Capitolo 31

I signori White erano andati a cena da amici, quella sera. Joshua e Ellen ne avevano approfittato per ritagliarsi del tempo per loro. Seduti sul divano in salotto, avevano preparato i pop-corn, conditi rigorosamente con burro e sale come se fossero al cinema, e stavano decidendo quale film vedere mentre sistemavano una coperta da mettere sulle gambe. Sarebbe stato un appuntamento tranquillo a casa, se non fosse stato per quel terzo incomodo rumoroso autoinvitato che era appena entrato nella stanza e si era seduto al loro fianco.

«Non capisci di essere di troppo, vero?» sbuffò la bionda guardando seccata il fratello. «Vogliamo stare da soli», scandì bene le ultime due parole, come se stesse parlando con nonno White, che da qualche anno a quella parte non riusciva a sentire bene come una volta, dovuto dalla vecchiaia.

«Ci sento, Ellen.» chiarì prendendo una manciata di pop-corn che erano poggiati sul tavolino basso, davanti al divano, mentre la sorella cercava di impedirglielo. «E non me ne vado, soprattutto se usate la coperta», la indicò mentre aveva la bocca piena e le guance gonfie come quelle di uno scoiattolo che si rimpilza di ghiande.

«Che ha la coperta che non va?» sollevò un sopracciglio, scettica, incrociando le braccia al petto. Somigliava sempre più a Melanie White quando ordinava loro di riordinare le loro stanze, ma Chris non glielo avrebbe mai detto, o almeno non quella sera. Si sarebbe giocato in futuro quella carta per farla innervosire.

«Non fare la finta tonta con me, sono un adolescente anche io!» la rimbeccò alzando il mento.

«Ti stai comportando in modo infantile però!» esclamò, iniziando a battibeccare, come al solito, con il fratello maggiore iperprotettivo.

«Non fa niente», sospirò Josh, cercando di farli smettere di litigare. «Può rimanere, che male c'è?» si sedette accanto ad Ellen dopo aver preso il telecomando.

«Questa serata doveva essere solo per noi», mugugnò per poi guardare il fratello in cagnesco. Se avesse avuto i super poteri, Christopher era certo che lo avrebbe fulminato con lo sguardo per poi prendere una pala e sotterrarlo in giardino, accanto al povero criceto “fuggitivo” che avevano avuto quando erano piccoli. «Perché non vai a stare da Price?»

«Perché sarei troppo invadente se lo facessi», poggiò le spalle sullo schienale del divano e vi poggiò la nuca, buttando indietro la testa. «Ci sono momenti per stare insieme e momenti per stare da soli».

«Ecco, io e Josh vorremmo stare da soli insieme, senza di te» ribadì. In questo lei e Chris si somigliavano, si sarebbero sempre presi in giro, era il loro modo di volersi bene, di dialogare e anche di litigare.

«Josh, ma cosa ci trovi in lei?» chiese teatralmente, fintamente incredulo mentre negava lentamente con il capo, come per rimarcare il suo stupore.

«Mi dispiace», disse alla ragazza, ignorandolo mentre si passava il palmo sulla nuca, «Se avessi potuto, saremmo andati a casa mia». Erano passate un paio di settimane dall’accaduto ed era a disagio nel sentirsi di troppo in quella casa, in una famiglia non sua, nonostante lo avessero accolto di buon grado senza problemi. Aveva il loro sostegno dopo aver saputo cos'era accaduto, perfino i signori White avevano insistito che rimanesse con loro. Ellen e Christopher erano fortunati ad avere dei genitori come loro, presenti.

«Non dirlo nemmeno per scherzo.» cercò di tranquillizzarlo accarezzandogli teneramente il braccio. Le sue iridi verdi accarezzarono la sua figura prima di incrociare i suoi occhi color cioccolato. «Sono felice di averti qui con me», un tenero sorriso arcuò delicatamente quelle labbra rosee che adorava baciare.

«Anche per me non c'è alcun problema», intervenne il biondo prima che lo schermo del telefono di Lloyd si illuminasse per l’ennesima volta quella sera. Perché, dal giorno in cui aveva lasciato casa, i suoi genitori non avevano fatto altro che chiamarlo e mandare messaggi. Quella sera non faceva eccezione, avevano chiamato tutto il giorno e adesso si erano ridotti a mandargli dei semplici messaggi. Erano preoccupati? «Continuo a pensare che dovresti chiarire con i tuoi genitori».

«Perché dovrei farlo?» chiese dopo aver sbuffatto sonoramente ed inforcato le dita tra quei ricci castani. «Non mi hanno considerato per tutti questi anni e adesso che me ne sono andato non fanno altro che chiamarmi. Se tornassi non mi ascolterebbero».

«Se non rispondi non potrai mai saperlo», voltò il viso verso di lui rimanendo con la nuca poggiata sullo schienale del divano, «E poi potresti rimpiangere di non averlo fatto. Rimangono sempre i tuoi genitori e non sei più un bambino, no?»

«Parli come un uomo», Joshua ghignò sghembo mentre l’amico gli sorrideva vittorioso.

«Price fa miracoli», asserì Ellen sorpresa, come se avesse appena assistito ad un miracolo. «Chi lo avrebbe mai detto?»

Lloyd osservò lo schermo del telefono spegnersi sul tavolino in vetro, davanti alla televisione, vicino ai pop-corn caldi e fumanti. Aveva perso la sua occasione? Avrebbero richiamato? Era l'ultima? Se si fossero arresi? Qualsiasi risposta che potesse darsi lo avrebbe ferito più di quanto fosse disposto ad ammettere. Per quanto fosse stato bistrattato, ignorato, invisibile per i suoi genitori, rimanevano sempre tali. Non riusciva a covare rancore nei loro confronti. Sbuffò mentre allungava lentamente la mano tremolante, per afferrare incerto lo smartphone ed osservò lo schermo ormai nero. Poteva intravedervi il proprio riflesso privo di colori. «Pensi che dovrei chiamarli io?»

«Potresti», sottolineò Christopher, «Non devi». Si sporse in avanti puntando i gomiti sulle ginocchia per osservarlo. Il riccio era teso, aveva una posa rigida e non faceva altro che grattare via dal dito quella pellicina sul pollice, mentre fissava il telefono nella mano.

La ragazza al suo fianco gli accarezzò gentilmente la schiena, come se volesse tranquillizzarlo, rimase in silenzio. Non servivano parole. Il fidanzato sapeva che i fratelli White erano dalla sua parte, che lo avrebbero sostenuto.

Inspirò profondamente, fece per premere incerto il pollice sullo schermo, ma non vi arrivò mai. Si accasciò sul divano, fissando il soffitto. «Non ce la faccio».

«Perché?» domandò l'amico mentre afferrata un’altra manciata di pop-corn, «Di cosa hai paura?»

