Capitolo 33 (Prima parte)
L'odore di disinfettante nelle narici, era ormai divenuto familiare. Le pareti del corridoio, tinte di un colore neutro, erano quasi ipnotizzanti. C'era un silenzio quasi surreale quella mattina in ospedale. Solitamente avrebbe dovuto fare la Chemioterapia nel pomeriggio, in modo che né lui, né il suo Stalker Bodyguard saltassero le lezioni scolastiche. Ma c'era stato un disguido e si era trovato lì, seduto su una di quelle scomodissime sedie in plastica, a far finta di provare estremo interesse verso la porta della stanza dove gli avrebbero iniettato lava ustionante nelle vene, accanto al suo ragazzo autoinvitato e stranamente taciturno. Quando aveva saputo che avrebbe dovuto recarsi lì di primo mattino lo aveva riferito a Chris, minacciandolo di disegnargli geroglifici espliciti sul viso con l'indelebile nero mentre dormiva nel suo letto, in uno di quei pomeriggi passati insieme, se avesse solo pensato di saltare le lezioni a causa sua. Victor lo addocchiò distrattamente, senza farsi notare. Perché, quando lo aveva visto quella stessa mattina, davanti all'ingresso dell'ospedale, avevano iniziato a litigare.
«Ti avevo detto che non c'era bisogno che mi accompagnassi!» ribadì Price allargando le braccia.
«Si che ce n'è bisogno! Tuo zio è dovuto scappare con urgenza a lavoro. Come pensi di tornare a casa dopo la Chemio?» Da un po' di tempo, White abbreviava il nome completo della terapia, come se non riuscisse più a pronunciarlo. Come se, dopo aver vissuto quasi sulla sua pelle gli effetti del farmaco, lo avesse reso fin troppo coscienzioso della aofferenza, anche se Vick cercava di mascherarlo.
Il teppista si ritrovò a boccheggiare come un pesce, dinanzi all'evidenza. «Ti disegnerò un cazzo di pene in fronte con il pennarello indelebile», borbottò entrando in ospedale. E da quel momento non si erano scambiati nemmeno una parola.
Il biondo si era limitato a sedersi al suo fianco, in un silenzio che non gli apparteneva, molleggiando nervosamente la gamba. Price non avrebbe mai ammesso di avere torto. No, non era quello il motivo per il quale si era arrabbiato, non era per la ragione o il torto. Era perché non voleva che Christopher sacrificasse il suo tempo, le lezioni scolastiche, un pezzo di adolescenza che non sarebbe più tornato, che non avrebbe più potuto restituirgli. Quel pezzo di adolescenza che lui non avrebbe mai vissuto serenamente. Sospirò, poggiando la testa sulla spalla di White. Si sentiva tremendamente in colpa per tutto questo, come lo sentiva per Quel Vecchiaccio con una crisi di mezz'età con cui condivideva l'appartamento, che dormiva nella stessa camera in cui dormiva sua madre, ma di cui non si era appropriato. In quella stanza, c'erano ancora gli oggetti di Hanna, i suoi vestiti nell'armadio, i libri con quelle orecchie ai lati delle pagine, che tanto odiavano Charlie e Victor, accatastati sul comodino. Come se da un momento all'altro lei dovesse tornare a viverci. Come se potesse. Price non era più riuscito ad entrare in quella camera, il massimo che era riuscito a fare era fermarsi sulla soglia ed osservare. Prima o poi avrebbe dovuto andare avanti, come aveva detto a suo zio.
White poggiò la testa sulla sua sospirando come se rimanere in silenzio lo sfiancasse. «Vick».
«Dimmi.» Finalmente aveva rotto quel tipo di silenzio che odiava. Poteva, quasi ironicamente, tornare a respirare. Un accenno di sorriso si dipinse sulle sue labbra.
«Devi mettere un dollaro nel barattolo delle parolacce», sentì il viso piegarsi in un sorriso, probabilmente sghembo, sulla sua testa.
