Cinque: volti di cera

Le tenebre del bosco risucchiarono i raggi della luna. Allo stesso modo, una forza misteriosa incanalò i miei pensieri in un nuovo corpo.

Immagini già note assaltarono i ricordi: un lago color giada, circondato di faggi e baciato dal sole estivo, e il piacere provato nel vedere Carolina nuda, privo di qualsiasi ansia. Fu così che compresi di esser diventata ancora quell'uomo dal volto terreo che avevo visto riflesso nel secondo frammento.

Io e Lapo – perché di Lapo si trattava – vegliavamo il sonno di Amedeo e Carolina, beatamente coricati in spessi sacchi a pelo. In quanto a Ortica, si era allontanato dal gruppo diverse ore prima, senza alcuna spiegazione. Non mancava molto perché giungesse il suo turno di guardia, e le nostre palpebre assonnate non l'avrebbero atteso ancora per molto.

Solo il pensiero di quanto accaduto poche ore prima ci teneva svegli: un pensiero che, per quanto ne avvertissi il peso, mi era precluso del tutto.

Sbadigliammo. Se non fosse stato per la richiesta esplicita di madonna Carolina, nessuno dei nostri compagni di viaggio avrebbe ritenuto necessario fare quei turni di veglia. In fondo, non per altro scopo avevamo deciso di portare con noi Scorzetta.

Le donne: sempre loro...

E di Ortica non v'era ancora traccia. Che si fosse cacciato in qualche guaio? O magari ci nasconde qualcosa?

Era stato il celeste Septimum a innescare in noi una simile perplessità. Di ciò che era accaduto in sua presenza, nonché di Septimum stesso, non sapevo alcunché. Tutto ciò che rammentavo erano le sue labbra color del prato accostate al nostro orecchio.

"Tieni d'occhio quel ragazzo", aveva mormorato, "e rivelane agli altri il segreto".

Ma dove diamine sarà finito quello sbarbatello?

Era il caso che andassimo a cercarlo, pensammo tra apprensione e nervosismo. E per non dare alla ninfa alcuna ragione di rimproverare la scarsa premura nei suoi confronti, pensammo bene di lasciare Amedeo di guardia al nostro posto.

Lo svegliammo con un calcio tra le scapole.

«Che c'è?» mugugnò il ragazzo insonnolito.

«Fai la guardia a Carolina. Io vado a cercare Ortica.»

«Dov'è andato?» la voce del giovanotto si acuì. «Non gli sarà successo qualcosa?»

«Stai calmo e aspettami qui.»

C'incamminammo nella direzione in cui si era allontanato.

A differenza del bosco di faggi mostratomi più volte dai frammenti precedenti, la foresta in cui ci stavamo addentrando aveva un'aria ben più minacciosa. Un dedalo di radici sporgenti e intricati rami celava ai nostri occhi la vita notturna. Solo il lugubre verso dei gufi e il frinire dei grilli ne palesavano la presenza.

Un lieve sciabordio attirò la nostra attenzione, accompagnato da un sussurro concitato. Ci lasciammo guidare da quei suoni, finché un pallido raggio di luna non ci indicò il limitare della foresta. Ai nostri piedi, abbandonato in un mucchio scomposto, riconoscemmo il mantello di Ortica.

Girammo lo sguardo in direzione di un morbido letto, scavato da una cascatella argentata. Tra gli zampilli di cristallo, una sagoma velata di luce stava lavandosi lieta, mormorando parole incomprensibili.

Un'inspiegabile euforia la galvanizzava nel detergersi la pelle, come se il contatto con l'acqua fredda le procurasse un troppo atteso refrigerio.

«Maxime Parente...» Un sussurro più chiaro, e la lingua sconosciuta assunse le sembianze del latino.

Avanzammo un passo alla volta, chini in avanti per non farci notare.

Immersa nell'acqua dalla vita in giù, la creatura ci voltava le spalle, vestite di chiazze sanguigne.

