Capitolo 29
Anche quella notte aveva dormito poco. I pensieri si erano affollati nella sua testa senza dargli tregua. Sentire Daniel, dall'altro lato della porta del bagno, bussare e sussurrare un “Mi dispiace” lo aveva destabilizzato. Non si aspettava una reazione del genere da parte sua e nemmeno una reazione così spropositata da sé stesso. La rabbia gli aveva annebbiato la mente, non era riuscito a pensare in modo lucido ed il suo lato più impulsivo aveva avuto la meglio. Ed era per quel motivo che quella mattina era in ritardo per le lezioni. Aveva posteggiato l’auto nel parcheggio della Boston High School e si era fermato sul sedile, come se qualcosa lo fermasse. Sembrava che l'incontro con il maggiore dei Mcdaniel avesse scatenato in lui una serie di reazione a catena, come la caduta dei tasselli del domino. Fece dei respiri profondi, o almeno ci provò. Doveva rimanere calmo ed apparire forte. Doveva farlo per le persone che continuavano a stargli accanto, nonostante tutto. Poggiò il capo sul poggiatesta e sospirò. Chiuse le palpebre mordendosi il labbro inferiore. Solo la sera prima era scoppiato a piangere nel bagno, dopo aver sentito la porta d'ingresso chiudersi. Dopo si era precipitato a buttare i mozziconi delle sigarette, a far uscire il fumo dalla stanza e a cambiarsi velocemente i vestiti. Quel segreto, quella ultima “boccata d'aria”, se lo sarebbe portato nella tomba. Era stato un atto di debolezza. Daniel aveva ragione, stava rendendo vane la presenza delle persone che continuavano a rimanergli accanto, e ciò lo aveva fatto innervosire ancora di più. Non riusciva più a controllarsi, era stanco. Riaprì lentamente gli occhi e, prendendo lo zaino, uscì dal veicolo. Entrò nella struttura, il rumore dei passi e il chiacchiericcio degli studenti lo invase come un onda. Nessuno si accorgeva della sua presenza, nessuno lo avrebbe notato. Eppure si sentiva il berretto di lana stringere sulla sua testa, sentiva degli occhi puntati su di sé, il brusio delle voci che lo schernivano come se sapessero. Strinse una bretella dello zaino, abbassò la testa e tirò dritto verso il suo armadietto. Sapeva che era tutto nella sua testa, ma ciò non impedì al suo petto di stringersi e l'ansia invadergli le ossa. Non pensava che tutto ciò potesse peggiorare così velocemente, quei tre giorni di quasi completo isolamento avevano accelerato quel lento declino. Quella stessa mattina non era riuscito a guardarsi allo specchio, non ne aveva avuto il coraggio.
«Buon giorno», Vick sussultò voltandosi verso quella figura bionda, tanto splendente quanto rumorosa. Era così concentrato ad osservare sovrappensiero il contenuto del proprio armadietto che non lo aveva notato.
«Buon giorno, non ti ho sentito arrivare», si forzò di sorridere, «Come stalker stai migliorando». Usare il sarcasmo continuava a risultargli semplice.
«O sei tu che sei distratto», lo osservò da capo a piedi, «Lo sei da ieri». White si poggiò con la spalla sugli armadietti adiacenti, continuando a scrutarlo. Le loro iridi si incrociarono, le loro pupille si analizzarono.
«Io…» sussurrò Price per poi distogliere repentinamente lo sguardo, sembrava potesse leggergli la verità. Probabilmente White era in grado di farlo, con lui. «Sono solo stanco», tornò a frugare nell’armadietto. Anche se il rumore li circondava, tra loro ci fu un silenzio assordante, pesante. Un silenzio così rumoroso, così ricolmo di parole che, se Victor avesse potuto,si sarebbe tappato le orecchie.
«Ma guarda chi abbiamo qui!» esclamò una voce melliflua e canzonatoria alle proprie spalle. Sentì la mancanza del berretto sulla sua testa, l'aria sembrava fredda sulla sua testa.
Il teppista si voltò di scatto, Virginia aveva il suo cappello in mano, con quei capelli biondo platino raccolti in una coda alta, con quegli occhi verdi sgranati. Non se lo aspettava, ne era certo. Ma lo stupore durò poco lasciando spazio ad un sorrisino, come il sorriso di un marinaio quando il vento finalmente accarezza le vele della propria nave. Gli occhi si fecero più freddi, quel verde scuro sembrava non appartenerle.