«'Fanculo», sussurrò con il sorriso che si allargava.
«Questa ne vale almeno cinque di dollari», sghignazzò mentre il teppista alzava gli occhi al cielo. «Ti eri dimenticato?»
Victor sollevò il capo per guardarlo in viso, aggrottò le sopracciglia, confuso. Una tacita domanda sul suo volto emaciato.
«Che non puoi più liberarti di me», asserì senza alcuna esitazione, incatenando i suoi occhi ambrati a quelli azzurri del ragazzo.
«In verità, la legge non la pensa allo stesso modo su gli stalker». Prima o poi il sarcasmo sarebbe stata la sua condanna, ne era quasi certo.
«Sai a cosa mi riferisco, Vick. Smettila di cercare di fare tutto da solo, di tirarmi fuori dal tuo dolore.»
Fece per ribattere, un'altra battuta ironica tra le labbra, ma la voce non riuscì ad uscire. Si ritrovò a boccheggiare fino a sentire la fatidica porta aprirsi e la figura del dottor Barlow apparire sulla soglia.
«Victor», lo chiamò. Quell'uomo da tempo era entrato a far parte della sua vita, mai si sarebbe aspettato in quel modo. Lo vedeva più di quanto volesse, ogni volta che doveva cambiare la medicazione all'ago-cannula, ogni volta che doveva sottoporsi ad un ciclo di Chemioterapia. La sola vista di quell'uomo, ormai gli provocava dolori in tutto il corpo. «Christopher aspetta qui fuori come da regolamento e dopo può entrare».
Entrambi i ragazzi annuirono, non era la prima, né l'ultima volta. Il diretto interessato si alzò lentamente dalla sedia, «Ti aspetto dall'altra parte, Pricipessa Susie» sussurrò equivoco con un sorrisino. Doveva essere forte, avrebbe sorriso, lo aveva promesso a sé stesso. Entrò nella stanza senza dar tempo a White di rispondere in alcun modo. Si tolse la felpa, rimanendo con una maglietta anonima a maniche corte, mentre il medico lo scrutava da capo a piedi. Era irritante, nonostante lo avesse tirato fuori da una situazione in cui sarebbe stato costretto a mentire. Non era pronto, non riusciva ad abbattere tutti i muri che si era costruito, nonostante Chris ne avesse abbattuti molti. Lo stava cambiando.
«Stai mangiando?» domandò decidendo di sfogliare la sua cartella clinica.
«Neanche più un "come stai?", eh?» rispose ironico sedendosi sul lettino. Avrebbe gradito un materasso più morbido, se solo riuscisse a dormire. «Ci sto provando», ammise con voce roca.
Mark annuì una sola volta, sollevando gli occhi dai fogli. Aveva perso ancora peso, lo sapeva. «Come stai?»
«Mi prendi in giro?» alzò leggermente la voce. «Sto bene come una persona con il cancro ai polmoni in procinto di farsi iniettare lava confezionata per l'occasione.» esclamò ironico per poi iniziare a tossire copiosamente. L'ossigeno sembrava rifiutarsi di entrare nei bronchi per svolgere la sua azione nella respirazione e trasformarsi magicamente in anidride carbonica. Da quanto non aveva più uno dei suoi attacchi di tosse? Sembrava stessero diminuendo, ma negli ultimi tempi erano tornati più frequenti che mai. Perché doveva averlo proprio in quel momento, davanti al medico? Maledisse mentalmente la sua buona stella, che doveva avercela con lui per qualche stranissima ragione che non riusciva a comprendere, mettendosi una mano davanti alla bocca mentre Barlow gli accarezzava delicatamente la schiena. Si sentiva osservato come fosse una cavia da laboratorio, analizzato in ogni minimo respiro mancato. Quando smise di tossire, il viso paonazzo e le lacrime che gli rigavano le gote per lo sforzo, tolse la mano dalla bocca. Rosso. Spalancò gli occhi, osservando la mano sporca di sangue. Com'era possibile? Era scomparso, non sputava sangue da qualche mese, ormai. Perché ultimamente era tornato? Era solo l'irritazione della gola, giusto? Anche mentre rigettava il cibo nel water, era l'esofago irritato, no? Il suo respiro non accennava a placarsi, agitato tra il panico e una crisi.