«Di…» riflettè, non lo sapeva. «Dell’ennesimo rifiuto, credo», non ne era certo nemmeno lui.

«Ci saremo sempre noi al tuo fianco», la bionda gli sorrise teneramente, con quei occhi verdi così gentili.

«E poi», il terzo incomodo deglutì il boccone, «Se non farai nulla, nulla cambierà. In tutti questi anni, prima che lasciassi casa, è mai cambiato qualcosa?»

Il castano osservò il soffitto senza vederlo davvero, adesso che ci pensava aveva pochissimi ricordi felici con loro. Gli si strinse il cuore ed inumidirono gli occhi prima di posare il suo sguardo sull’amico e negare con il capo. «Sembra che solo adesso si siano accorti di me», constatò amareggiato, dirlo ad alta voce faceva ancora più male. Il cellulare nella sua mano suonò per l’ennesima volta, quella sera. «Chi sarà mai?» un sorrisino ironico quanto amaro arcuò le labbra del ragazzo. «Mamma o pap-» ma quando lesse il nome sul display, si ghiacciò sul posto. Il sorriso si spense, lasciando sul suo volto un espressione incredula. Le iridi color cioccolato si sgranarono e la bocca si schiuse leggermente.

«Va tutto bene?» domandò Ellen, riportandolo prepotentemente nella realtà, sul quel comodo divano, da quel vortice di pensieri catastrofici.

«Si», aggrottò le sopracciglia, sempre più confuso mentre rileggeva il nome sullo schermo.

«Che succede? Non rispondi?» Chris si protese in avanti, puntando i gomiti sulle ginocchia.

«Si, ma non mi aspettavo mi chiamasse mio cugino Roy», saettò lo sguardo dal nome lampeggiante ai fratelli White.

«Chi? Mr. Perfezione?» domandò il biondino usando quel buffo soprannome che avevano adottato in quelle settimane, quando Lloyd gli aveva raccontato del cugino.

Annuì lentamente prima di riportare gli occhi sul telefono. Sapeva che, se avesse risposto o meno, non avrebbe dormito seneramente quella notte. Perché lo stava chiamando? Era successo qualcosa ai suoi genitori? Avrebbe dovuto vivere con quel peso e rimorso di non aver chiarito con loro? Vivere sotto lo stesso tetto con Chris, da questo punto di vista, non gli faceva affatto bene. Aveva ingigantito le sue ansie sulla morte, e di conseguenza sulla vita, perché coesistono in equilibrio come se fossero in un’amara bilancia. Ed ogni volta che parlava di Price e i suoi occhi color miele si intristivano, sentiva di comprendere sempre più la lotta tra la vita e la morte. Si sentì in colpa per aver sprecato l’occasione di parlare con loro, con il cuore che gli martellava in gola e l’ansia che gli rubava l'ossigeno dai polmoni, rispose finalmente al cellulare. «Pronto?»

«Joshua, finalmente!» esclamò il ragazzo, dall'altro capo della chiamata. «Pensavo ti fosse successo qualcosa, volevamo chiamare la polizia».

«”Volevamo”?» ripeté tra il sollievo e la confusione, «Sei con i miei?»

Seguirono alcuni minuti di silenzio, accompagnati dal respiro di Roy ed il brusio dei fratelli White che tentavano di capire cosa stesse succedendo, carpendo dettagli come Dean e il gruppo delle pettegole di paese di cui era presidente. «Sono ancora a casa tua, si».

«Stanno bene?» domandò, preso dall'ansia che aumentava minuto dopo minuto. Le spalle erano tese, la schiena era dritta e rigida mentre non faceva altro che mordersi il labbro inferiore.

«Ti va se ne parliamo domani dopo scuola?» propose, «Mi faccio trovare all’ingresso e ne parliamo di persona, ti va?»

Questa volta fu il turno di Josh di rimanere in silenzio. Doveva accettare? I suoi genitori stavano bene, altrimenti gli avrebbe intimato di correre in ospedale. In parte lo tranquillizzò, se non fosse che aveva evitato abilmente la sua domanda. «Cos'è successo?» iniziò a mordersi l'unghia.

«Ne parliamo domani» affermò. «Stai tranquillo, nessuno è deceduto o in ospedale», ridacchiò cercando di tranquillizzarlo, lo sentiva teso dall’inizio della chiamata. Ma non pensava, né tanto meno immaginava, che le sue paure fossero quelle.

Il riccio fece un sospiro di sollievo, come se avesse ricominciato a respirare solo in quel momento. «Va bene, a domani» lo salutò, ben consapevole che una notte insonne ed intrisa di preoccupazioni ed ansie lo attendeva. Chiuse la telefonata ed osservò lo schermo spegnersi per lasciare il posto al suo riflesso privo di colori. Cos’era successo? Era colpa sua? Il prurito alla nuca gli fece sollevare lo sguardo sui fratelli White, ancora lì, a fissarlo come falchi in attesa di delucidazioni.

«Allora?» chiese Ellen preoccupata, accarezzandogli delicatamente il braccio.

«Che ti ha detto?» aggiunse Christopher, preso dalla curiosità.

«Per fortuna che dici a Dean di essere una pettegola», Joshua sghignazzò debolmente, sembrava che quella chiacchierata con Roy lo avesse stremato. «Pare che ne saprò di più domani, dopo la scuola. Verrà a prendermi per parlare di persona». Poggiò pigramente le spalle sul divano e scivolò leggermente, come se potesse diventare tutt'uno con i cuscini. Era esausto ma, allo stesso tempo, l’ansia accelerava i battiti del suo cuore, mentre le domande piene di curiosità gli frullavano rumorosamente nella testa. Cos'era successo? Se i suoi stavano bene, perché Roy aveva chiamato? La mano tiepida di Ellen sulla sua lo ridestò da quella bolla di confusione che lo aveva avvolto. Sollevò il capo per incontrare delle iridi verdi, come il prato in piena estate, con quella scintilla di preoccupazione.

«Stai bene?» domandò apprensiva, stringendo leggermente la presa sulla mano calda del ragazzo. Lei era lì, con lui. Non era solo e glielo avrebbe ricordato ogni qualvolta se ne sarebbe dimenticato.

«Sto bene», un sorriso incerto curvò quelle labbra piene, «Sono solo un po' stanco. Credo che andrò a dormire». Non voleva farla preoccupare inutilmente, ma sapeva non avrebbe chiuso occhio. Le diede un leggero bacio a fior di labbra, fece un cenno a Chris e sparì al piano di sopra, dimenticandosi di quella serata che avrebbe dovuto essere tranquillamente romantica.

«Si è chiuso a riccio, non sta decisamente bene.», le parole di Christopher riecheggiavano nella sala, mentre Ellen stringeva la calda coperta tra le dita, frustrata.

