Tre: lama di luna

Un nuovo frammento, una nuova scena. Sgombrai la mente, lasciando che fluisse nella sagoma avvolta dalla penombra. Un battito di ciglia, e la coda dell'occhio mi mostrò la tappezzeria indefinita di una stanza da letto, schiarita solo da un braciere scoppiettante.

Sedevo tra lenzuola fresche di bucato, le gambe penzoloni su uno scendiletto lavorato finemente. Tra le dita sottili come fusi, stringevo un coltello dal manico d'osso.

Nella mia testa rimbombavano frasi estranee. Ortica... Mi ha chiamato Ortica...

Un pizzicore fastidioso mi percorse la pelle avvolta in un mantello. Il contatto con la strana stoffa, intessuta di foglie e muschio, mi provocava un impellente bisogno di grattarmi. Tuttavia, mi accorsi ben presto che i muscoli non rispondevano ai miei comandi, come se fossero stati sciolti i lacci che li ancoravano al mio volere.

Sapevo il perché: il corpo che conteneva i miei pensieri era del misterioso Ortica; non avevo alcun potere là dentro, se non quello di vagare tra le emozioni del mio ospite.

La figura della ninfa e dei suoi capelli color miele si delineò davanti ai nostri occhi, come un ricordo improvviso. Una voce senza suono mi suggerì il nome da attribuire a quel viso: Carolina.

Tentai di scavare nella memoria di Ortica, alla ricerca di informazioni sul conto della donna, ma le risposte alla mia curiosità parevano segregate in un cassetto nascosto di quell'ignoto cervello.

Le nostre mani giocherellavano con il coltello, quasi ad affilarne la lama tra le dita. Un baluginio argentato danzava sul filo dell'arma, seguendo il ritmo di un solo, misterioso pensiero.

Il sangue innocente sarà riscattato. Il sangue innocente sarà riscattato...

La cantilena proseguì per interminabili secondi, come a cercare di ridurre i nostri intenti, ripetendoli più volte, a parole senza senso.

Una nuova immagine si assemblò sotto le nostre palpebre: Carolina riversa in un mare di sangue, il petto squarciato in una chiazza rossa che si espandeva sul viola delle vesti. Sovrapposta a lei, una creatura simile agli uomini, ma con la pelle color del prato lacerata da ferite blu notte. Un contrasto di colori netto, quasi nauseabondo.

Sentimmo gli occhi incendiarsi di rabbia, un fuoco che neanche le lacrime potevano spegnere. Nessuna parola avrebbe eguagliato né sminuito la portata del gesto che ci accingevamo a compiere. Tuttavia, come ci ripetevamo, solo per vendetta avremmo macchiato le nostre candide mani di sangue, agendo contro la nostra natura.

Una vendetta spietata, ma giusta e sacrosanta.

Stringemmo con forza il coltello, e le nocche si sbiancarono. Strane macchie coprivano il dorso della mano affusolata.

Un passo alla volta, in silenzio, verso la porta serrata. Girammo la maniglia con quanta più delicatezza possibile.

Sotto i nostri piedi, la tensione pareva piombo. Una vena fastidiosa pulsava nella gola, scandendo il tempo che ci separava dall'estrema decisione.

Avanzammo sul pavimento in pietra levigata. Serrato nella mano sudata, il manico d'osso resisteva a riscaldarsi.

Il chiarore che effondeva la finestra spalancata illuminò la sagoma di un letto a baldacchino. Ci avvicinammo lentamente e scostammo la spessa cortina. Uno sfregare metallico accompagnò il nostro gesto, facendoci gelare il sangue nelle vene. Per fortuna, la donna rannicchiata tra le coltri non ne fu svegliata.

Una guancia velata d'azzurro, liscia e perfetta, riposava sul largo guanciale. I capelli, resi argentei dal buio, formavano attorno alla fronte bombata una corona di boccoli. Il petto dondolava sereno, cullato da qualche piacevole sogno.

Era lei. Carolina.

Finalmente era arrivato il momento che aspettavamo da tempo! Finalmente la causa del nostro dolore si sarebbe piegata alla lama d'argento!

Carolina, la peccatrice che aveva accecato i nostri occhi: quella strega che ci aveva illusi di avere ciò che non avevamo, di essere ciò che non eravamo; quel corpo che un tempo avevamo lodato, amato, posseduto, che avremmo persino mutilato del cuore per cucirvi dentro il nostro.

Digrignammo i denti, e una fitta dolorosa ci serrò la mascella. Come poteva Dio aver lasciato in vita una così lurida meretrice? Come poteva aver preferito Carolina alla creatura amorevole che con il suo sangue color della notte aveva scontato una pena immeritata?

Una creatura che non era né uomo né donna, né essere né avere, che ci aveva donato tutta se stessa, amandoci per ciò che avevamo ed eravamo: come poteva, al suo posto, esser stata risparmiata l'insulsa Carolina?

La rabbia e il dolore infuriavano in un tornado devastante. Alzammo il coltello, e la lama brillò con tutta la sua crudele bellezza.

Tacque la mente di Ortica, sbarrando con veemenza i suoi cancelli, e la mia coscienza si ridestò dal suo torpore, seppure ancora prigioniera. Terrore e confusione mi strapazzavano alla stregua di un cuscino. I pensieri che finora avevo scambiato per i miei, fin quasi a giustificarli, persero ogni senso.

Carolina, che fino ad allora avevo visto sotto le molteplici luci dell'amore, era davvero colpevole di un qualche reato? Una creatura di così rara beltà, candida e innocente all'apparenza, e al contempo così oscura e distante... Una ninfa: strano come fino ad allora, pur senza saperlo con certezza, l'avessi associata a una figura divina. Ma forse, oltre quel suo velo impalpabile e virgineo, si celava qualche indomita fiamma.

Il pugno stretto sull'elsa tremava in controluce. C'erano fin troppe questioni che non mi erano chiare.

Ripensai alle considerazioni di Ortica sul conto della donna, confrontandole con ciò che lo specchio mi aveva mostrato di lei fino ad allora. Quella strega che ci ha illusi di avere ciò che non abbiamo, e di essere ciò che non siamo: esisteva un qualche legame tra le scene da me viste e il passato oscuro di Ortica. Ne ero certa.

Intanto, il sangue pulsava con frenesia nei nostri polsi. L'esitazione soffocò la nostra volontà, e prima che ogni cosa lasciasse il posto a un precipizio oscuro, un solo flebile pensiero tentò di rischiarare i miei dubbi.

Carolinaera innocente, e la colpa d'ogni cosa non era che la nostra.    

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