«Dovremmo fare accertamenti ed analisi specifici», prese finalmente parola Mark, stendendogli un fazzoletto. «Andrà tutto bene», la sua voce era calma e calda. Stava cercando di tranquillizzarlo pur cercando di rimanere nella sua figura professionale. Price era stato chiaro al riguardo.
«Sei un ottimista», sollevò un lembo delle sue labbra mentre si puliva la mano e la bocca con sprazzi carmini. Non avrebbe detto nulla a nessuno, non li avrebbe fatti preoccupare per nulla. Sarebbe andato da solo.
In risposta lui si riposizionò con l'indice gli occhiali scesi lungo il setto nasale, «Devo esserlo anche per te».
§
Era stato costretto ad alzarsi dalla sedia e camminare lungo il corridoio dalle pareti anonime dell'ospedale come un leone in gabbia. Se Christopher fosse rimasto seduto, le infermiere di passaggio sarebbero accorse pensando che avesse una crisi epilettica. Aveva iniziato con il molleggiare una gamba prima che Victor entrasse nella stanza con Barlow, poi aveva iniziato a muovere anche l'altra e l'agitazione lo aveva costretto a farsi una bella passeggiata. Il teppista stava cercando ancora di non coinvolgerlo nel suo dolore, o almeno non del tutto, ma non sapeva che c'era dentro fino al collo. Avrebbe preso un anno sabbatico per rimanergli accanto, con molto dissenso da parte dei suoi genitori. Perché non riusciva a capire che si preoccupava? Era normale preoccuparsi per le persone che si amano, no? Arrossì come una quindicenne che fantastica sul suo cantante preferito di una boy band, fermandosi nel mezzo del corridoio. Amava ogni cosa di lui, la sua tenacia, la sua forza nel rialzarsi ogni volta, i suoi occhi azzurro intenso che si addolcivano ogni volta che lo guardava; era certo che non se ne rendesse conto. Amava quelle fossette che spuntavano quando sorrideva davvero, quando le labbra si incurvavano in quei suoi sorrisi sghembi, quegli sguardi acuti e pieni di ilarità prima di aprire bocca ed usare quel suo sarcasmo irritantemente fuori luogo. Amava la sua fragilità. Non riusciva più a nasconderlo dietro quei sorrisi, avrebbe voluto che si aprisse di più con lui, che lo vedesse più spesso come un porto sicuro in cui rifugiarsi. Anche se gli aveva detto che non si sarebbe arreso, che avrebbe lottato, non era mai riuscito a capire a cosa pensasse in quei momenti in cui forzava sorrisi. Pensava alla morte? E come la vedeva? Non aveva mai avuto il coraggio di chiederglielo, sarebbe stato inopportuno e indelicato. La malattia cambia le persone, la loro prospettiva di vita, il loro modo di vederla, il significato di ogni piccolo gesto che molti avrebbero dato per scontato.
Udì la porta aprirsi e fece in tempo a voltarsi per vedere Mark sulla soglia della stanza ad osservarlo con la fronte aggrottata. Chris stava andando via? «Dove vai?»
Il ragazzo si avvicinò velocemente a lui, mentre socchiudeva la porta della stanza. «Posso entrare?»
L'uomo sospirò, annuendo. Sapeva che sarebbe rimasto all'oscuro riguardo le analisi e il sangue, ma non poteva dirgli nulla, avrebbe infranto il segreto professionale. Ne avrebbe parlato solo quando avrebbe avuto i risultati e la certezza che stesse bene. «Vacci piano con lui, lo vedo un po'...»
