La fame dei ratti (SatoSugu)
Era stata una lunga caduta.
Ciò che è peggio, è che di quella caduta non se n'era accorto nessuno dei due per un lungo tempo: nè colui che stava cadendo, ormai abituatosi a sentire lo sferzare del vento sulla pelle e la pressione farsi sempre più forte, nè colui che, dall'alto del cielo, non riusciva più a vedere la figura dell'altro farsi sempre più piccola nel precipitare verso la terra.
Non si appartenevano, forse.
Ed era terribile, perchè se fossero stati destinati a mondi diversi il dolore sarebbe stato sopportabile, prima o poi se ne sarebbero fatti una ragione. Ma no, loro erano fatti per guardarsi da parti opposte dello stesso mondo: sempre in vista ma mai alla portata l'uno dell'altro, abbastanza vicini da vedersi ma non abbastanza affinchè le loro mani si sfiorassero.
Suguru guardava fisso il suo sole attraverso le ciglia, calate sugli occhi dalle palpebre pesanti, gonfie, stanche.
Satoru, il suo sole, brillava forse di luce troppo accecante per notare l'oscurità sul volto del suo compagno, urlava troppo forte per sentire il suo silenzio, si illudeva forse che le loro mani fossero unite mentre saliva sempre più in alto nel cielo.
Ma era da solo.
Era Dicembre di un anno qualsiasi e stavano già cadendo.
Due liceali, compagni di classe, compagni di avventure e disavventure, fuggivano la vita quotidiana con pigrizia e cercavano l'uno la presenza dell'altro, nuove sensazioni e nuove emozioni in un continuo riciclo, ma sempre un paio di ognuna in modo che potessero sperimentarla entrambi.
La neve bianca ricordava, a Suguru, il suo sole: pensava che se lui fosse rimasto immobile fuori, fino ad essere sommerso di neve, avrebbe rischiato di non ritrovarlo più. Questo pensiero infantile e affettuoso lo portava a fermarsi di tanto in tanto per scuotere via la neve dal suo cappotto e dai suoi capelli, coi quali si confondeva; non aveva idea che Satoru fosse invece ammaliato dall'effetto dei fiocchi candidi sui suoi capelli scuri, gli sembrava quasi che fossero inghiottiti e che anche se avesse nevicato intensamente per ore sopra di lui, neanche uno di quelli si sarebbe posato o lo avrebbe coperto.
<<Lo sai, Suguru>> gli aveva detto un giorno mentre passeggiavano pigramente verso scuola; il freddo penetrante che paralizzava gli arti li costringeva a rallentare ancora il passo, al punto che s'era fatto buio <<dopo una drastica diminuzione di cibo, se si dà a dei ratti libero accesso ad una ruota per allenarsi, questi inizieranno a preferire l'esercizio fisico alla nutrizione, aumentandolo sempre di più fino alla morte>>
A Suguru non parve tanto problematica come affermazione detta così, all'improvviso, ma riflettendoci sopra capì che davvero non ne comprendeva il senso.
<<E perchè mai?>> chiese <<perchè mai dovrebbero rifiutare quel poco che hanno e preferire la morte?>>
L'espressione del ragazzo gli lasciò intendere che in effetti non aveva idea della risposta, ma la strada era lunga e forse avevano ancora tempo di pensarci.
<<Forse..>> mormorò alla fine, con lo sguardo basso <<perchè piuttosto che non averne abbastanza e soffrire a lungo, preferiscono non averne affatto>>
Satoru sembrò trovare una sorta di pace in queste parole, Suguru invece continuava a non comprenderle.
"Perchè?" continuò a chiedersi osservando le impronte che le sue scarpe lasciavano nello strato spesso di neve, accanto a quelle del suo sole "perchè mai dovrebbero preferire la morte a ciò che li tiene in vita?"
Ma non espresse ad alta voce questo dubbio.
Forse temeva che, se lo avesse fatto, Satoru sarebbe stato in grado di dargli una risposta ancora più convincente.