§

Il silenzio dell’appartamento era rotto dal respiro pesante di Victor che si sedette sul coperchio del water, dopo aver vomitato per l’ennesima volta nel cuore della notte. Il cielo era scuro fuori la finestra del bagno e la luce del lampadario rendeva possibile la visione del proprio riflesso, che evitava accuratamente da settimane. Era esausto, non faceva altro che collezionare notti insonni e, se l’ultima volta che si era guardato allo specchio aveva delle vistose occhiaie, adesso doveva sembrare un panda. Ne era certo. Il sospiro pesante fu seguito da un colpo di tosse che sembrò infiammargli maggiormente il diaframma fino alla gola. Per fortuna non aveva sputato sangue, che la Chemio stesse facendo finalmente il suo dovere? Lo sperava davvero. Il colore candido dell’asciugamano, che apparve sotto il suo sguardo assente, lo fece sussultare leggermente. Seguì lentamente la mano che lo sorreggeva con lo sguardo, come se avesse tutto il tempo del mondo, fino ad incrociare le iridi castane di Charlie. Ormai era abituato a quella scintilla piena di preoccupazione che attraversava sempre lo sguardo dello zio, era la stessa delle altre persone che gli stavano attorno. La detestava, lo faceva sentire più debole di quanto non fosse già. Fragile come un vaso di vetro opaco sull’orlo del tavolo. Ma in quel momento era troppo stanco per dargli peso, afferrò silenziosamente l’asciugamano con un tacito sguardo di riconoscenza.

«Perché non mi svegli mai?» domandò l'uomo mentre il ragazzo si puliva la bocca con gesti estremamente lenti, come se quel pezzo di stoffa pesasse molto di più. «Devo metterti dei campanelli ai polsi, così ti sento correre in bagno», ironizzò cercando di far sbocciare un lieve sorriso in quel pallido volto smunto.

«Domani devi lavorare, no?» gracchiò con voce rauca e Charlie prese ad accarezzargli la schiena con movimenti circolari. La sua mano era calda e la schiena di Victor era sempre più scheletrica. Se solo avesse voluto, avrebbe potuto contargli le vertebre una per una.

«Perché non ti lasci aiutare?» quel tono pacato, quella voce profonda dello zio sembrò non avere l'effetto sperato.

Vick si morse il labbro inferiore rimanendo con gli occhi puntati sull’asciugamano appallottolato tra le mani. «Mi state già aiutando», sussurrò a fatica, la gola gli provocava un prurito fastidioso ad ogni parola, ma sapeva che presto sarebbe passato.

«Mi sembra di sentire Hanna», sbuffò un dolce sorriso al ricordo della sorella. Ricordava che fin da piccola rifiutava ogni tipo d'aiuto, quasi incapace di accettarlo. Si mostrava sempre sicura di sé. Tanto che, quando era alle elementari, gonfiava esageratamente il petto, come se volesse intimidire quel difficilissimo compito in classe, come si fa in caso di un incontro ravvicinato con un orso, sollevava il mento per sfidare il foglio e non si arrendeva mai. Quel nipote dalla lingua tagliente che aveva dinanzi a sé, continuava a rendere vivo il suo ricordo nei modi di fare, in ogni gesto, in ogni parola e lui nemmeno se ne rendeva conto.

«Peccato che io non sia forte come lei», esordì preso dal flusso di pensieri che gli vorticavano in testa mentre si alzava a fatica, con gambe tremolanti, sembrava le avesse colte di sorpresa. Poggiò il palmo alla parete per tenersi, mentre Charlie lo sorreggeva dall’altro braccio. Con il suo aiuto riuscì a sedersi sul divano nel salotto, non sarebbe riuscito ad addormentarsi tanto facilmente.

«Lo sei, forse di più» asserì lo zio poggiando un bicchiere d'acqua vicino al posacenere, ormai candido, sul tavolo dinanzi per poi sedersi al fianco del nipote. «Stai affrontando un cancro alla tua giovane età e per un po' hai cercato di farlo da solo come un idiota».

«Non l’ho mai vista lamentarsi, non l'ho mai vista tentennare», iniziò dopo aver negato con il capo, «Aveva sempre un sorriso sulle labbra, mentre io faccio fatica perfino a bere una tazza di latte».

«Come poteva lamentarsi? Come poteva farlo davanti a te?!» spalancò le braccia come se la risposa fosse ovvia. «Come poteva se suo figlio ha iniziato a lavorare perché lei non poteva più farlo? Come poteva se suo figlio portava sulle spalle un peso troppo grande per un ragazzino della sua età?». Hanna parlava spesso di Vick e di quanti sacrifici facesse per lei, la sentiva piangere ogni volta dall’altro capo del telefono. Ogni volta poteva sentire il peso delle sue parole, il dolore di una madre che vede il figlio rinunciare alla sua adolescenza per farsi carico di tutto. Glielo aveva confessato: il minimo che potesse fare era non lamentarsi, essere di peso il meno possibile, aiutarlo come poteva, anche con un sorriso.

«Lei non è mai stata un peso per me», sibilò con voce tremolante mentre le lacrime spingevano per uscire.

«Victor, avevi quindici, sedici anni quando la malattia di Hanna ha iniziato ad avanzare. Hai dovuto farti carico di responsabilità troppo grandi tutto da solo, quando avresti dovuto vivere un adolescenza serena, compreso il pacchetto di problemi della pubertà».

«Non mi pento di ciò, ho potuto starle accanto ed aiutarla.» sul suo viso smunto si dipinse un sorriso triste quanto amaro, «Ho potuto viverla fino all’ultimo». Nessuno poteva strappargli i ricordi di sua madre, nemmeno quelli dolorosi dell’ultimo periodo. I sorrisi che gli regalava ogni volta che tornava a casa o quando faceva capolino nella stanza dell’ospedale. La scintilla di speranza che attraversava quegli occhi azzurri, così simili ai suoi ma allo stesso tempo così diversi, quel periodo in cui sembrava migliorare. Se si concentrava poteva sentire ancora i suoi capelli ramati tra le mani mentre vomitava, dopo i primi cicli di chemioterapia. Si morse il labbro inferiore che iniziava a tremare mentre gli occhi si fecero inesorabilmente umidi.

«È per questo che sei forte, testone». Sogghignò cercando di rallegrarlo con quella provocazione, ma ottenne il silenzio per alcuni minuti. Il ragazzo si limitava a guardare le proprie dita intrecciarsi tra loro sulle sue gambe, senza vederle davvero. Immerso nei propri pensieri.

«Ti ricordi quando sei corso qui a Boston, alla morte della mamma?», iniziò con tono incerto mentre l'uomo corrugava le sopracciglia, confuso.