«Che ti è successo, Price?» domandò con un tono di voce più alto per farsi sentire ed attirare l'attenzione su di loro. «Ti sei tagliato i capelli? O qualcosa è andato storto?» sghignazzò. Il suo piano stava funzionando, gli studenti avevano lasciato la loro solita routine per costruire un cerchio intorno a loro.
«Mi sono detto che potevo evitare di spendere soldi dal barbiere. Allora ho scelto un taglio “corto”», ironizzò con uno dei suoi soliti sorrisi irritanti. Sentiva l'attenzione su di sé, quegli occhi, quegli sguardi appiccicarglisi addosso. Ma non gliel’avrebbe data vinta.
«Tu…» una sagoma bionda fece per scagliarsi su Perez, ma Vick la bloccò in tempo. Il suo viso era duro, rosso dalla rabbia e cercava di fare forza per avanzare su di lei senza far male al suo ragazzo che lo bloccava. «Come ti permetti, stronza! Lui ha il cancro!» urlò pieno di rabbia.
«Cos-» la ragazza sgranò gli occhi lasciando che il berretto di lana le cadesse a terra. Non lo sapeva, nessuno lo sapeva.
Ciò che seguì dopo fu confuso. Victor non sentiva altro che un fischio nelle orecchie, un brusio caotico nella testa. Pensò che nemmeno la felpa più larga che aveva messo quella mattina per nascondersi fosse adatta. Come quel berretto. Come quelle occhiaie. Faceva fatica a respirare, cercava avidamente l'ossigeno. Si sentiva gli occhi umidi e solo allora si accorse che Chris non poneva più resistenza, solo allora si accorse che lo stava guardando, stava guardando i propri occhi spalancati, esterrefatti, con i suoi color miele. Erano così dolci, pentiti. Deglutì a fatica ed il suo corpo si mosse da solo, raccolse velocemente il berretto, ai piedi di Virginia, lo zaino e corse via.
Il silenzio gravò sui presenti, nessuno studente che aveva assistito a quella scena, ormai a conoscenza di quel segreto non più tale, osava fare il minimo rumore. Come se avessero il fiato sospeso, come se trattenessero il respiro per paura. Perfino l'artefice di quel teatrino, Virginia, non osava muovere un muscolo.
Il biondo riposò il suo sguardo su di lei, pieno di astio e rabbia. Non sapeva con quale forza si stesse trattenendo, ma lo fece. Avrebbe peggiorato la situazione. Strinse i pugni e, a denti stretti, «Qualsiasi insulto mi venga in mente, dopo quello che hai fatto, nessuno mi sembra abbastanza. Non provare più ad avvicinarti a lui, non provare più ad avvicinarti a noi». Non c’era bisogno di aggiungere altro, non c'era bisogno di continuare quella velata minaccia. Corse nella stessa direzione di Price tentando di raggiungerlo, ma sembrava svanito nel nulla, come se le mura lo avessero inghiottito. Da quando si faceva coinvolgere così? Da quando si arrabbiava in quel modo? Da quando si esponeva in quel modo? Solitamente avrebbe lasciato che tutto scorresse. Che la vita gli scorresse tra le dita come sabbia. Avrebbe lasciato che tutto gli passasse davanti come se nulla lo toccasse, come se non lo riguardasse. Non si sarebbe mai immaginato di prendersi un anno sabbatico, di contrastare i suoi genitori, per quanto loro volessero la sua felicità, per quanto loro non lo avessero mai costretto a scegliere un università come i genitori di Joshua. Almeno, non prima di incontrare Victor in quell’ospedale, di vederlo uscire da quell’ambulatorio con gli occhi lucidi o prima di entrare in quel bagno e sorprenderlo a fumare, proprio come un teppista. Perché lui, senza rendersene conto, lo aveva cambiato e gliene sarebbe sempre stato grato. Perché Price, anche se aveva l'aspetto di un teppista, anche se sembrava superficiale, non lo era. E lo aveva dimostrato molte volte, come in quel bagno a casa di Nick. E mano a mano si era ritrovato a notare altri particolari come le ciglia lunghe e bionde, che solitamente incorniciavano delicatamente le sue iridi azzurre come il cielo d’inverno, che diventavano umide durante la chemioterapia, le sue mani fredde ma gentili che si stringevano alle sue, il modo in cui si mordeva il labbro quando cercava di fare il duro. Perfino le sue battute sarcastiche ed il suo sorrisino che appariva sul suo viso ogni volta che lo chiamava “Signor Stalker”. A lui Vick non piaceva, lui ne era innamorato e non sapeva quando ciò fosse cambiato, quando quel sentimento si fosse trasformato diventando più forte.
