi castane come il cioccolato a quelle verdi come il prato d'estate.

Daniel annuì lentamente, poi aprì lo sportello e scese lentamente, come se il suo corpo risentisse improvvisamente della gravità. Non si voltò indietro, o sarebbe tornato in auto ed avrebbe urlato di dare gas. Quando arrivò dinanzi alla porta dell'appartamento, era ormai un fascio di nervi. Ispirava con il naso ed espirava con la bocca facendo respiri profondi. Non era pronto, ma non lo sarebbe mai stato. Era arrivato il momento di non vergognarsi di essere sé stesso, perché doveva vivere con sé stesso. Avvicinò l'indice al campanello, ma lo ritrasse come se si fosse scottato. «Cazzo», sibilò dopo essersi umettato le labbra. Passo le dita tra i capelli per poi premere d'impulso il campanello con la stessa mano. La porta si aprì dopo pochi secondi ed uno strano senso di deja vù lo invase.

«Daniel?» aggrottò le sopracciglia, poi il suo sguardo si fece furente. «Sei venuto per farti sotterrare?»

«Andiamo, Chris» alzò gli occhi al cielo, «Devo parlare con Vick».

Lo scrutò da capo a piedi, indugiò sull'ematoma sulla guancia. Voleva chiedergli cosa gli fosse successo, glielo si leggeva in faccia, ma non lo fece. Le sue labbra si strinsero in una linea sottile, «Non ti farò parlare con lui.»

«Non sarai mica geloso?» sollevò un sopracciglio scuro e sollevò un lembo della bocca in un ghigno serafico.

«Giuro che ti prend-» fece per scagliarsi, ma una voce flebile, ma familiare, che proveniva dall'appartamento, lo fece fermare.

«Principessa Susie», gracchiò a fatica tra un respiro pesante e l'altro, «Dimentichi che casa mia è piccola? Fallo entrare senza commettere omicidi.»

Christopher buttò uno sguardo sul teppista seduto al divano, sospirò e si fece da parte continuando a guardare Danny in cagnesco.

«Vick... » iniziò avvicinandosi. Price era così diverso dall'ultima volta che lo aveva visto. Aveva un corpo più esile, il viso pallido. Perfino i suoi occhi sembravano diversi, ma non sapeva dire in cosa. Aveva quella scintilla che non riusciva ad identificare. Aprì la bocca, ma la richiuse senza emettere alcun suono.

«Non potevi scegliere momento peggiore per presentarti qui», lo informò White, prendendo posto sul divano, tra lui e Price, come se volesse fargli da scudo.

«Lasciaci soli», riuscì a parlare, «Non sono cose che ti riguardano.»

«Mi riguardano invece.» strinse la mano di Victor per ricordargli tacitamente che era il suo ragazzo. Che lo avrebbe protetto.

«Chi è stato?» intervenne Vick, tra un affanno e l'altro, ignorando il principio di lite tra i due, non aveva alcuna intenzione di mettersi tra di loro. Aveva gli occhi lucidi, il ciclo di Chemioterapia quella mattina lo aveva messo al tappeto. Non riusciva a muovere nemmeno un muscolo senza che lo sentisse pesante e dolorante.

Sbuffò un sorriso ironico mentre si appoggiava con il sedere sul bracciolo del divano. «Kevin», disse come se fosse scontato.

«Che farai?»

«Non lo so», sospirò passandosi le dita tra i ciuffi corvini, aveva lo stesso tic del fratello. «Non lo so», ripetè. Avrebbe dovuto denunciarlo, ma allo stesso tempo voleva solo metterci un punto e andare avanti. «Mi ha chiesto di fare finta di niente, come se non avessi fatto coming out e non gli avessi detto di amarlo», abbassò lo sguardo, «Mi ha chiesto di continuare a mentire.»

Christopher percepì la stretta farsi leggermente più forte sulla mano. A cosa stava pensando Price? Cosa lo faceva innervosire? I sintomi del medicinale stavano diventando più acuti? Lo osservò mordersi il labbro inferiore come se volesse impedirsi di parlare. Sperava lo insultasse e gli permettesse di cacciarlo fuori a pedate. Ogni volta che loro due parlavano, il teppista ne usciva sempre distrutto.

«Non posso più permettermi di perdermi, di nascondere ciò che sono.» continuò chiudendo gli occhi, «Ho sofferto per questo ed ho ferito chi mi stava intorno. Ho ferito te». Sollevò le palpebre e puntò il suo sguardo su quelle iridi azzurre così sofferenti, «Non posso più fuggire da ciò che sono, non voglio.»

