Quattro: gote di fango

«Amedeo!»

Il nome del ragazzo echeggiò da lontano. Le sue orecchie divennero anche mie, così come i suoi occhi muschiati.

Le gambe, sorrette dal passo spedito, proseguivano nel bosco. Dopo una mattinata infinita in compagnia di Lapo, il più noioso tra i fratelli, avevamo finalmente trovato la scusa buona per lasciarlo solo a sorvegliare le pecore.

L'occasione per fuggire ci era stata offerta da Scorzetta, l'enorme cane pastore che ci precedeva nel nostro ignoto percorso. La bestiola, da brava scansafatiche, era solita passare le giornate in cerca di malcapitati esserini da importunare. Pertanto, quella volta, niente pareva giustificare la fretta con cui aveva fatto ritorno al pascolo; probabilmente voleva solo mostrarci qualcosa nel bosco, e di questo avevamo approfittato per allontanarci da nostro fratello, la cui ultima sfuriata si era appena conclusa.

Nel constatare tutto ciò, rimasi stupefatta da come la mente del ragazzo, a differenza di quella del misterioso Ortica, non avesse nulla da nascondermi. Nel preciso istante in cui ero entrata in lui, una valanga di sensazioni mi aveva sommersa, tanto chiare da apparir subito mie. La mente di Amedeo era limpida, e la sua coscienza era pura e giocosa come quella di un qualunque ragazzino vissuto in campagna.

Un profondo risentimento ci separava da Lapo. La causa dell'ultimo litigio, come al solito, era stata Carolina: non c'era una volta in cui, menzionato il nome della ninfa, non scoppiasse una disputa su chi tra noi due meritasse il suo cuore. Quel ragazzo aveva un fare tutto suo di relazionarsi alla fanciulla, un modo di agire che ella mai avrebbe gradito, secondo la nostra opinione. Eppure svariate volte la stessa Carolina aveva ostentato interesse nei suoi confronti. Gli sguardi di lei, furtivi come quelli di un ladro, sapevano aspettare l'occasione propizia per colpire con la sottigliezza di uno spillo. E a noi non restava che assistere a tutto ciò chiusi nel più timido disappunto.

Frattanto che le nostre menti erano ingarbugliate nelle loro riflessioni, Scorzetta continuava imperterrita ad avanzare, facendo ondeggiare il pelo che avrebbe svergognato il candore delle nuvole, se soltanto il lordume l'avesse risparmiato. L'erba e i fiori del sottobosco si inchinavano al nostro passaggio, mentre il sole caldo irradiava le fronde dei faggi. No v'era altro rumore se non quello dei nostri passi, che portava il tempo alla melodia dei tordi.

La cagnolina si fermò in prossimità di un arbusto, alle cui radici era abbandonato uno strano groviglio di foglie. Ci avvicinammo cautamente, fino a scorgere un paio di gambe il cui niveo pallore era incrostato di sangue.

Avevamo davanti un uomo. E non un uomo qualunque, pensai inquieta, ma nientemeno che Ortica. Mi chiesi cosa ci facesse lì, se avesse attentato di già alla vita di Carolina: domande che sapevo essere precluse ad Amedeo, ignaro di ciò che io sapevo.

Fissavamo il malcapitato con curiosità e timore. Che fosse morto? Che fosse vittima di qualche efferato crimine dal quale tenersi alla larga?

Il buonsenso ci suggeriva di fuggire piuttosto che di soccorrerlo, e nel contempo ci invitava a fare il contrario. Chiunque egli fosse aveva bisogno d'aiuto, ed era necessario che si facesse il possibile per sostenerlo.

Ci chinammo su di lui con apprensione. Oddio, oddio... Cosa fare in questi casi?

Carezzammo la sua spalla, ma un prurito improvviso ci costrinse a ritrarre la mano. È un mantello d'ortica! pensammo con orrore, sfregando il palmo sui calzoni. Chi mai avrebbe indossato un indumento simile, se non per una qualche ignota ma importante ragione?

Sopportando il fastidio, volgemmo lo sventurato in posizione supina. La vista di un viso fresco e glabro, spruzzato di fanghiglia, agitò in noi uno slancio di pietà. Dal cappuccio calato sulla fronte faceva capolino un ciuffo di capelli rossicci.

Sfregate ancora le mani sui vestiti, le avvicinammo alle sue labbra semiaperte. Un caldo velo ci umettò le dita: perlomeno respirava.

Ma il nostro gaudio, soppresso dall'insicurezza, durò ben poco.