[...]
Faceva freddo e non avevano voglia di fare nulla.
Faceva buio presto e l'avvicinarsi del Natale rendeva impossibile avvicinarsi a qualsiasi luogo chiuso come negozi o centri commerciali, accanto ai quali la file delle macchine era talmente lunga che la luce dei fari illuminava le le strade ancora più dei lampioni sopra le loro teste.
Suguru lesse dei libri e imparò delle cose.
Imparò che quella di cui Satoru gli parlava si chiamava "modello di iperattività indotta dalla fame" ed era una ricerca psicologica testata sui ratti il cui scopo era dimostrare come la mancanza di cibo inducesse l'iperattività nei soggetti, al contrario di quanto uno si aspetterebbe, cioè l'ipoattività, per la salvaguardia dell'organismo.
E in effetti, gli esperimenti erano andati proprio come gli era stato raccontato: ai ratti veniva tolto quasi tutto il cibo, gli veniva dato libero accesso su una ruota da corsa, e si osservava come molti di questi divenissero iperattivi e continuassero ad esercitarsi piuttosto che mangiare, fino alla morte. Scientificamente questo veniva spiegato come un tentativo di far fronte allo stress causato dalla restrizione alimentare, o un tentativo di aumentare la temperatura corporea indotta dal calo del metabolismo.
"Non lo capisco" continuava a pensare Suguru, sfogliando le pagine "anche se ne hanno poco, possono sopravvivere con quello. Se non si agitassero in quel modo, potrebbero farcela".
A volte Satoru aveva dei momenti particolari nei quali si chiudeva al mondo esterno, e ammetteva accanto a sè solo il suo migliore amico. Parlava poco, che per lui era strano, sembrava in contemplazione del tutto, come se avesse accesso alla formula del mondo davanti agli occhi ma fosse semplicemente troppo da sopportare per lui.
Era in un uno di quei momenti che, tempo fa , Suguru aveva sentito per la prima volta una sensazione particolare alla quale proprio non riusciva a dare un nome. Sedevano l'uno accanto all'altro su una panchina, nel buio di una serata tranquilla dove non c'era assolutamente nulla di particolare e nulla da fare: proprio per questo non si spiegava l'origine di quella percezione. Ma aveva smesso di pensarci, e ogni volta smetteva di pensarci finchè non capitava di nuovo.
<<Sta nevicando fuori>> la voce del suo sole risuonò nella classe vuota che aveva occupato coi suoi libri e i suoi deliri sui ratti.
<<Sta nevicando?>> chiese, osservando dalla finestra la coltre biancastra e i fiocchi che cadevano come pioggia infinita.
<<Si, troppo per uscire.. questo mi annoia>> si lagnò il ragazzo, chiudendo la porta dell'aula dietro di sè e prendendo una sedia per affiancare l'amico.
Il suo sguardo si posò, da dietro le lenti scure, sul libro che ancora lui teneva in mano.
<<Ti interessa parecchio, questa faccenda dei ratti... io dicevo tanto per dire>> ridacchiò.
Suguru alzò le spalle.
<<Sto cercando di capire>>
Ma Satoru sembrava contrariato.
Gli porse il libro, la chioma canuta si mosse verso di lui, sporgendosi per prendere l'oggetto e squadrarlo come se fosse vivo, le loro spalle si sfioravano appena.
<<Interessante>> mormorò, ma chiaramente nella sua analisi non era andato oltre l'immagine del topolino disegnata sulla copertina <<ma guarda, ho trovato queste nuove caramelle...>>
Tirò fuori dalla tasca delle palline incartate in un involucro bianco e nero, ne porse una a lui mentre l'altra se la tenne per sè, spiegandogli che la particolarità era il modo in cui dovevano essere aperte, tirando dai lati. Gli mostrò il gesto, guardò la caramella aperta e poi verso di lui, incrociando il suo sguardo, ma lo distolse subito per prestare nuovamente attenzione all'oggetto e invitarlo a provare.