«Agitato?» lo interruppe, «Irritato? Arrabbiato?»
«Debole», lo corresse e il ragazzo trasalì. «Quando finisce il farmaco, chiama l'infermiera», ricordò la solita procedura, gli fece un cenno di saluto e s'incamminò verso il suo studio, lasciandolo lì davanti alla porta.
Quella parola gli rimbombava nella testa di continuo. Debole. Debole. Debole. Non lo aveva definito fragile, ma debole. Victor non era debole, come poteva solo immaginarlo tale? Prese un profondo respiro ed entrò nella camera chiudendosi la porta alle spalle. Lo osservò disteso sul lettino ospedaliero. Si era tolto il berretto di lana, poggiato sul comodino in modo disordinato. Il septum risaltava alla luce che traspirava dalla finestra, il petto si muoveva lentamente seguendo i suoi respiri profondi. Probabilmente il farmaco stava iniziando a bruciare. Si sedette alla sedia di fianco e lo osservò. Incrociò il suo sguardo lucido e gli afferrò cautamente la mano.
Il teppista fece un profondo respiro, come se avesse ripreso a respirare, come se avesse trattenuto il fiato per tutto quel tempo senza rendersene conto. «Sei silenzioso», la sua voce uscì roca.
White gli accarezzò il dorso della mano con il pollice per poi appoggiarvisi con la fronte. «Strano, vero?»
«Stai pianificando come uccidermi e farlo sembrare un incidente? Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato, gli stalker si stufano presto delle loro vittime. Ma io ti tormenterò da fantasma, non ti farò dormire sogni tranquilli.»
Sollevò la testa alzando un solo sopracciglio biondo.
In risposta annuì una volta sola, «Dovevi saperlo, stalker avvisato». Aveva quel sorriso sghembo che sembrava quasi una smorfia mentre Christopher alzava gli occhi al cielo e negava lentamente con il capo. Il silenzio gravò nella stanza, interrotto solo dal respiro pesante ed irregolare di Price. «Spara» asserì dopo un sospiro più lungo.
«Cosa?»
«Quando stai per troppo tempo in silenzio hai qualcosa per la testa, sento il cigolio degli ingranaggi muoversi e se continui così vedrò anche il fumo uscirti dalle orecchie.»
«Ho sempre qualcosa per la testa», o meglio qualcuno.
«Sai cosa intendo», stava odiando quel silenzio a cui era da sempre abituato. Era abituato a quel silenzio del suo appartamento dopo una giornata scolastica o dopo un turno lavorativo. Era abituato a quel silenzio in casa dopo il funerale di Hanna. Era abituato al silenzio soffocante della sua camera in quelle notti insonni sempre più frequenti. Stava iniziando ad odiarlo, a soffocarlo di pensieri, ed era stanco. «Nei cicli di Chemio sono stranamente sincero, perciò parla.» sembrava lo stesse supplicando.
«Posso chiederti qualunque cosa?», il teppista annuì lentamente. «Sei sicuro?»
Annuì ancora, «Dimmi tutto, Principessa».
Come poteva chiederglielo? Le sue labbra si strinsero in una linea sottile per poi schiudersi lentamente. «Pensi che dopo la morte ci sia qualcosa?» non era riuscito a chiederglielo, o almeno non del tutto.
Victor lo osservò agitarsi sulla sedia, le iridi colpite dal sole avevano delle pagliuzze dorate. «Ha importanza?» distolse inevitabilmente lo sguardo, preferendo osservare quel soffitto bianco e anonimo. «Ha importanza sapere se c'è qualcosa dopo la morte? Non credi bisogna cercare di vivere al meglio e basta?»
«Ti ho fatto una domanda sulla morte e parli della vita», sospirò.