Clark annuì lentamente tenendo lo sguardo puntato su di lui, cercando di carpire qualsiasi dettaglio che gli facesse capire dove volesse andare a parare. Non capiva perché d'un tratto era divenuto timoroso. Lo vide allungare lentamente il braccio, afferrare il bicchiere sul tavolino e bere dei lunghi sorsi d'acqua, come se stesse cercando di rimandare il più possibile di continuare. «Victor…»

«Il giorno in cui è morta la mamma» iniziò a fatica, interrompendolo mentre poggiava il bicchiere sul tavolo e si distendeva sullo schienale del divano. «Ti ho mentito».

«A cosa ti riferisci?» domandò sempre più confuso mentre il ragazzo non faceva altro che mordersi il labbro. Boccheggiava come se le parole non volessero uscire.

«Io l'ho vista morire», sussurrò come se la gola si fosse seccata. Chiuse lentamente gli occhi ed una lacrima bagnò le sue ciglia lunghe per poi rigare la sua guancia.

Victor gli aveva detto che non era lì in quel momento, perfino Barlow aveva confermato. Anche lui gli aveva mentito? Fece per chiederglielo, ma il nipote lo interruppe ancora, facendosi coraggio.

«Mamma mi sorrideva sempre, quando arrivavo. Negli ultimi tempi, il suo sorriso era sempre più spento, debole e forzato. Sorrideva solo per non farmi preoccupare più di quanto non lo fossi già.» fece un respiro profondo e si costrinse ad aprire gli occhi, ma non riuscì a sollevarli dalle mani ed incrociare lo sguardo di Charlie. «Quel giorno, non mi sorrise. Pensavo fosse semplicemente stanca, era più pallida del solito. Mi guardò negli occhi, con quella sua scintilla e mi disse che mi voleva bene, che era fiera di me.» la sua voce s’incrinò verso la fine della frase, tentando di ignorare quel nodo alla gola che gli impediva di parlare. «Mi strinse la mano e mi sorrise dolcemente. Le dissi che anche io le volevo bene, che sarei rimasto al suo fianco», le lacrime iniziarono ad uscire senza alcun controllo, «Ma iniziai a preoccuparmi solo quando vidi il suo sorriso spegnersi dopo una smorfia di dolore mista a paura. Mi strinse forte la mano mentre mi guardava, mentre vedevo nei suoi occhi la sua scintilla spegnersi lentamente».

«Victor», lo interruppe Clark poggiandogli una mano sul ginocchio in una calda carezza, ma il teppista negò con il capo, deciso a continuare.

«Lei ha sofferto fino al suo ultimo respiro. Se n'è andata stringendomi la mano», singhiozzò tra le lacrime che tentava di asciugare con le maniche della vecchia tuta che gli faceva da pigiama.

«Barlow mi ha detto che non eri lì», affermò facendosi coraggio.

Ricordava fin troppo bene la presa della mano di Hanna farsi sempre più morbida, la vita abbandonare quegli occhi azzurri intensi come il cielo in estate. La linea orizzontale piatta sullo schermo del rilevatore biometrico, quel suono persistente e continuo che sembrò sovrastare i suoni bianchi dell'ospedale. Si accorse delle infermiere solo quando una di loro gli sfiorò la spalla, chiedendogli di indietreggiare. La voce arrivò alle sue orecchie ovattata, attutita. «Sono scappato, come un vigliacco», ammise dolorosamente, ricordando quella corsa con quel fischio persistente nelle orecchie, come se mimasse il suono del cardiofrequenzimetro. «Mamma ha sofferto fino all’ultimo ed io non ho potuto fare niente, non ho fatto niente», scoppiò in un pianto che aveva tenuto per sé per tanto, troppo tempo. Aveva cercato di resistere, aveva tenuto quelle lacrime per sé cercando di essere forte.

«Non sei un vigliacco», Charlie gli accarezzò la nuca pallida, «Hai fatto tutto ciò che potevi fare, le sei rimasto accanto».

Il teppista negò vigorosamente con il capo chino, le lacrime non volevano fermarsi tra un singhiozzo e l’altro.

«Sei stato forte anche per lei», gli si umidirono gli occhi. Non aveva mai visto il dolore di suo nipote, di quel ragazzo che si dava sempre da fare fin da piccolo.

Tirò sù con il naso, costringendosi a fatica di smettere di piangere. Si inumidì le labbra salate e sollevò il viso per incrociare le iridi castane dello zio, lucide. «Non volevo piangere», lo faceva sentire fragile, esposto.

«Grazie», gli sorrise dolcemente mentre sul viso smunto di Price si dipinse un’espressione confusa. «Per aver condiviso con me il tuo dolore e il pesante segreto di Hanna», gli accarezzò con il pollice la nuca, «Mi hai permesso di conoscere un lato di lei che non ho mai potuto vivere, per quanto doloroso sia».

«Non si smette mai di conoscere una persona, nemmeno quando non c'è più», tirò su con il naso mentre portava le dita tra i capelli, un gesto abitudinario, per poi ricordarsi che li aveva rasati. «Ho letto tutti i libri che aveva letto in ospedale per sentirla più vicina, mi sono aggrappato a qualsiasi ricordo avessi di lei.» Sorrise leggermente guardando un punto imprecisato della stanza senza guardarlo davvero, preso dai ricordi. «Sapevi che piegava gli angoli dei libri al posto di usare i segnalibri?» negò lentamente con il capo con un sorrisino sul viso che portava ancora le lacrime ed il dolore, «È stato irritante vedere il segno delle pieghe negli angoli».

«Mi ricordo che lo faceva anche con i libri di scuola, era davvero irritante», ridacchiò accavallando la gamba sull'altra. «E se provavi a farglielo notare ti guardava storto per il resto della giornata», rise attirando quegli occhi chiari su di sé, «Era testarda proprio come te, Testa di rapa».

«Rimani sempre un dannato vecchio con una crisi di mezz’età», ghignò soddisfatto. Non avrebbe mai ceduto, gli avrebbe sempre tenuto testa.

In questi si somigliavano molto, Hanna non perdeva mai occasione di farglielo notare, divertita. Spalancò la bocca in un espressione fintamente sconvolta ed offesa. Fece per ribattere, ma si bloccò quando lo vide alzarsi lentamente dal divano, il suo viso arricciarsi in un espressione di dolore mentre compiva quel banalissimo gesto che chiunque avrebbe dato per scontato.

«Vado a letto», annunciò il giovane. Si sarebbe disteso e avrebbe passato il resto della notte ad osservare il bellissimo soffitto della sua stanza, interrotto dagli spiragli di luce dei lampioni. «Dovresti farlo anche tu», continuò. Avrebbe tanto voluto continuare a parlare con lui, sapeva che la stanchezza non avrebbe avuto la meglio sull’insonnia, ma a Charlie lo attendeva una giornata lavorativa e lui non voleva essere un peso.