"Non guardarmi così" pensò Suguru, incerto su quale parte del suo corpo avesse formulato quest'affermazione "cos'è ancora questa sensazione?"
Per quanto leggesse non sapeva dargli un nome.
Tirò i due lembi della carta bicromatica per aprire la caramella, ci riuscì, e il sorriso di Satoru lo illuminò di una luce che non c'era, perchè era buio.
"Ne voglio ancora" pensò, per poi mettersi in bocca la caramella.
[...]
Non sopportava quel gioco di sguardi, era come succhiare una caramella eccessivamente aspra.
Satoru lo guardava, fissava i suoi occhi per un tempo a volte talmente breve da fargli credere di esserselo immaginato, a volte talmente lungo da fargli trattenere il fiato per nessuna ragione. Poi lui tornava a guardare il mondo e sembrava estremamente disinteressato, e nonostante quel disinteresse non riusciva a smettere di osservare tutto: le strade, le automobili, la neve, le altre persone.
Il suoi occhi chiari lo mettevano sotto esame, non apprezzava particolarmente quel contatto con la gente e per questo lo evitava, tenendo spesso il capo chino mentre camminava o quando qualcuno gli rivolgeva la parola. Ma non poteva rompere quel contatto sottile con lui, nè voleva farlo. Ma era un gioco di cui non capiva le regole; l'altro stava giocando con disinteresse, scioltezza, non aveva pensato fosse il caso di informarlo su cosa dovesse fare.
La verità è che neanche lui lo sapeva, ma Suguru cadeva troppo in fretta per notare la sua vera espressione, era ormai già troppo lontano.
E lui pensava sempre di più ai ratti.
I ratti nella loro gabbietta, sulla ruota per la corsa, ratti affamati, li vedeva in ogni angolo della stanza, lo circondavano e lo osservavano, sembravano ripetere costantemente una domanda che lui non sentiva, o forse non capiva. I ratti gli stavano chiedendo qualcosa.
Nei giorni successivi rimasero in stanza perchè faceva troppo freddo per uscire, nei giorni di festa non si disturbarono neanche a togliersi di dosso il pigiama e si limitarono a vedersi in camera di Satoru, per chiacchierare e giocare a un nuovo videogame portatile che avevano scoperto.
Pigramente si nascosero dal gelo sotto le coperte, nonostante fosse ora di pranzo quel tepore li faceva sentire ancora sonnolenti, e ben presto il passatempo venne a noia.
<<Leggi ancora libri sui ratti?>> gli chiese, quasi sussurrando, ma senza rivolgere lo sguardo verso di lui.
Suguru, invece, voltò il capo verso il ragazzo accanto a lui.
<<No>> mentì, senza sapere perchè <<non più>>
Lui annuì.
Rimasero in silenzio e il silenzio non era mai imbarazzante fra loro due, era tiepido e confortevole, lo era sempre stato. Satoru si voltò, lentamente, si mosse fra le coperte e questo permise a uno spiraglio di aria fredda di infiltrarsi al di sotto, facendo rabbrividire Suguru.
La cosa lo distrasse al punto che non si accorse della mano dell'altro sulla sua guancia, appena appena poggiata: era tiepida, sottile, delicata ma non esitante.
Non seppe cosa dire, non aveva nulla da dire.
Quei magnifici occhi azzurri non guardavano nemmeno lui, ma la punta delle sue stesse dita che si mossero lungo la sua pelle a tracciare il contorno del suo viso. Suguru non ebbe il tempo o la voglia di pensare, socchiuse gli occhi e lasciò semplicemente che il suo amico lo trattasse come la carta di una bella caramella, o un nuovo videogame divertente, lasciò che lo sfiorasse come se fosse qualcosa di interessante da osservare, che lo guardasse come gli alberi, le strade, la neve o le altre persone.