La sua voce, dapprima grave, si tramutò in un risolino acuto e commosso. «Tibi gratias reddo, Dive mi! Tibi gratias reddo!»

D'un tratto si voltò.

Sgranò gli occhi, grandi e lucenti al chiarore notturno. Le sue mani corsero al petto martoriato, senza nascondere in tempo la vista di due piccoli seni.

Il velo della cecità lasciò le nostre ciglia, e l'evidenza ci trafisse come folgore.

Ortica era una donna.

Emozioni senza nome si agitavano nel cranio. Il mio smarrimento dinanzi a ulteriori dubbi si confondeva con le fiamme indistinte che avvolgevano l'animo di Lapo. E in un inseguirsi di rabbia e terrore, di sensuale eccitazione e di oscuri pensieri, riemersero le parole di Septimum, della sua richiesta, della sua ricompensa.

Un'intenzione si dipinse nel cuore, e me ne indignai.

Il nostro corpo si lanciò verso la fanciulla, mosso da un'ira strana, forzata, ma che non potei trattenere. «Tu!» gridammo, e il volto di Ortica sbiancò, mentre incespicava sulle gambe tremanti. «No...»

Ci scagliammo contro di lei, nel tentativo di acciuffarla. Prigioniera di quelle membra incattivite, avrei voluto gridare, ma le mie urla si tramutarono in chiodi conficcati il gola.

Lo sguardo della ragazza indugiò sul mantello, tradendo l'intenzione di recuperarlo.

Intercettammo le sue mosse, le afferrammo il polso e lo stritolammo. Un colpo di ginocchio nel ventre, seppur non troppo forte, la fece prostrare ai nostri piedi.

Un ricordo improvviso. Erano tre, o poco più, e mi pestavano senza pietà. Su quei volti sfocati, vedevo moltiplicato il ghigno di Lapo. Sugli occhi di Ortica, il riflesso dei miei.

La fanciulla tentò la fuga. Le nostre mani la trattennero per la zazzera.

Bastardo! La mia mente si spaccò in un urlo silenzioso, smaniosa di liberarsi da quel corpo finanche a farlo esplodere in mille pezzi. Non ci riuscii.

«Allora è questo che ci nascondevi, piccola sgualdrina?» ringhiava la nostra bocca. «Questo bel corpicino figlio del demonio?»

Le lacrime della fanciulla, unica voce al mio tormento, si tramutarono in un rantolo morente.

Con uno strattone, la costringemmo ad alzarsi e a seguirci.

«D-dove vuoi portarmi?»

«Vieni con me.»

«Il mio mantello!» Ortica riuscì a divincolarsi, ma non fu sufficiente: il nostro pugno le arrivò inaspettato al viso e la fece barcollare. Afferrammo poi il suo polso e avanzammo nel folto del bosco.

Urla di sdegno e singulti di dolore spegnevano il silenzio. La sagoma di Amedeo, spronato da tanto chiasso, si fece largo nella vegetazione.

«Cosa sta...» Nel vedere Ortica strisciare ai suoi piedi, le parole gli morirono in bocca.

La ragazza si accasciò sull'erba, il torace seviziato dagli spasmi.

«Guardala, Amedeo! Guardala!»

Gli occhi del ragazzino, che correvano dai nostri a quelli della figura rannicchiata, esprimevano scandalo. Le sue labbra aperte non riuscirono ad aggiungere alcunché. Dietro di lui Scorzetta abbaiava con veemenza.

«Ragazzi?»

Quando alzammo lo sguardo su Carolina, una ruga profonda le feriva la fronte. Non fu la paura a immobilizzarla, ma uno sgomento ben più profondo e antico del nostro. Uno sgomento che sapeva d'indignazione.

«Allora avevo ragione... Sei proprio tu...»

Unmulinello mi risucchiò via da quella scena. Un buio più fitto della notte mi siavviluppò attorno, e l'ultima cosa che udii fu l'atroce grido di Ortica.    

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