«Lo farò», rispose con un leggero sorriso a dipingergli la bocca. La barba, di una settimana al massimo, andava ad accentuare e contornare la mascella dai tratti spigolosi.

Victor camminò fino all’uscio del corridoio, si voltò verso lo zio. «Vecchio!» lo richiamò sogghignado.

Clark si girò a guardarlo, pronto già a dirgliene quattro. Aveva davvero un pessimo tempismo per dire battute e fare del sarcasmo.

«Non dimenticarti della felicità», lo interruppe sul nascere, «Non scordarti di essere felice».

Si pietrificò sul posto, gli occhi si fecero umidi. Sapeva che si riferiva alla perdita di Hanna e al lutto che si portava da anni addietro, come uno strascico pesante. Leena. «Nemmeno tu», gli rivolse un sorriso, che apparve più triste del dovuto, incrociando le sue iridi azzurre come il cielo d'inverno con le sue color nocciola.

«La vivrò appieno, la mia felicità». Sapevano entrambi a cosa si riferisse l’altro, non c’erano bisogno di parole. Quel dolore li univa al solo sguardo. L'avrebbe vissuta fino alla fine, per il tempo che gli restava, ma non ebbe il coraggio di ammetterlo ad alta voce. E il tempo scivola via per lui troppo in fretta.

§

La gamba di Joshua non faceva altro che molleggiare nervosamente, mentre saettava lo sguardo tra la professoressa all’orologio sulla parete dell’aula. Aveva passato la notte precedente quasi completamente in bianco, con al massimo un paio d'ore di dormiveglia. La sua mente non aveva fatto altro che immaginarsi scenari catastrofici e pensare al peggio, con i sensi di colpa per essersene andato da quella casa che non sentiva sua. Aveva passato le prime ore a scuola come fosse uno zombie, ignorando inconsciamente le battute sarcastiche dei suoi meravigliosi amici molto comprensivi, che non si erano lasciati sfuggire l'occasione. Gli unici due che avevano evitato di dire battutine erano stati Ellen e, stranamente, Price. Quest’ultimo gli aveva semplicemente rivolto uno stanco e triste sorriso, con occhiaie molto più vistose delle proprie. Da quando era venuto a conoscenza della sua lotta contro il cancro, qualcosa in lui era cambiato. Si era trovato spesso a pensare a quanto fosse forte, alla vita per cui sta lottando e alla morte. Di come le due cose, così opposte, fossero così vicine, separate solo da un filo sottilissimo. Forse era per questo che, alla chiamata di Roy, aveva pensato al peggio. Si era pentito di non essere tornato a casa, era certo avrebbe avuto il rimorso di non aver tentato di riappacificarsi con i suoi genitori. Lo aveva indirettamente reso più consapevole della vita che stava vivendo. Il suono dell’attesissima campanella lo fece ripiombare nel presente, ridenstandolo dai suoi pensieri. Si alzò velocemente, afferrò il suo zaino e corse fuori dall’aula, evitando abilmente Mrs. Marple che gli aveva lanciato sguardi durante tutta l'ora di lezione. Si era accorta che era stato mentalmente assente tutto il tempo e gli avrebbe sicuramente fatto una lavata di capo, se solo non si fosse volatilizzato. Era corso fuori lasciando una scia di fumo come se fossero in un cartone animato. Lloyd sapeva che l’avrebbe fatta franca solo per quella volta, ma non gli importava. Si diresse velocemente al cancello dell’entrata principale e solo quando intravide il cugino, si costrinse a rallentare e riprendere fiato. Il cuore gli martellava nel petto così forte che sembrava volergli salire in gola. Vide il cugino posare il suo sguardo su di lui, lo aveva visto. Alzò una mano, in segno di saluto e gli sorrise con quel solito sorriso perfetto. Perché si, perfino nelle situazioni più quotidiane e semplici sembrava trasudare eleganza e sicurezza. Cosa che a lui mancava, soprattutto quest’ultima. Joshua si costrinse a sorridere, ma ottenne un sorrisino che sembrava più una smorfia dopo aver assaggiato un cibo disgustoso.

«Stai bene? Sembra ti sia passato sopra un tir», disse il cugino, andandogli incontro, preoccupato.

No che non stava bene, era un ragazzo logorroico. Doveva parlare prima che il coraggio scappasse via a gambe levate, lasciandolo solo e spaurito. «Roy…» si sforzò di parlare, ma fu immediatamente interrotto.

«Ti va di prenderci un caffè?». Il ricciò corrugò la fronte, non capiva dove volesse andare a parare. «Ci sono un po' di cose di cui parlare, penso sia meglio farlo con calma, no?»

Cosa c’era di così tanto da dire? Era sempre più agitato e la sua testa fu invasa nuovamente da pensieri catastrofici. Forse era passato un uragano che avevano distrutto casa, oppure gli alieni erano atterrati ed avevano rapito sua madre insieme al cane rumoroso dei vicini. Per quanto ne sapeva, entrambe potevano essere perfettamente plausibili. Annuì, con la speranza che presto si sarebbe potuto togliere quel peso dal petto.

«Ti va se andiamo in un bar nelle vicinanze? Sono sprovvisto di auto», domandò indicando la strada alle sue spalle con il pollice.

«Non sei venuto in macchina?» s’incamminò al suo fianco.

«Se l'avessi, l’avrei fatto», ridacchiò.

Non aveva la macchina? Eppure, se non si sbagliava, aveva distrattamente sentito dai suoi genitori, mentre ne parlavano in una delle loro rarissime cene insieme, che lui era in possesso di una bellissima macchina, una di quelle costose. Non escludeva si trattasse di una Ford Mustang. Forse non l’aveva portata qui a Boston. «Pensavo ti fossi spostato in auto».

«Pensi molte cose di me che non sono vere, Josh». Aprì la porta del locale e vi entrò senza incrociare il suo sguardo.

Quel ragazzo si divertiva a fare il misterioso, si divertiva a farlo divorare dall'ansia. Sperava non fosse un serial killer, come leggeva spesso nei libri. Lo seguì e lo imitò nei movimenti, sedendosi dinanzi a lui, in un tavolino tondo. Le sedie di plastica di quel bar erano davvero scomode. Lo osservò da capo a piedi, i capelli ricci e neri come la pece erano leggermente più lunghi e gli incorniciavano il viso dai tratti gentili, rilassato. La sua pelle color caramello sembrava armoniosa con quegli occhi castani. «Cosa intendi?», iniziò titubante mordendosi il labbro. Doveva farsi coraggio e chiedere cos’era successo dopo che era andato via.

«So che pensi che io sia migliore di te», gli sorrise. Come riusciva a rimanere tranquillo? «Ma l’unica fortuna che ho avuto è il fatto che mi piace economia, un percorso di studi approvato dagli standard della nostra famiglia».