§
Si era rifugiato nella propria auto, nel parcheggio della scuola. Non sapeva da quanto tempo era lì, sapeva solo che ormai gli occhi erano gonfi, la rabbia e l'impotenza continuavano a non dargli tregua. La fronte perennemente poggiata sul volante, probabilmente avrebbe lasciato un segno rosso che avrebbe facilmente potuto nascondere con il berretto. Il respiro era tornato quasi completamente regolare ma rimaneva sempre pesante. E adesso? Cosa poteva fare? Se fosse tornato dentro avrebbe dovuto affrontare quegli sguardi pieni di pietà, giudicanti. Avrebbero notato le sue occhiaie, il suo corpo sempre più magro e debole, la sua pelle sempre più pallida, per non parlare del suo berretto. Adesso, tutti sapevano della sua malattia. Sentì lo sportello dal lato del passeggero aprirsi e chiudersi. Non si voltò, non sollevò la testa. Sapeva benissimo chi era. Il silenzio continuò a riempire la vettura per qualche minuto.
«Mi dispiace», sibilò Christopher.
«Ti dispiace», ripeté Victor senza alzare il capo.
Il silenzio sembrò rinondare la conversazione per altri interminabili minuti. «Non volevo dirlo, ero arrabbiato».
«Eri arrabbiato», ripeté stringendo il volante.
«Vick, non sono riuscito a rimanere in silenzio mentre ti insultava per i tuoi capelli», asserì tirandolo indietro per una spalla, facendogli finalmente staccare la fronte dallo sterzo.
«Perché no? Posso difendermi da so-»
«Perché ti ho visto piangere mentre te li rasavo», lo interruppe facendolo sussultare. «Ti ho sentito fare del sarcasmo sull'argomento con gli occhi che sembravano scoppiare in lacrime.» si poggiò sullo schienale del sedile, «Ieri ti ho visto evitare il tuo stesso sguardo allo specchio ed oggi evitavi il mio».
Aveva notato tutto questo? Era così evidente? Era divenuto un libro aperto? No, era solo Chris che aveva notato questi segnali. «Adesso tutti sanno della mia malattia», sospirò.
«Mi dispiace, non volevo», ribadì pentito il biondino cercando il suo sguardo.
«Solitamente non mi importa di ciò che la gente pensa di me, né di come mi guarda», non riusciva a sollevare la testa, anche se percepiva quelle iridi color miele su di sé.
«Adesso cos'è cambiato?»
«Io, sono cambiato io», poteva dirglielo? Poteva dirgli come si sentiva davvero? Avrebbe capito? In fondo era rimasto al suo fianco, gli aveva stretto la mano ogni volta durante i cicli di chemioterapia, gli aveva accarezzato la schiena ogni volta che tossiva fino a mancargli il respiro. Lo aveva visto in condizioni pietose, lo aveva visto piangere, gli aveva asciugato le lacrime e nemmeno una volta c'era stato un barlume di pietà in quei occhi. «Il mio corpo sta cambiando velocemente, non mi riconosco più. Non riesco più a fare azioni quotidiane senza sforzo, perfino mangiare è diventato uno scoglio insormontabile!» esclamò frustrato mentre calde lacrime avevano riniziato a rigargli il volto senza alcun controllo. «Sono stanco. Non voglio che gli altri mi vedano così debole, non voglio che mi compatiscano».
«Vick», sussurrò White accarezzandogli la nuca, «Guardami».
Le sue iridi azzurre come il cielo in estate, così intense, circondate dal rossore del bulbo oculare, si posarono finalmente su quelle color sabbia del ragazzo. Perché anche gli occhi di Christopher erano lucidi? Lo aveva caricato di quel peso che portava sulle spalle?
«In questa battaglia contro il cancro, non sei da solo.» Price si pietrificò, «Ci sono io, tuo zio Charlie… Perfino il dottor Barlow tiene a te più di quanto immagini».