Ci fermammo a osservare Scorzetta mentre leccava il viso del ragazzo, fino a scoprirne un pallore malaticcio.

Forse dovrei chiedere aiuto a Lapo...

Scacciammo in tutta fretta quel pensiero: era da sciocchi lanciarsi tra le fauci della bestia.

Se solo ci fosse Carolina...

Un'idea ci balenò in testa: avremmo caricato il giovane sul dorso di Scorzetta per poi condurlo al castello della ninfa, dov'ella se ne sarebbe presa cura con le dovute attenzioni. E cogliendo l'occasione, né troppo forzata né troppo casuale, avremmo rivisto e riabbracciato la nostra amata.

Che piano sopraffino! ridacchiammo soddisfatti.

Se una parte di me si unì all'ilarità di quei pensieri, l'altra se ne discostò con apprensione. Per la prima volta, ciò che mi veniva mostrato seguiva una sua logica: Amedeo avrebbe condotto Ortica da Carolina, e il giovane misterioso avrebbe tentato di ucciderla. Un ragionamento pulito, senza grinze, e ciò non mi rincuorò.

Ma non avevo altra scelta. Schiava di corpi, vicende e volontà non mie, potevo solo seguire la corrente degli eventi, senza potermene preoccupare. Inoltre, sapevo preventivamente che Ortica non avrebbe mai portato a compimento il suo piano, quindi perché affannarsi tanto?

Entrambi sicuri sul da farsi, sollevammo appena il ragazzo dalle ascelle, ma un suo colpo di tosse ci colse alla sprovvista.

Un lamento soffocato, e le sue palpebre si aprirono su due iridi dal colore del ferro. «Ta... tatà...» gemette.

«Co-cosa c'è?» balbettammo.

Un urlo improvviso, e lasciammo la presa. Il giovane indicò un punto davanti a sé, il braccio tremante. Indietreggiò carponi, terrorizzato da qualcosa che egli solo vedeva. «Quid a me vultis, Arcàdes?» gemette, la voce acuta resa tremula da spasmi violenti. «Quid a me vultis?»

La lingua mia e di Amedeo si piegò su se stessa, come a trattenere la paura in gola.

«Ego innocens sum! Ego...» Si parò il volto con le braccia, rannicchiandosi al suolo tra i singhiozzi.

«No, no...» Chinammo le ginocchia tremanti. «Non c'è nulla da temere...»

Ma egli continuava a piangere, incurante delle nostre parole e probabilmente neanche in grado di comprenderle, così come noi intuivamo a stento le sue. Attendemmo che si calmasse, il piede pronto a scappare in caso di pericolo.

A poco a poco, i singulti si tramutarono in un borbottio confuso.

«Posso...» tentammo, «posso fare qualcosa per te?»

I suoi occhi arrossati di lacrime supplicavano aiuto. Una patina misteriosa avvolgeva quelle buie pupille, contornate da riflessi di metallo. «A... Ac...» gemette.

«Cosa... Cosa c'è?»

«Ac... qua...»

«Sì, subito!» Liberammo la borraccia dalla nostra cintura e gli versammo in gola poche gocce per volta.

Dopo un rapido gorgoglio, inumidì con la lingua la bocca impastata. Accennò un sorriso, ma durò ben poco: le sue labbra s'incrinarono in una smorfia infelice.

«No, no...» mormorammo nell'accovacciarci con premura. «Che ti prende?»

Il ragazzo scosse la testa. L'istinto ci ordinò di carezzargli il braccio in segno di consolazione, senza curarci del fastidio che provocava alla nostra pelle il contatto con l'ortica. Tale dolcezza sembrò far breccia nel cuore del malcapitato, che arraffò la nostra mano per baciarla.

«Conosco...» scandimmo malamente, «una donna che si prenderà cura di te...»

Il ragazzo sbarrò gli occhi, accesi di ulteriore sgomento. «D-donna...» balbettò.

«Una brava donna», chiarimmo subito, nel tentativo di rassicurarlo.

«Una b-brava donna?»

«Sì, tranquillo!» Gli offrimmo le spalle perché si sollevasse da terra. «Non hai nulla da temere!»

Ma il suo sguardo non pareva affatto convinto. «Il suo... no-nome...?» masticò a fatica.

«Madonna Carolina. Perché?»

Contrasse le dita nella nostra carne, e trattenemmo un gridolino. Ma il tempo di un battito di ciglia e un sorriso spaesato tornò a illuminare il suo volto.

«Carolina...»mormorò con fin troppa chiarezza, lasciando sospese le domande di Amedeo, manon le mie.    

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