Joshua aggrottò le sopracciglia, sempre più confuso. «Non ca-».

«Cosa volete ordinare?» la cameriera lo interruppe. Era frustrante, ogni volta che cercava di parlare, di farsi coraggio, veniva sistematicamente interrotto.

«Un caffè», rispose il cugino per poi portare lo sguardo su di lui, «Tu?»

«Anche io», tagliò corto mentre nella sua mente il suo quartiere veniva allagato da una pioggia intensamente biblica travolgendo i suoi genitori. Ma non aveva sentito nessuna notizia del genere in televisione, forse erano più probabili gli alieni. Sollevò lo sguardo che aveva sul tavolino, notando solo in quel momento che la cameriera era andata via e due occhi castani lo stavano osservando, curiosi.

«Stai bene?» domandò apprensivo.

«No», sospirò esausto strofinando i polpastrelli sulla fronte, «Perché mi hai portato qui? È successo qualcosa ai miei? Stanno bene?»

«Non è per parlare dei tuoi genitori che ti ho portato qui, ma puoi stare tranquillo al riguardo. Sono in salute», lo tranquillizzò prima che la cameriera arrivasse a poggiare gli ordini. Per quanto tempo era rimasto a fissare il tavolo?

L’odore del caffè caldo e fumante lo ridestò abbastanza da comprendere che la cameriera non era Flash e che lui stava quasi letteralmente dormendo in piedi. Quel caffè non sarebbe bastato per svegliarlo, avrebbe dovuto ordinarne un secchio per avere un minimo effetto. Dopo aver visto la ragazza sorridergli e andare al bancone, riportò il suo sguardo su Roy. «Allora perché mi hai portato qui?»

«Quindi è vero che mi credi perfetto?» chiese a bruciapelo, «Non hai negato, prima».

Il soprannome “Mr. Perfezione” che gli aveva dato con Christopher gli vorticò in testa. «Si, lo penso».

«Perché?»

«Andiamo, non è ovvio? Frequenti un università prestigiosa, un corso di studi ritenuto valido dai nostri genitori, lavori, vivi da solo e…»

«Non ti è mai balenato in mente che sia stato costretto?» bevve un sorso di caffè fumante.

«Cosa?» poggiò la schiena sullo schienale di quella comodissima sedia, «A te Economia piace».

«Non intendevo l'università, Josh».

«Cosa intendevi allora?»

«Sono gay», i rumori bianchi del locale sembrarono svanire, «Sono stato cacciato di casa quando ho fatto coming out. Ho dovuto trovarmi un lavoro per sostenermi e vivo in un misero appartamento nei pressi dell'università.» poggiò la tazzina sul piattino, «Come vedi, la mia vita non è perfetta come credi».

«I miei genitori non ne hanno mai pa-» si interruppe, sempre più confuso. «Perché me lo stai raccontando?» non si aspettava che Roy fosse stato addirittura cacciato di casa per il suo orientamento sessuale, non si aspettava che i suoi zii fossero degli omofobi.

«Perché dopo che sei andato via, ho scoperto che siamo simili più di quanto credi, anche se mi hai idealizzato».

«In cosa saremmo simili?» sussurrò, incapace di metabolizzare quella notizia. Era stato ripudiato dai suoi genitori, aveva dovuto corciarsi le maniche e partire da zero per rifarsi una vita. Non aveva mollato, e adesso era lì, davanti a lui, con un sorriso gentile stampato sulle labbra. Con gli occhi determinati di chi non aveva nulla da nascondere perché non aveva nulla di cui vergognarsi.

«Condividiamo l’arte del non sentirsi abbastanza, del non sentirsi accettati dalla propria famiglia e della solitudine che ne consegue».

Intorno a loro le persone continuavano a vivere la propria vita. I clienti che parlavano tra loro, i dipendenti del bar al bancone, ai tavoli. Tutto il mondo intorno a loro sembrava inserito sul muto, facendo gravare il peso di quel reale silenzio tra loro. Josh si limitava a fissarlo, con gli occhi lucidi e le labbra strette in una linea.

«All’inizio», iniziò lentamente, «Non capivo perché fossi così freddo nei miei confronti, ma negli ultimi anni, sentendo ciò che gli zii ti dicevano, mi sono fatto un idea.»

Joshua deglutì sonoramente, il pomo d’adamo fece su e giù. Le parole sembravano incastrate in gola.

«L’ultima volta ne ho avuto conferma».

Bevve tutto d’un sorso l'acqua nel bicchierino sul tavolo, con il tentativo di smorzare quel groppone che gli stringeva la trachea e si costrinse a parlare. «Mi dispiace. Mi dispiace averti giudicato senza conoscerti, senza sapere. Non volevo farti sentire come mi sono sempre sentito io tra quelle mura.» la voce era sempre più incerta e mano a mano sempre più gracchiante, stava trattenendo le lacrime. Il sapere di aver fatto sentire un’altra persona, o almeno di aver aiutato a farla sentire inadeguata, lo faceva sentire in colpa.

«Non ti sto dicendo queste cose per farti stare male, Josh.» lo riprese, «Ma per tirarti via un po’ di quella solitudine. Non sei solo, non lo sei mai stato e finché sarai te stesso, finché seguirai i tuoi sogni e vivrai la tua vita a modo tuo, finché inseguirai la tua felicità, non dovrai mai sentirti sbagliato o inadeguato.»

Quante volte Joshua avrebbe voluto sentirsi dire quelle parole dai suoi genitori. Quante volte avrebbe voluto che, in una di quelle rare cene “di famiglia”, gli sorridessero dicendogli che qualsiasi percorso avrebbe intrapreso, loro lo avrebbero sostenuto. Quante volte avrebbe voluto che smettessero di paragonarlo agli altri. Quante volte avrebbe voluto non essere paragonato a Roy. Le palpebre sfarfallarono, la vista si appannò e gli occhi divennero lucidi. «Grazie», pigolò a bassa voce, quasi un sussurro. Tirò sù con il naso, trattenendosi dallo scoppiare in lacrime tra i tavolini di quel bar. «Grazie», affermò con sicurezza alzando la voce.

Roy lo guardò negli occhi con uno sguardo dolce, il sorriso tranquillo di chi aveva affrontato una battaglia simile alla sua e non ne era uscito illeso. Nessuno ne esce mai illeso, soprattutto se contro sé stessi. Quel sorriso di chi era cambiato. Aveva dovuto farlo per necessità, per sopravvivere, ed adesso stava mostrando fiero le sue cicatrici. «Sono dalla tua parte, qualsiasi cosa accada».