Il silenzio calò nell'appartamento, interrotto solo dai respiri affannati del teppista. Il petto si ampliava e comprimeva con incertezza. Il suo ex ragazzo non poteva scegliere momento peggiore per presentarsi a... A fare cosa? Non lo comprendeva; il dolore gli impediva di mantenere la mente lucida e ragionare come avrebbe voluto. Aveva abbassato le difese, nonostante si sforzasse di apparire forte e impassibile. In quel momento avrebbe voluto che entrambi andassero via per potersi stendere nel letto, lamentarsi apertamente e piangere. Ma non poteva. Fece per aprire bocca, ma si bloccò quando udì il rumore della chiave girare nella serratura della porta d'ingresso e suo zio Charlie rientrare dopo una giornata lavorativa.

L'uomo aveva il mazzo di chiavi nella mano destra e una busta della spesa nell'altra, mentre con la punta della scarpa chiudeva la porta. «Oggi ho finito prima, tornando a casa mi sono fermato a fare un po' di spesa. Testa di rapa, a te com'è andata oggi?» domandò nel mentre, ma quando si accorse di un terzo ospite si fermò ed aggrottò la fronte, confuso. Quel ragazzo lo aveva già visto, ne era certo, ma non riusciva a ricordare dove e quando. Se lo avesse chiesto apertamente, sapeva che il nipote avrebbe sfruttato l'occasione per prenderlo in giro. Già se lo immaginava, con un sorriso strafottente, dirgli che la demenza senile stava bussando alla porta. «Voi due non starete mica facendo colloqui per una threesome, vero?»

«Il vecchio pervertito con una crisi di mezza età», sospirò.

«Io non ho intenzione di condividere Vick con nessuno», affermò Christopher nello stesso momento.

Incrociò quegli occhi verdi e fece per chiedere, ma l'ospite lo precedette.

«Sono Daniel, l'ex fidanzato di Vick. Piacere di conoscerla», sfoggiò il sorriso più cordiale che avesse in repertorio. Era nervoso, in tutti quegli anni che conosceva il teppista, non gli aveva mai presentato Charlie. Prima di allora, si erano visti solo un paio di volte di sfuggita.

«Sei venuto a riprenderti i DVD di "Rambo"? Lo spazzolino?» iniziò ad elencare mentre sollevava un sopracciglio. «Ci sono! Le pantofole!» provò ad indovinare, sarcastico.

«Sono qui per...» buttò un'occhiata al suo ex, «Per parlare.»

«Oh», notò che White lo stava guardando in cagnesco. Poteva decisamente essere più discreto. «Ragazzo, aiutami a mettere a posto la spesa e a preparare la cena», ordinò a Christopher indicando la cucina con il capo.

«Assolutamente no, non lascerò Vick solo con lui», aggrottò la fronte. Osservò l'uomo avvicinarsi, stringergli una spalla.

«Possiamo origliare dalla cucina senza che se ne accorgano», gli sussurrò dopo essersi avvicinato con il viso al suo.

«Lo sapete che da qui si sente tutto?» sospirò Victor alzando gli occhi al cielo.

Annuì. «Sei un genio!» sussurrò ignorandolo. Si alzò dal divano, «Vi lascio soli» alzò la voce cercando di fingere che non stessero pianificando nulla. Era davvero un pessimo attore.

Daniel li osservò dirigersi in cucina, poi riportò lo sguardo sul suo ex. «Sono consapevoli del fatto che abbiamo sentito ogni cosa e che stanno cercando di origliare discretamente, ma senza successo?» sollevò entrambe le sopracciglia scure. Si voltò a guardarli all'improvviso, trovando Chris ad osservare un pensile della mensola con molto interesse e Clark leggere un etichetta di un barattolo di sottaceti. Sospirò, erano davvero dei pessimi attori.

«Te lo dicevo io che ero il genio della famiglia», ghignò ma durò pochi secondi. «Davvero, perché sei qui? Cosa vuoi?» tornò serio.

«Parlare.» si sedette sul divano al suo fianco, «Vorrei che mi stessi a sentire, senza interrompermi. Poi potrai insultarmi quanto vuoi.»

«I pronostici non sono dei migliori se inizi in questo modo. Posso portarmi avanti e insultarti prima che inizi?»

«È più forte di te, eh?»

«Cosa? Insultarti? Si, mi viene naturale». Il sarcasmo usciva nei momenti meno opportuni, avrebbe dovuto lavorarci su.

«Usare il sarcasmo e l'ironia per evitare di mostrarti vulnerabile», citò la frase che Phil gli aveva rivolto.