«Non si può parlare di una senza l'altra, sono correlate, legate. Coesistono», chiuse gli occhi, era difficile concentrarsi con quel dolore nelle vene, ma doveva assolutamente distrarsi o sarebbe scoppiato in lacrime. «Spesso si pensa alla morte, ma si dimentica di vivere. A volte si vive, dimenticando la morte». Aprì gli occhi ed incrociò le iridi azzurre con quelle di White, «Non lo trovi strano?»
«Che tu faccia il filosofo? Si, questo è strano» sghignazzò sarcastico senza distogliere gli occhi dai suoi; era impossibile, come se un magnete attraesse l'altro.
«Però ci ho pensato lo stesso e non ho trovato risposta», rispose finalmente alla domanda, «Tranne che verrò a tormentarti da fantasma, ti sussurrerò porcherie durante le verifiche o nelle cene con i tuoi nonni.»
Sbuffò, «Il tuo sarcasmo fuori luogo è quasi preoccupante.»
«Qual'è la vera domanda che volevi farmi, Christopher?» lo rimbeccò.
Merda, era così evidente? «Ti ricordi cosa mi hai detto in quel bagno, alla festa a casa di Nick?» Price fece per rispondere ma fu interrotto sul nascere, «Mi hai detto che "si lascia scivolare via la vita tra le mani, come sabbia tra le dita".» gli accarezzò distrattamente il dorso della mano con il pollice, non aveva mai lasciato la presa per ricordargli che lui era lì, al suo fianco. «Come... Come si fa a non lasciarla scivolare via?» balbettò incerto, «Come si può dare un significato alla propria morte?» strinse impercettibilmente la presa e deglutì a fatica.
Poteva essere scontato, soprattutto dopo il lutto che si era trovato ad affrontare, ma Vick ci aveva pensato spesso. Da molto tempo ci pensava, ormai. Da quando aveva visto Hanna spegnersi lentamente, vederla appassire con il fuoco negli occhi, a testa alta. Come si sforzasse di sorridergli. Forse era in quel momento che aveva deciso che lui non si sarebbe sforzato, perché lui voleva sorridere e ridere davvero. Non voleva passare il resto della sua vita a fingere, eppure si era trovato a farlo. Non sapeva se sua madre avesse provato le stesse cose, sapeva solo che adesso la comprendeva. «Non lo so», sussurrò umettandosi le labbra, «Non lo so. Non ho tutte le risposte, nessuno le ha». Era solo un adolescente, anche se spesso se lo dimenticavano tutti. Non era il caso di Chris. «Però non credo ci sia un'unica risposta.»
«Che vuoi dire?»
«Che solo tu puoi trovare la tua, di risposta.»
«E se volessi sapere la tua?»
«Credo dovrai pagarmi profumatamente», ghignò. Strinse gli occhi e la sua mano facendo dei respiri profondi, forse un giorno gliel'avrebbe detta. «Quando troverai la tua, fammelo sapere, okay?»
«Dovrai pagarmi anche tu», gli baciò delicatamente la mano, il suo sguardo era dolce come miele, «Okay, teppista.»
§
Era quasi un mese, comprese due settimane di prova, che lavorava all'Edera. A quanto pareva Patricia aveva davvero un debole per lui e Daniel faceva del suo meglio come barista. Il locale era spesso tranquillo, ma nelle ore di punta si riempiva soprattutto di studenti che si rifugiavano lì per studiare o per qualche progetto scolastico. Quei giorni rimpiangeva l'officina dei Thompson dove poteva occuparsi delle macchine senza sfoggiare un sorriso. Non che dovesse sforzarsi di sorridere lì, lavorava con il ragazzo di cui si era innamorato. Poteva dire di averlo dimenticato, che non lo amava più dopo ciò che era successo, ma nemmeno lui ci avrebbe creduto. Sapeva che non erano destinati e che doveva andare avanti, lo aveva sempre saputo. L'unica differenza era che poteva finalmente metterci un punto e voltare pagina. Non sperava più che quei gesti gentili fossero per un interesse ricambiato. Non pensava più che quelle volte in cui i loro sguardi s'incrociavano e Kevin gli sorrideva, potesse innamorarsi di lui. Perché quello che si innamorava sempre di più, che si illudeva, era soltanto lui. Aveva tante altre cose per la testa, come dire ai suoi genitori che aveva lasciato il college e che lavorava in un bar perché aveva fatto coming out con Kevin ed era stato preso moralmente a calci. Sospirò mentre puliva distrattamente il bancone con una pezza, non era decisamente pronto.