E Satoru lo fece, sfiorò con le dita i suoi lineamenti, la pelle sensibile del collo fino alla scollatura del pigiama, il tutto con una calma maniacale come se stesse esplorando una terra sconosciuta. Infine affondò la mano fra i suoi capelli che accarezzò stringendo delicatamente quelle ciocche fra le dita e allora, solo allora, quando quella sensazione viscerale si era nuovamente fatta strada nel moro fino a diventare insopportabile e assordante, si degnò di incastrare lo sguardo nel suo con tranquillità, senza alcuna sensazione o emozione particolare nelle iridi dal colore del cielo.
Suguru si accorse che non stava respirando, ma non si azzardò comunque a farlo.
Era troppo vicino al suo viso, quel cielo lo avrebbe inghiottito, il suo sole avrebbe bruciato la sua pelle e le sue ossa. Ma forse era proprio quello che voleva,morirci.
<<Stai bene?>> mormorò Satoru, e l'altro si disse che era definitivamente impazzito, al punto da sentire della dolcezza in quel tono, della preoccupazione, la stessa delicatezza del tocco di prima. Lasciò scivolare le lunghe ciocche castane fra le dita, finchè queste non si posarono morbidamente sulla sua spalla. Nonostante la folta chioma, ora gli sembravano leggerissime, quasi inesistenti dopo che lui le aveva sfiorate in quel modo.
<<Sto bene>> disse, e la sua voce era sicura di ciò che stava dicendo.
Satoru non sembrava convinto ma ,come il giorno in cui gli aveva fatto quella domanda sui ratti, riconobbe l'espressione di quando si riteneva soddisfatto di qualcosa di assolutamente insoddisfacente.
Suguru, questo, continuava a non capirlo.
[...]
Satoru si accontentava.
Non sembrava disposto a rinunciare a quei giochi di sguardi, a quei tocchi fugaci e nascosti, a quelle domande sconclusionate. Suguru non lo sapeva, ma in termini di economia emotiva era tutto ciò che poteva permettersi, e glielo aveva dato. Avrebbe dovuto essercene altro, ma non c'era e lui non aveva mai capito perchè, nè mai lo avrebbe chiesto ad un libro, o al suo compagno. Questo, forse, fu il suo errore più grande.
Suguru invece si interrogava, leggeva, cercava una spiegazione a quella sensazione senza mai trovarla e si crucciava.
Cadeva, sempre più in fretta e sempre più giù.
Perdeva di vista il suo sole, perchè lui era la luna e poteva permettersi solo quello: occhiate fugaci, mentre le mani diventavano sempre più distanti e non riuscivano più a sfiorarsi. Lui brillava della luce di Satoru, ma solo quando Satoru non c'era.
Non erano fatti per mondi separati, ma per poli opposti di uno stesso mondo.
Inevitabilmente le sue occhiaie crebbero, il suo sguardo si spense sempre di più, i ratti bisbigliavano a lui le risposte alle sue domande in una lingua che diventava sempre più comprensibile. La risposta a quella domanda, la natura di quella sensazione, ora la conosceva.
Non bisogna credere che gli addii siano sempre qualcosa di eclatante come mostrano nei film o raccontano dei libri, perchè quando dici addio a qualcuno la maggior parte delle volte ti sembra solo un normale arrivederci.
E fu così che successe fra loro due, in un giorno non molto tempo dopo dove si separarono al calar del sole.
<<Ci vediamo dopo?>> alzò la mano il sole, salutando.
<<Non credo>> rispose la luna, con un sorriso cordiale ma stanco.
<<Come mai?>> chiese lui, curioso.
<<Credo di avere fame, molta fame. Andrò in un posto>>
<<Vuoi che ti segua?>>
Suguru scosse la testa. L'altro non capì, ma chiese ancora.
<<Dove andrai?>>
La lune si era girata di spalle nascondendo la sua faccia più bella, confondendo il suo profilo nell'ombra. Eppure alzò la mano allo stesso modo dell'altro per salutare un'ultima volta. Sarebbe passato molto tempo prima che si rivedessero di nuovo.
<<Ad allenarmi>>
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