Il ragazzo s’irrigidì sulla sedia. Cosa intendeva con “qualsiasi cosa accada”? Nella sua mente vorticavano già scenari post-apocalittici molto poco plausibili, ma ora? Cosa doveva aspettarsi? Deglutì sonoramente, non poteva più fuggire dal confronto.

§

Sembrava che Roy lo stesse accompagnando nella vasca degli squali, nella gabbia dei leoni per poi chiuderlo dentro e buttare via la chiave. Joshua sembrava un condannato a morte che si accinge al patibolo, pronto a morire per i propri ideali. Nessuno dei due aveva più proferito parola, preferendo quel silenzio teso come una corda di violino e pesante come un elefante paracadutista munito di un misero ombrellino da cocktail al posto del paracadute . Insomma, era nella merda fino al collo. Avrebbe dovuto varcare quella porta che si era chiuso finalmente alle spalle e rientrare in quell’ambiente che sembrava opprimerlo. Erano ormai davanti alla residenza Lloyd, nessun uragano l’aveva spazzata via ed il rumoroso cane dei vicini sembrava in buona salute. Salirono gli scalini del portico in legno e Joshua estrasse le chiavi di casa che non aveva lasciato, gli sarebbero servite per prendere la sua roba quando avrebbe trovato una sistemazione stabile. Osservò la chiave della porta d'ingresso stretta tra le dita, non voleva entrare ma era certo che se ne sarebbe pentito.

«Ho parlato con i tuoi genitori», Roy ruppe finalmente il silenzio, facendolo sussultare. «Ci sono cose che non sai, comunque vada spero ti sentirai più leggero.» sollevò lo sguardo dalla chiave per guardarlo, sul suo volto definito c'era un sorriso incoraggiante.

Il riccio chiuse gli occhi, prese un respiro profondo, inspirando ed espirando lentamente, ed inserì la chiave nella serratura. Aprì la porta e vi entrò, seguito dal cugino, suo angelo custode per quel pomeriggio. Si fermò all’ingresso, nulla era cambiato. Quelle quattro mura sembravano stringersi per schiacciarlo, come se fosse scattata qualche trappola in una vecchia tomba egizia. Si costrinse ad avanzare fino alla sala da pranzo, utilizzata spesso dai signori Lloyd come studio, anche se ne avevano uno. Kristen era seduta a capotavola, intenta a battere sulla tastiera del computer, munita dei suoi occhiali da vista, scivolati sulla punta del naso. Il suo viso, delicato come quello di Josh, o meglio il contrario, era illuminato dallo schermo. Ricordava quando da piccolo si sedeva al suo fianco e la osservava lavorare, in silenzio. Era uno dei pochi ricordi che aveva con sua madre, adesso che ci faceva caso. Sospirò pesantemente facendole distogliere lo sguardo dallo schermo e spostarlo su di lui.

La donna spalancò gli occhi, si tolse gli occhiali poggiandoli sulla tastiera e si alzò in fretta. «Joshua», il suo sguardo era diverso dal solito, ma non riusciva a capire in cosa. «Dove sei stato? Ero preoccupata per te! Io e tuo padre ti abbiamo chiamato, ma non hai risposto a nessun-»

«Perché mai siete stati preoccupati per me?» chiese freddo, con una punta di sarcasmo. Cosa gli stava succedendo? Non era da lui comportarsi in quel modo.

La signora Lloyd, in tutta risposta, corrugò le sopracciglia scure, confusa. «Perché sei nostro figlio».

Sbuffò un sorriso alzando gli occhi al cielo, «Adesso sono vostro figlio?» Non riusciva a smettere, sembrava che la rabbia repressa in tutti quegli anni stesse strabordando come l'acqua trabocca dal vaso. E si chiese se avesse fatto la scelta giusta ad essere lì e cercare un confronto con loro, come aveva cercato di fargli capire Roy. Ma in fondo, cosa aveva da perdere? Poteva fare più male di così?

«Lo sei sempre stato, Joshua.» una voce profonda ed autoritaria lo richiamò dalla porta che dava sul corridoio. La figura di Richard, suo padre, era appena uscita dall'ufficio ed aveva fatto la sua comparsa. Ma, stranamente, non lo intimidì come aveva temuto, come al solito.

«Adesso ci diamo alle prese in giro?» quel sarcasmo acido e pieno di rabbia non voleva abbandonarlo.

Il padre fece per rispondere, ma la madre lo precedette. «Capisco la tua rabbia nei nostri confronti, ma restiamo comunque i tuoi genitori e ti vogliamo bene».

Non osava nemmeno immaginare come lo avrebbero trattato se lo odiavano, ma evitò di farlo notare. Gli uscì un sorriso sarcastico e amaro dopo uno sbuffo. «Certo», pensava avrebbe avuto paura o tristezza, invece uscì della semplice rabbia. Rabbia e amarezza per il suo silenzio durato da tutta la vita.

«Siediti, dobbiamo parlare», ordinò lapidario il signor Lloyd mentre spostava la sedia per sedersi al tavolo, dove solo pochi minuti fa Kristen era intenta a lavorare al portatile.

La donna lo seguì nei gesti, chiudendo il computer e facendogli segno con il capo di sedersi, nella sedia accanto alla propria.

La voglia si scappare, mandare tutto a quel paese e vanificare il coraggio che aveva avuto sull’uscio di casa, era forte. Avrebbe voluto urlare e scappare lontano senza voltarsi indietro pur di evitare quel confronto con i suoi genitori, quella rabbia che provava lo accecava e non gli piaceva affatto. Inspirò ed espirò profondamente per poi sedersi con estrema lentezza, pronto a cambiare idea al minimo accenno.

«Roy, puoi lasciarci soli?» chiese la signora Lloyd al nipote, che annuì silenziosamente ed uscì di casa.

Adesso era davvero solo, solo con loro, in quella casa.

Josh deglutì e si strinse nervosamente le mani che iniziavano a sudare come se fosse nel deserto del Sahara, sotto il sole cocente, privo di acqua. Pensandoci, lo avrebbe preferito. «Non ho nulla da dirvi, sapete già cosa penso.»

«È la tua decisione definitiva? Cosa ne farai del tuo futuro?» intervenne il padre, la sua espressione perennemente seria, dura, su quella pelle olivastra.

«Ho detto che non voglio seguire le vostre orme, non che non voglio andare al college. Ma so che non avrò il vostro sostegno né economico né -»

«Ce l'hai», lo interruppe la madre. «Abbiamo parlato con Roy e ci ha aperto gli occhi su molte cose», aggiunse.

«Davvero?» corrugò la fronte, la rabbia non riusciva ad abbandonarlo, «Serviva Roy per farvi aprire gli occhi su quanto siete stati dei pessimi genitori?! Serviva portarmi fino a questo punto?!» alzò leggermente il tono, ma si trattenne dal non urlare.