Era vero. Non era solo, non più. Anche se si ostinava a voler apparire forte per non far preoccupare nessuno, non aveva funzionato. Charlie si era trasferito nel suo appartamento per prendersi cura di lui e Christopher si preoccupava sempre, da bravo Signor Stalker. A modo suo Daniel aveva cercato di farglielo capire, di dover lottare per sé stesso e per chi gli stava accanto in questa battaglia contro la malattia. Che tutti stavano facendo sacrifici, che la malattia stava cambiando anche loro e le loro vite nonostante cercasse di fare tutto da solo. Provò a parlare ma la voce non riuscì ad uscire, facendolo boccheggiare.
«Mi dispiace davvero aver detto della malattia», continuò spostando la mano dalla nuca alla guancia del teppista. «Ma non sono riuscito a rimanere in silenzio mentre Virginia sbeffeggiava il tuo dolore. Qualsiasi cosa succederà quando rientrerai, sappi che non dovrai affrontarla da solo, io sono con te. E non perché tu non sia abbastanza forte, perché lo sei, ma perché condividere un dolore in qualche modo lo rende più “sopportabile”».
Price si morse il labbro inferiore, ormai arrossato dal pianto, come le sue gote. Tirò su con il naso mentre White gli asciugava la guancia con il pollice, lentamente, come se non fossero nella macchina nel parcheggio della scuola, come se il tempo si fosse fermato in quelle iridi color ambra. Per tutto quel tempo si era sentito solo. Non aveva notato le persone che gli stavano accanto, come se fosse bendato. Fece un sospiro tremolante mentre chiudeva gli occhi, «Grazie». Le sue ciglia bionde erano bagnate, il suo naso arrossato.
Christopher avvicinò lentamente il viso al suo, i nasi si sfiorarono mentre poggiava le proprie labbra sulle sue, erano salate. Un bacio leggero, a fior di labbra e quando finì i loro occhi s’immersero nelle iridi dell’altro mentre i loro respiri sembravano sfiorarsi timidamente. Non avevano bisogno di parole. Victor si era aperto con lui, non aveva dovuto notarlo dai suoi comportamenti, non aveva dovuto carpire informazioni da quei piccoli dettagli, lo aveva reso partecipe di quella guerra che combatteva ogni giorno contro il cancro e contro se stesso. «Ti va di venire dentro?» chiese in un sussurro.
Lo sguardo di Vick mutò, un sorrisino sghembo inarcò i lembi della bocca. «”Venire dentro”», ripeté serafico.
«Tu con il tuo maledettissimo sarcasmo hai rovinato l'atmosfera», sospirò tornando a poggiarsi sul sedile, imbarazzato fino alla punta delle orecchie. Il paesaggio fuori dal finestrino, qualunque esso fosse, sembrava aver preso tutta l'attenzione del biondo.
«Andiamo», ridacchiò, «Me l'hai servita su un piatto d'argento, la colpa è tua principessa».
«Sei sempre il solito teppista da strapazzo», sospirò, «Sei allergico alle situazioni serie».
«”Allergico alle situazioni serie”», ripetè e White annuì. «Io voglio ridere, voglio divertirmi», si asciugò goffamente il viso, afferrò lo zaino ed aprì lo sportello poggiando un piede fuori dall’abitacolo. «Potrebbero essere gli ultimi momenti in cui posso farlo e non ho intenzione di sprecarli, Christopher».
Oltre lui, solo i suoi genitori lo chiamavano con il suo nome completo, soprattutto quando li faceva infuriare dopo averne fatta una delle sue. Solitamente gli piaceva quando il suo nome completo usciva dalle labbra di Victor, il modo in cui lo pronunciava, la sua voce così gentile. Quella volta non fu così, era stato in grado di strappargli via l’aria dai polmoni impedendogli di respirare. Voleva mettersi a piangere, ma non lo fece. Uscì anche lui dalla vettura e lo osservò, in silenzio.
«Sono riuscito a zittirti e non ricordo come ho fatto», lo punzecchiò avvicinandosi con quel solito sorrisino irritante.
«Vick», sussurrò.
«Credo tu sia allergico al sarcasmo, al mio sarcasmo», si aggiustò il berretto sulla testa, come per tornare alla crudele realtà. Sollevò lo sguardo incatenandolo al suo e sfoggiò un sorriso, «Andiamo, principessa, o la carrozza diverrà zucca». Aveva paura ma non l'avrebbe mostrata, doveva farsi forza per lui e per chi gli stava accanto. Se avrebbe perso la battaglia, voleva che lo ricordassero con il sorriso, anche se non sarebbe stato facile. Anche se di sorridere non ne aveva voglia e la forza.
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