«Quello sei tu, non io», strinse il tessuto dei jeans sulle cosce, il bruciore era insopportabile.

Touchè. Poggiò i gomiti sulle ginocchia ed intrecciò le dita, «Già». Fece un respiro profondo, se non avesse cominciato in quel momento, non sarebbe più riuscito ad affrontare di nuovo l'argomento. «Sono sempre stato un codardo, lo sono tutt'ora», iniziò fissando le proprie mani intrecciate. Le strinse.

Victor sapeva benissimo dove voleva andare a parare, aveva aspettato a lungo questa discussione. Aveva atteso che aprisse gli occhi dal giorno in cui lui lo aveva lasciato. Peccato che non poteva scegliere momento peggiore, non aveva il minimo controllo di sé, sia per il dolore, la spossatezza in tutto il corpo, sia per lo stress emotivo. Non riuscì a comprendere perché, ma in quel preciso istante, pensò all'espressione preoccupata del Dottor Barlow dopo averlo visto tossire. Merda. Ultimamente era tutto un "merda".

«Non ho mai accettato ciò che sono, cercando di dare una falsa immagine di me. Non mi sono mai ascoltato, continuavo ad evitarmi, ad evitare di pensare perché era più facile.» si passò le dita tra i capelli, rimanendo poggiato con i gomiti sulle gambe. «E per evitare me, ho fatto soffrire te. Mi facevi stare bene ed allo stesso tempo mi facevi sentire in colpa.»

«Ero il segreto di cui ti vergognavi.»

«Io non mi vergognavo di te, ma di me. Mi facevi stare bene, i momenti con te erano quelli in cui rinunciavo alla lotta contro me stesso», si poggiò sullo schienale del divano, «Ma quando tu cercavi un posto sicuro in cui rifugiarti, io non c'ero.»

L'espressione preoccupata del medico era sempre più vivida nella mente del teppista.

«Da circa un mese lavoro in quel bar che mi hai consigliato. Ho pensato ed imparato tanto, ma solo quando ho potuto parlare nuovamente con Kev ho capito che non ero sbagliato.»

«Quindi sei venuto per dirmi questo?» la domanda gli uscì con un tono di voce seccato.

«Anche se te l'ho detto molte volte, anche se forse non sarai mai pronto, sono venuto a chiederti scusa. Mi dispiace.» incrociò finalmente il suo sguardo che aveva evitato per tutto il tempo. «So che hai bisogno di tempo, ma volevo chiedertelo ancora con questa nuova consapevolezza.»

«Per cosa mi stai chiedendo scusa?»

Scrutò quelle iridi azzurre che lo avevano sempre guardato con amore, poi vi aveva visto rabbia e solo ultimamente erano divenute fredde. Adesso vedeva solo sofferenza, un mare azzurro di dolore. «Per tutte quelle cose che ti fanno ancora male.» sussurrò in modo che potesse udirlo solo lui.

L'immagine del sangue sulla sua mano seguì quella del medico. E se non avesse tempo? E se non potesse permettersi questo lusso? Era così forte da riuscire a perdonarlo? Probabilmente no. Aveva portato rancore, rabbia... Ed era davvero stanco. Se davvero la sabbia su quella clessidra stava per finire, voleva davvero utilizzare fino all'ultimo granello trascinandosi anche questo macigno? «Mi hai mai amato?»

«A modo mio si. Sei stato il mio primo amore, Vick

Si dice che i primi amori non si dimenticano mai, era un modo per dirgli che non lo avrebbe mai dimenticato? Si inumidì le labbra, «Grazie.»

«Per cosa mi stai ringraziando?» Danny aggrottò le sopracciglia, decisamente confuso.

«Per avermi permesso di sentirmi più leggero, a modo tuo.» gli occhi di Price erano lucidi. Non seppe dirlo se era per il dolore o per il sollievo. Si era ripromesso di vivere, di godersi ogni momento.

Mcdaniel gli sorrise. «Si sono resi conto che sappiamo che stanno origliando, vero?» sussurrò addocchiando in cucina di tanto in tanto.

«Te l'ho mai detto che convivo con un vecchio pettegolo con una crisi di mezz'età ed una Pricipessa Susie pettegola

«Per la Pricipessa Susie potrebbe essere stata colpa della suocera che mi aspetta a casa. L'avrà infettato con il virus della pettegolaggine»

«Suocera

«Dean.» ridacchiò alzandosi dal divano, con il principio di un nodo alla gola. Stava metabolizzando solo adesso cos'era appena successo. Stava mettendo definitivamente un punto alla relazione con Victor, aveva ammesso i suoi errori ed anche se si era scusato e pareva averlo in parte perdonato, non lo faceva sentire come immaginava. Non si sentiva più leggero e non riusciva a capirne il motivo. «Penso sia ora che io torni a casa, grazie di avermi ascoltato.»