«Non ti abbiamo fatto mancare nulla, Joshua.» Richard lo scrutò, sembrava convinto di ciò che affermava, ma vide il figlio tremare sul posto come se si stesse trattenendo dall’alzarsi e rompere qualsiasi cosa gli capitasse a tiro.

Si passò una mano sulla faccia, distogliendo lo sguardo, per poi passarla tra i ricci castani. «L'amore dei genitori, la vostra presenza. Mi sono mancati». Sussurrò dopo un lungo sospiro, poggiando le spalle sullo schienale, come se ormai si fosse arreso. Stremato da quel confronto appena iniziato. Il silenzio seguì quelle parole, quell’amara consapevolezza della solitudine, della mancanza di figure a cui un bambino dovrebbe rifugiarsi, al sicuro tra le loro braccia. Quel silenzio calcava la mano, nervosa. Si costrinse ad alzare lo sguardo, fisso sulle sue mani strette tra loro per osservarli. «Mi sono mancati una madre e un padre. Delle braccia in cui rifugiarmi quando ero piccolo. Mi è mancato vedere una macchina posteggiata davanti a scuola, pronta per portarmi a casa come vedevo fare dagli altri genitori. Mi è mancato il vostro sostegno, il vostro sguardo che non si è mai posato su di me, non mi avete mai fatto capire se siete orgogliosi di me o meno». La voce s’incrinò mentre le lacrime premevano per uscire. Gli occhi s’inumidirono mentre, pur di non scoppiare a piangere, si mordeva il labbro inferiore, con il nodo alla gola che minacciava di strozzarlo. «Mi sono mancate tante cose, papà».

«Mi dispiace», sibilò la madre, con timore. Come se avesse paura di rompere nuovamente quel silenzio, sapeva che quelle scuse non sarebbero bastate.

Il figlio si limitò a sbuffare un sorriso amaro, con quella punta di sarcasmo, amarezza e rabbia che stava cercando di mandare via, ma che non riusciva a cacciare. Avrebbe voluto ostentare freddezza, lucidità. Ed invece si ritrovava sull’orlo di un pianto nervoso represso da anni. «Sul serio?! Pensi che basti mostrare del pentimento per cancellare anni in cui mi sono sentito abbandonato a me stesso?!» era irritato, il tono di voce leggermente più alto.

«Io e tua madre ci siamo conosciuti tra i corridoi del college», intervenne pacato Richard. «Lei aveva una lunga treccia che le cadeva sulla spalla, sempre circondata da amici. Io ero il solito ragazzo diligente e serioso, a stento capace di scherzare».

Il ragazzo si ritrovò ad aggrottare la fronte, confuso. Scrutò il suo volto squadrato, simile al suo, in cerca di qualsiasi segnale, di qualsiasi indizio che gli facesse capire dove volesse arrivare. Rimase ad ascoltare, era la prima volta che il padre gli raccontava qualcosa di sé.

«Era bellissima ed un giorno, spinto dai miei amici, ho avuto il coraggio di parlarle». Kristen gli strinse la mano che aveva sul tavolino, con un accenno di sorriso intriso di nostalgia. «Ci siamo fidanzati e conclusi gli studi, ci siamo spostati. Poi abbiamo avuto te, un bellissimo bambino timido e dolce», aggiunse mentre i tratti sempre duri del suo volto, si ammorbidivano in un espressione di tenerezza al ricordo di quello scricciolo.

«Mi ricordo come ti sedevi accanto a me, mentre lavoravo. Mi osservavi mentre avevi uno dei tuoi giocattoli in mano, in silenzio», intervenne la madre, presa dai ricordi. Allora lo ricordava anche lei, non era l'unico ad apprezzare quei momenti.

«Poi il lavoro ha assorbito il tempo delle nostre vite, fino a non averne più per stare insieme. Con il pensiero che prima o poi avremmo avuto tempo per recuperare i momenti perduti, come se fosse possibile», continuò l'uomo, «Il lavoro ci ha cambiato, ha frantumato la nostra famiglia».

«Il tempo non aspetta nessuno, non lo sapevate? Continua a scorrere nonostante tutto, non torna indietro. Quei momenti rimarranno sempre “non vissuti”, persi». Joshua chiuse lentamente le palpebre per farsi coraggio. Inspirò profondamente e riaprì gli occhi con altrettanta lentezza, «Dove vuoi arrivare?»

«Io e tuo padre non ci amiamo più. E dopo aver parlato di noi e di te, abbiamo deciso che il divorzio è l'unica soluzione.»

Le pareti opprimenti iniziarono a chiudersi come se fosse Indiana Jones ed avesse fatto scattare qualche trappola in quella piramide. «Cosa?» sussurrò incredulo.

«Noi saremo sempre i tuoi genitori, presto partirai per il college, è la decisione migliore. Ormai non ci parlavamo nemmeno più, così presi dal nostro lavoro», continuò Kristen.

«Mi avete chiamato per dirmi che divorziate?!» la voce graffiata sul nodo alla gola che cercava di premesse in basso, di ingoiarlo e cacciarlo via. Saettò lo sguardo su entrambi, incredulo? Amareggiato? Arrabbiato? Sconvolto? Ormai non lo sapeva più. Come doveva prendere quella decisione?

«Joshua, per te non cambierà nulla.» Richard era estremamente calmo, deciso come al solito. Nulla sembrava scalfirlo. «Sei sempre nostro figlio e ci siamo ripromessi di essere più presenti, nonostante tutto. Nonostante il lavoro, il divorzi-»

Lo smarrimento iniziale si trasformò in rabbia, «Mi state prendendo in giro?!»

«Perche dovremmo? Potrai scegliere qualsiasi college tu voglia frequentare, qusiasi corso di studi. Potrai fare ciò che ti piace di più e noi saremo sempre fieri di te», gli rivolse un sorriso dolce, la donna.

«Avete già deciso?» domandò loro ed entrambi annuirono lentamente. «Avete già deciso», affermò. Si ritrovò a sbuffare per l’ennesima volta, passarsi le mani sul viso, dopo aver asciugato il sudore, che le imperlava, sui pantaloni. «Tempo. Ho bisogno di tempo.» affermò e solo in seguito afferrò l’ironia di ciò che aveva detto: aveva bisogno di tempo, come se non ne avesse perso abbastanza. Si alzò stremato dalla sedia ed uscì di casa.

Roy era sul portico, lo accompagnò alla residenza White in completo silenzio. Le parole non sarebbero servite.

Sulla soglia, Josh si fermò ed accennò un sorriso teso, «Mi hanno detto che hanno parlato con te, qualsiasi cosa vi siate detti, ti ringrazio».

Roy annuì con un sorriso gentile, «Qualsiasi cosa, sai dove trovarmi».

Lo osservò andare via prima di entrare e trovare casa, sollievo, tra le braccia di Ellen.

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