«A cosa stai pensando?» una voce femminile lo fece sussultare, facendo volare in aria il pezzo di stoffa e facendolo urlare come una donzelletta in pericolo. «Cavolo, avrei tanto voluto filmarlo con il telefono!», rise sonoramente.
«Diana, se continui così morirò d'infarto!» si portò una mano al petto, guardandosi intorno per trovare il panno. «Vuoi avermi sulla coscienza?»
«Sembravano sospiri d'amore», si poggiò sul bancone, «A chi pensavi? Non sarà per caso quella ragazza carina che viene ogni mattina, a prendersi il caffè solo per te?» domandò ammiccante Gardner, muovendo ritmicamente le sopracciglia castane con un sorrisino di chi la sapeva lunga.
L'aveva notata, come se fosse interessato a quegli occhi dolci e quelle camicette che si sbottonava quando lo vedeva. Avrebbe voluto prenderla in giro, farle credere che ci fosse intesa tra loro, per poi dirle che aveva immaginato tutto. Ma avrebbe perso una cliente e già vedeva Patricia trasformarsi in Hulk; gli faceva venire i brividi solo al pensiero. «Non sono interessato, te la lascio volentieri», ironizzò con un ghigno sul volto, raccogliendo il panno.
«Magari mi notasse», sospirò Diana trasognante.
Daniel si pietrificò prima di rialzarsi. «Cosa?» sussurrò basito, si sollevò di scatto come un soldato sull'attenti. «Ti...?» provò a porre la domanda, ma non riusciva a trovare la sequenza di parole adatte.
La ragazza sollevò un sopracciglio, «Io?»
Boccheggiò come un pesce fuor d'acqua, Gardner scoppiò a ridere.
«Si, mi piacciono le ragazze, Danny.» incrociò le braccia al petto con molta tranquillità. In quel mese passato lì, avevano legato molto. Nonostante avesse frequentato la Boston High School, Mcdaniel non l'aveva mai nemmeno notata, si domandò se non fosse stato così accecato dalle apparenze dimenticandosi le cose importanti.
Come riusciva a fare coming out così facilmente? Come riusciva a dirlo con tanta tranquillità, mentre lui aveva faticato per anni ad ammetterlo a sé stesso? Come riusciva a trovare quel coraggio che a lui, da codardo quale era, mancava? «La sorellina di Chris lo sa?» Non voleva in alcun modo farle outing.
«Ellen lo sa», annuì lentamente scrutandolo.
«Chris?»
«Non lo so», alzò le spalle, non curante, «Sinceramente non mi importa». Lo osservò aggrottare le sopracciglia scure, sempre più confuso, sospirò. «Non faccio coming out ma non nascondo il mio orientamento sessuale. Non credo che agli altri importi chi mi piace, no? Ho fatto effettivamente coming out solo con le persone importanti nella mia vita.»
Abbassò lo sguardo sulle sue mani, le dita stringevano e giocavano distrattamente con la stoffa. Non l'aveva mai vista in quel modo, aveva dato per scontato che avrebbe dovuto farlo con chiunque. Ma la prospettiva di dirlo alle persone a cui teneva non lo tranquillizzava affatto. E se i suo genitori avessero reagito come Kevin? Avrebbe fatto male, ancora. Ma a lei poteva dirlo, giusto? Da qualche parte aveva letto che più si compiva un'azione, più era facile farla. Sollevò gli occhi per puntarli su quelli di Diana, fece un respiro profondo per farsi coraggio e disse: «A me piacciono solo i ragazzi, sono gay.»