«Mi hai praticamente costretto, ma prego.»

Sbuffò un sorriso. «Ciao Vick», osservò Clark e White cucinare con un orecchio proteso verso di loro. Non era più solo, lo circondavano persone che si prendevano cura di lui. Era in buone mani. Salutò anche i due impiccioni prima di uscire dall'appartamento e chiudersi la porta alle spalle. L'aria all'interno era diventata pesante, soffocante. A passo svelto si precipitò a scendere le scale. Non sarebbe stato in grado di stare fermo ad attendere l'ascensore. Doveva scaricarsi, i rumori dei propri passi si fece confuso. Uscì dal palazzo, il sole stava calando per dare spazio alla notte. L'aria era cambiata, era fredda, ma Danny non riuscì a percepire quella sensazione sulla pelle. Sentiva solo un rumoroso ronzio in testa, che mano a mano si faceva più intenso e acuto. Vide la macchina di Phil, corse verso la vettura parcheggiata dall'altro lato della strada, aprì la portiera e si catapultò al suo interno. Nella vettura l'aria era decisamente più calda.

«Com'è andata?» domandò Garrow.

Un silenzio sordo invase l'abitacolo come se alle pareti ci fosse dell'imbottitura isolante. Dopo poco, quel silenzio non fu più totale: il respiro di Daniel si fece sempre più pesante ed accelerato. Stava per avere un attacco di panico? Poteva averlo anche se non ne soffriva? Era un crollo emotivo?

Si strofinò nervosamente le mani sulle cosce mentre si leccava il labbro inferiore spaccato che aveva iniziato a tremare. Gli occhi iniziarono a pizzicargli e fu costretto a sbattere più velocemente le palpebre. Avrebbe dovuto dire che era andata bene, perché era andata meglio di come si aspettasse. E allora perché? Perché si sentiva peggio di com'era arrivato? Perché si sentiva uno schifo?

Il ragazzo dal lato guida gli poggiò una mano sulla nuca e lo tirò a sé, facendogli poggiare la fronte sulla spalla. «Va tutto bene», iniziò a sussurrargli pacato accarezzandogliela.

Iniziò a singhiozzare, cercando sempre di trattenersi. Ma quando si accorse che era tutto inutile, si lasciò andare. «È andata bene, eppure...»

«Eppure?»

«Eppure continuo a sentirmi uno schifo», singhiozzò tirando su con il naso un paio di volte. «Perché anche se tento di fare la cosa giusta, deve fare così male? Perché non riesco a fare un passo con semplicità?!» alzò leggermente la voce, ma Phil non se ne preoccupò.

Daniel sembrava arrabbiato con sé stesso, stava provando emozioni contrastanti che non riusciva a comprendere, o almeno non ancora. Perché non sempre i sentimenti hanno un senso. «Non devi prendertela o odiarti perché sbagli o perché fai difficoltà a fare un passo. Stai imparando dai tuoi errori, stai facendo dei piccoli passi senza fermarti.»

«Per gli altri è stato così facile accettarsi, sembra tutto così facile.»

«Perché li osserviamo da lontano senza sapere. Come guardare un dipinto da lontano, solo se ti avvicini puoi scorgere delle imperfezioni meravigliose.» tracciò la nuca con i polpastrelli fino ad infilare le dita tra i capelli. «Non paragonarti agli altri, perché tu sei tu.»

Mcdaniel sollevò il capo per incrociare il suo sguardo con i suoi occhi gonfi. I nasi si sfioravano timidamente mentre i respiri sembravano infragersi tra loro.

«Ognuno è diverso, ognuno ha i propri tempi e la propria strada, con le sue difficoltà, da seguire», sussurrò lentamente, rapito dal suo sguardo. Fece un respiro profondo prima di tirarsi indietro. Avrebbe voluto baciarlo, ma sapeva che non era il momento adatto. L'amore per una persona non svanisce solo perché l'altra persona ti ferisce o non ricambia. Daniel non faceva eccezione e baciarlo significava non rispettare quell'amore. «Andiamo, ti accompagno a casa», gli fece l'occhiolino.

Il ragazzo si limitò ad annuire in silenzio. Osservò il paesaggio attraverso il finestrino e pensò che lanciarvisi al di là e cercare di atterrare in posizione fetale sull'asfalto, senza farsi troppo male, gli avrebbe evitato di dover tornare a casa.

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