«Okay», gli sorrise. Non capiva quanto tutto ciò fosse costato, per un codardo come lui. «Più ragazze per me», ghignò beffarda mentre Daniel alzava gli occhi al cielo. «Quindi Phil ha speranze.»
Phil, quell'uomo che aveva incontrato fuori dal locale, il giorno del colloquio, era uno dei clienti abituali dell'Edera. In seguito, Daniel, aveva scoperto che lavorava come cuoco nel locale dove Vick aveva lavorato per anni. Sperava solo che non sapesse di lui e di quanto fosse stato stronzo. «Non sono pronto per una relazione.»
«Perché?»
«Devo risolvere prima le cose con me stesso», si afflosciò poggiandosi sul bancone, al fianco della ragazza, dando le spalle ai clienti e all'ingresso. Iniziò a piegare la pezza, pur di evitare il suo sguardo.
«A me sembra solo una scusa», richiamò la sua attenzione, le iridi verdi puntavano su di lei. «Hai paura della felicità?»
Forse aveva paura della felicità, era convinto di non meritarsela. Aveva paura che potesse trasformarsi in dolore, ancora. Ma quella non era una scusa, essere ancora innamorati del proprio ex migliore amico non lo era. Stava evitando di prendere in giro Phil, di non commettere gli stessi errori. Ma Gardner non poteva saperlo, per quanto spigliato fosse, aveva i suoi tempi per aprirsi e fidarsi. Certo, fare coming out era un passo enorme. «Magari lo fosse», sul suo viso si dipinse un sorriso tirato. Sperava non si notasse così tanto. «Non è così facile.»
«La felicità non è mai facile.»
Quando mai lo era? Si passò una mano sul viso, «Cazzo» sibilò. Non stava facendo altro che piangersi addosso, doveva decisamente smetterla. Doveva darsi tempo, non poteva cambiare da un giorno all'altro. Non poteva più essere un codardo. Non poteva fuggire da sé stesso, né dal passato né tantomeno dalle conseguenze. Perché così rischiava di fuggire ancora dalla felicità. Il suo telefono squillò, riportandolo sulla terra ferma, in quel bar tranquillo e facendolo sussultare.
«Non farò la spia a zia Patricia sul telefono che avresti dovuto spegnere.» gli fece l'occhiolino, osservandolo estrarre lo smartphone dalla tasca ed aggrottare la fronte. «Il ritorno di una vecchia fiamma?»
Mcdaniel trattenne il respiro, leggendo più volte il nome in sovraimpressione. «Kev?» rispose, ignorando la ragazza al suo fianco.
«Dove sei?» domandò Thompson, dall'altro capo del telefono, saltando i convenevoli.
«Cosa?» poggiò quel panno che aveva tenuto in mano tutto il tempo per aggrapparsi al bancone dietro di sé. «Vuoi venire a picchiarmi?» sbuffò ironico con un amaro sorriso in volto.
«No», rispose secco. Sembrava sincero. «Dove sei?»
«A lavoro?»
«Daniel Mcdaniel, dimmi dove cazzo lavori adesso!» esclamò spazientito.
Da stronzo codardo gli avrebbe dato l'indirizzo sbagliato, magari di una discarica. Ma non aveva più senso fuggire, giusto? «All'Edera». Sperava solo di riuscire a smettere di fare passi falsi, di commettere un errore dopo l'altro.
«Mandami l'indirizzo, arrivo».
«Cosa? Adesso?!» esclamò il moro, ma Kevin aveva già chiuso la chiamata senza permettergli repliche e ripensamenti.
«Che succede?» domandò Diana scostandosi dal bancone dopo aver sentito entrare un cliente.
«Nulla, sono solo nella merda», mordendosi nervosamente il labbro, «Nulla di nuovo». E già immaginava il suo fratellino Dean piangere al suo funerale, come quelle attrici Hollywoodiane. E ora?
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